Il sacrificio di Mario Talice
La triste e gloriosa storia del partigiano di Monte Valenza
VALENZA – In questo breve saggio raccontiamo la triste e gloriosa storia del giovane partigiano di Monte Valenza, Mario Talice, che combatté coraggiosamente nelle file della Divisione Patria, comandata da Edoardo Martino (Malerba), in un’epoca difficile e tormentata.
L’inverno tra il 1944 e il 1945 era stato particolarmente duro e interminabile, un periodo segnato da attese, speranze, passione e innumerevoli sacrifici.
I soldati tedeschi, ormai consapevoli del vacillare della loro fede nella vittoria finale, intensificavano i loro sospetti e la loro brutale furia. Con vasti rastrellamenti e le spietate requisizioni di derrate alimentari e bestiame, mentre gli italiani, talvolta anche nemici tra loro, spesso versavano il sangue in lotte fratricide, rendendo quei giorni ancora più bui e angoscianti.
Nella nostra zona, operavano diverse formazioni partigiane: la Brigata Garibaldi, comandata da Enzo Luigi Guidi, legata al Partito Comunista; la Divisione Matteotti, vicina al Partito Socialista; Giustizia e Libertà, un movimento laico composto da repubblicani e liberali e infine la XI Divisione Autonoma Patria, guidata da esponenti di estrazione cattolica, il cui capo politico e militare a Valenza era Luigi Venanzio Vaggi.
La presenza dei “partigiani bianchi” sulle nostre colline, il cui ruolo non fu per niente marginale, era servita a controllare e mitigare le tensioni alimentate soprattutto nell’ambiente rurale dagli atteggiamenti talvolta intransigenti dei “partigiani rossi”. Questa delicata opera di mediazione aveva contribuito a mantenere un certo grado di coesione e solidarietà tra le diverse anime della Resistenza locale, nonostante le profonde differenze ideologiche.
La storia di Mario Talice, il giovane partigiano valenzano, nato a Torino il 17/10/1921, incarna dunque lo spirito di sacrificio e di dedizione della Resistenza in quelle terribili circostanze, in cui uomini di diversa estrazione politica e sociale si unirono per combattere un nemico comune, sfidando la brutalità dell’occupazione nazifascista.
Nel piccolo borgo di Monte Valenza, un gruppo di giovani, armati di coraggio e determinazione, attendeva con ansia il momento in cui avrebbero potuto liberare le loro contrade martoriate dallo straniero oppressore. Questi giovani partigiani, appartenenti alla 43° Brigata Patria (che in seguito sarebbe stata ribattezzata come Brigata Talice), erano comandati dal capitano degli alpini Giovanni Sisto (Mirabello Monferrato, 1916-1994), dal 1956 presidente della Provincia di Alessandria e poi deputato. Provenivano da famiglie sfollate nella frazione di Monte Valenza e, dopo aver compiuto un audace colpo di mano, rientravano furtivamente nelle loro abitazioni per rassicurare le loro famiglie, terrorizzate dalla paura.
Questo episodio sanguinoso e drammatico si inserisce con particolare rilevanza negli annali della lotta di Liberazione di questo piccolo gruppo di partigiani. Ciò che li distingueva dai combattenti di altre brigate era la loro visione cristiana della vita, che li poneva di fronte agli eventi e ai nemici in modo del tutto differente. Privi di particolari motivazioni ideologiche o politiche, questi giovani combattevano il fascismo e i tedeschi con l’unico scopo di accelerare il più possibile la fine della guerra e il ritorno alla libertà.
Legati da una vera e profonda amicizia fraterna, questi partigiani avevano una sensibilità e una consapevolezza che andavano oltre il semplice desiderio di vendetta o di rivincita. La loro lotta era animata da una visione più alta, radicata nei valori della fede e della carità cristiana, che li spingeva a difendere la loro terra e il loro popolo con coraggio e abnegazione.
Questo episodio, dunque, rappresenta un momento di grande importanza nella storia della Resistenza italiana, in cui emerge la figura di un gruppo di giovani partigiani animati da ideali di giustizia, solidarietà e amore per la propria patria, che li hanno condotti a compiere atti di eroismo e sacrificio per la liberazione del loro territorio.
