La prima volta che ho incontrato Gelindo
Abbiamo incontrato Luigi Visconti, da quarant'anni storico Barba Mafé, che ha iniziato a recitare nella "Divota Cumedia" da bambino. Con lui abbiamo parlato di Gelindo, del dialetto, di un'Alessandria che cambia e che tira le sue somme, da novantuno anni, nella businà del pastore. E ci siamo ritrovati a tu per tu con una tradizione che, contro ogni previsione, continua a resistere...
Abbiamo incontrato Luigi Visconti, da quarant'anni storico Barba Mafé, che ha iniziato a recitare nella "Divota Cumedia" da bambino. Con lui abbiamo parlato di Gelindo, del dialetto, di un'Alessandria che cambia e che tira le sue somme, da novantuno anni, nella businà del pastore. E ci siamo ritrovati a tu per tu con una tradizione che, contro ogni previsione, continua a resistere...
La prima volta che ha incontrato Gelindo era un bambino.
Sì, ero un bimbo di dieci anni, più o meno. Frequentavo la quinta elementare e ho esordito interpretando il figlio di Gelindo, Narciso. Poi, come sempre accade sul palco del S.Francesco, crescendo ho cambiato diversi ruoli. Sono stato prima San Giuseppe – e lì ho conosciuto mia moglie, che recitava nel ruolo della Madonna – e qualche tempo dopo sono diventato Barba Mafé. E ormai son quarant’anni, che vesto i suoi panni…
La storia di Gelindo, però, è anche quella delle generazioni che si alternano sul palco del teatro, proprio come è capitato a lei. Si parte da bimbi, si cresce e si cambia. E ai padri, spesso, subentrano i figli
A me è successo proprio così. Mio figlio Luca ha iniziato a recitare in Gelindo nel ruolo di Narciso, prima di diventare Tirsi. Mia figlia, invece, interpreta la Madonna. E da quest’anno arriva la terza generazione: il mio nipotino farà Gesù Bambino.
Ottant’anni in compagnia di Gelindo sono un bel traguardo. Quante cose sono cambiate, negli anni?
Molte. Innanzitutto il dialetto, che è sempre meno parlato e capito. Quando ho iniziato, quando Gelindo ha iniziato, in città si parlava dialetto alessandrino, e praticamente tutti capivano. Poi, nel dopoguerra, lo scenario italiano è cambiato: la Fiat, ad esempio, richiamava molti lavoratori che spesso arrivavano dal Meridione. Prima di stabilirsi a Torino, però, passavano qualche anno in Alessandria, che era vicina e meno cara. Gelindo era una novità, per loro, e moltissimi, in quegli anni, compravano il biglietto per assistere alla commedia. Il problema, però, era sempre quello: il dialetto non si capiva. Allora capitava che si sedessero accanto ad alcuni alessandrini, capaci di “tradurre” in italiano. Ed è una pratica che succede ancora, in realtà.
Nonostante lo scoglio della lingua, però, Gelindo continua a registrare numeri di tutto rispetto.
Sì, lo scorso anno abbiamo strappato 1850 biglietti. Un bel numero, soprattutto se si tiene conto che di solito, in Alessandria, le tradizioni non durano poi tanto. Invece questo pastore riesce a resistere e conquista tutti. La prima “traccia” di Gelindo risale a metà dell’ ‘800, con le raccolte di Rodolfo Renier, che aveva cercato di recuperare qualche traccia dal passato. Poi nel 1974, cinquant’anni dopo la prima messa in scena del ’24, Aldo Moraschi ha scritto “Il Mio amico Gelindo”, raccogliendo i temi classici del Gelindo. Dieci anni più tardi è toccato al supplemento di Renato Lanzavecchia all’edizione speciale della rivista “La Provincia di Alessandria”, coi due libretti che affrontano il lato culturale e spirituale di Gelindo. Nel 1994, per il 70°, si è stampato il testo in italiano e dialetto e nel 2014, per il 90°, si son raccolte le “Businà”, mentre il 1999 ha visto un 75° compleanno con la Divota Cumedia, con la prefazione di Umberto Eco e gli scritti di personaggi importanti della città e della tradizione di Gelindo. Insomma, di strada, il pastore, ne ha fatta…
Nel 1924, la prima messa in scena. Di chi fu il merito?
Tutto quanto è nato dal frate che dirigeva l’oratorio di San Francesco. Aveva saputo che nel 1922, a Tortona, si era fatta stampare un’edizione del Gelindo in dialetto tortonese, grazie al Canonico Testone. Il frate non ci aveva pensato due volte: nel 1923 s’era fatto dare il testo originale e l’aveva lasciato ai suoi giovani, perché lo traducessero in dialetto alessandrino. L’anno dopo, nel 1924, il primo Gelindo apostrofava il suo pubblico col suo celebre “buna sira, buna sira me cari siuri”…
Una tradizione che si rinnova ogni volta, con la businà che cambia e racconta le vicende della città nell’anno che si avvia a conclusione.
La businà è la parte più irriverente e moderna di Gelindo, coinvolge i personaggi celebri della città, le vicende che hanno dominato le pagine dei giornali e racconta, rigorosamente in dialetto, come e quanto è cambiato il volto della nostra Alessandria. Negli anni se ne sono dette tante, lo abbiamo notato con le raccolte delle businà degli ultimi vent’anni. Qualcuno, forse, si sarà sentito colto sul vivo ma nessuno sembra mai essersi offeso. Del resto, è il modo di far satira di Gelindo, subito prima di accantonare la novità per la tradizione e raccontare la favola, sempre quella, sempre uguale da novant’anni, che vede un semplice pastore monferrino capitare, quasi per caso, a cospetto di Gesù Bambino, giusto in tempo per dirgli quel “ciao, bel Bamben” che, ormai, è tradizione…