È sera inoltrata di sabato 31 marzo 1945, vigilia di Pasqua, a pochi chilometri di Valenza il paese di Giarole, immerso nella buia foschia, è completamente oscurato per evitare i bombardamenti aerei nemici. Un gruppo di ombre si muove con fare furtivo e parla a bassa voce, sono i partigiani bianchi della squadra di Monte Valenza, composta da Mario Talice, studente reduce dal fronte russo; Tito Paneri, ufficiale di Marina; Peppino Capetta, ufficiale di Artiglieria; Domenico Paiusco; Felice Scurati e Franco Annarratone. Questa squadra è stata organizzata da Secondo Conti (Giulio), vice comandante della Divisione Patria e capitano degli Alpini della Divisione Julia, ed ha il compito di compiere azioni di disturbo e protezione nella zona. Quella sera, l’obiettivo della loro missione è un’azione di sabotaggio contro un treno merci fermo in stazione, controllato dalle truppe tedesche. Mario Talice bisbiglia ai suoi commilitoni: “Domani, durante le celebrazioni pasquali, andrò a soddisfare il precetto, devo far contenta mia madre”, pronunciando queste parole con evidente commozione.
In quel punto buio, dove le ombre si muovono con cautela congiungendosi e allontanandosi nel tentativo di scrutare le tenebre, dovrebbe trovarsi l’incaricato locale di Giarole, la cui collaborazione è essenziale per il buon esito dell’azione programmata e comandata. Ma l’uomo non si vede, e la sua assenza crea preoccupazione e incertezza tra i partigiani. La situazione è tesa, le ombre si muovono con maggiore cautela, ascoltando ogni suono che potrebbe segnalare l’arrivo dell’incaricato o, peggio, l’avvicinarsi di pattuglie nemiche. Il silenzio è interrotto solo dal bisbiglio dei partigiani che si scambiano rapide comunicazioni, cercando di capire cosa fare. L’azione di sabotaggio, pianificata con cura, rischia di fallire a causa dell’imprevista assenza dell’informatore locale.
La paura aleggiava nell’aria del piccolo paese, dove era presente un contingente di truppe tedesche. La gente sussurrava tra sé, scambiandosi impressioni e commenti sommessi, con il cuore in gola. Dall’ombra di alcune case, chiuse alla luce ma non ai rumori, una voce tremante si levò: “Ci sono i ribelli!”. L’informazione, serpeggiando silenziosamente, raggiunse in breve le orecchie dei soldati tedeschi. Subito le pattuglie di occupazione si misero in movimento, armati di mitra e bombe a mano, per perlustrare le strade. Nel frattempo, il commando dei ribelli si era diviso in due gruppi, nella speranza di individuare l’informatore che non si era presentato all’appuntamento. Da una parte c’erano Mario e Tito, dall’altra Peppino, Franco e Domenico. Ignari del fatto che i tedeschi erano già in azione, i gruppi avanzavano per la strada di circonvallazione, incrociando il viale della stazione. All’improvviso, un fascio di luce accecante e un rauco grido in lingua straniera li sorpresero. I ribelli si resero conto di essere caduti in una trappola mentre i soldati tedeschi, appiattiti nel fosso laterale, li tenevano sotto la mira dei mitra. La tensione era palpabile, il confronto imminente. Nessuno sapeva cosa sarebbe accaduto di lì a poco, ma una cosa era certa: il paese era ormai diventato il teatro di un pericoloso scontro.
Improvvisamente il silenzio greve della notte è interrotto da colpi di arma da fuoco e da bagliori. Tito e Mario sono coinvolti in una violenta sparatoria con le forze tedesche. Senza esitazione, i due giovani partigiani affrontano lo scontro a fuoco, anche se con armi chiaramente inferiori rispetto ai potenti mitra nemici. Esaurite rapidamente le munizioni delle loro modeste rivoltelle, Tito e Mario cercano disperatamente di fuggire attraverso il buio, nella speranza di sottrarsi al fuoco incrociato dei tedeschi. Mario, con un ultimo sforzo, tenta di scavalcare un cancello che si frappone tra lui e la possibile salvezza oltre. Ma, purtroppo, una raffica di mitra lo colpisce in pieno durante il balzo, uccidendolo. Un soldato tedesco, con fredda brutalità, lo colpisce con un violento calcio, scaraventandolo a terra come se fosse una carogna. Tito, sebbene gravemente ferito, riesce miracolosamente a sfuggire all’accerchiamento nemico grazie all’intervento provvidenziale dei suoi compagni partigiani, accorsi alle sparatorie. Viene quindi trasportato e messo in salvo in aperta campagna.
Per il povero Mario Talice, quella drammatica mattinata segna la fine di tutto. Nell’attimo supremo in cui la sua vita si spegne, forse, il giovane partigiano riesce a rivedere con lo sguardo interiore l’immagine della sua amata madre, in attesa del suo ritorno. Con un’ultima infinita dolcezza pronuncia il suo nome, fissando idealmente un appuntamento in un luogo dove non esistono più paure, né soldati, né armi da fuoco, solo amore e pace eterna. Quella stessa mattina di Pasqua, il sole sorge radioso, quasi a voler annunciare agli uomini il messaggio di rinascita e speranza della Resurrezione. Ma per Mario, purtroppo, non ci sarà alcuna nuova alba.
Il suono delle campane che riecheggiava per le campagne e i paesini circostanti era disordinato, eppure armonioso nella sua discordante melodia. Quel mattino di Pasqua, però, quella sinfonia mattutina non riusciva a dissipare il senso di angoscia e di incubo che aveva invaso i cuori degli abitanti, costretti a rimanere tappati in casa dopo il coprifuoco, quando alcune improvvise e rabbiose raffiche di mitra avevano squarciato il silenzio notturno con il loro sinistro frastuono. Gli echi agghiaccianti di quella secca gragnola di colpi avevano fatto tremare persino il piccolo gruppo di case arrampicate sulla cima di Monte Valenza, provocando un brivido di paura nel cuore sconvolto della madre di Mario, che si strinse istintivamente lo scialle di lana intorno alle spalle in un gesto istintivo di protezione. Quel suono cupo e lugubre delle campane insinuava negli animi un senso di paura e terrore, lo stesso panico che aveva colto le devote donne che, scivolando fuori dalle loro case all’alba per recarsi alla prima messa, erano inorridite nello scorgere sulla bianca polvere della strada una massa informe e scura. Era il corpo senza vita di un giovane, che la morte aveva sorpreso nell’estremo tentativo di afferrarsi alle sbarre di un rustico cancello, come se avesse cercato disperatamente di trovare rifugio e scampo da qualcosa di terribile. Quel macabro ritrovamento aveva gettato nello sconforto l’intera comunità, che faticava a comprendere cosa fosse accaduto durante la notte, in quel silenzio rotto solo dallo scampanio pasquale.
Ciascuna di quelle donne istintivamente si fece il segno della croce e tremò per il proprio figlio, mentre una mamma a Monte Valenza, dopo una notte insonne e angosciosa, attendeva ancora, in una speranza assurda, il ritorno del suo Mario. Ogni rumore, ogni passo che si avvicinava alla porta la faceva sobbalzare, sperando di vedere finalmente il volto del suo figlio. Purtroppo, quel giorno fatale, l’uscio si aprì e a fare irruzione nella sua attesa fu un gruppo di amici dal volto grave e lo sguardo mesto. Con poche parole, le comunicarono la terribile notizia: Mario, il suo amato, era caduto in battaglia. Il suo corpo, privo di vita, era stato riportato con una barosa, su di un semplice giaciglio di paglia, adagiato come un eroe caduto. La donna rimase sconvolta, incapace di proferire parola, con il dolore e la disperazione che le toglievano il respiro. Le sue speranze si erano infrante, come onde che si schiantano contro gli scogli, e la sua vita avrebbe dovuto ricominciare da capo, in quella cupa solitudine che solo la perdita di un amore può lasciare.
Una giovinezza stroncata; una tomba aperta, senza funerali, nel piccolo cimitero di Monte Valenza, nello strazio di genitori che hanno perduto l’unico figlio di 24 anni, bello, esuberante, forte e generoso, Mario Talice.