La chiesa della SS. Annunziata di Valenza e la sua cripta sepolcrale
L’edificio sacro più artistico ed elegante della città
VALENZA – La chiesa della Santissima Annunziata ubicata in via Pastrengo a Valenza, conosciuta come chiesa di San Rocco in onore all’omonima confraternita istituita sotto la protezione del santo, è l’edificio sacro più artistico ed elegante della città. Essa è legata a uno degli avvenimenti storici più rilevanti di Valenza, l’assedio francese del 1696, quando il monastero dell’Annunziata, fondato fra il 1431 e il 1441 (parroci Francesco Leccatore e Francesco Schiffi) dalle monache agostiniane – pie donne nubili in odore di santità che vivevano insieme condividendo il culto di Maria Annunziata – collocato sulle fortificazioni di porta Bassignana, dopo un lungo percorso virtuoso con qualche eccezione, venne quasi completamente distrutto dai cannoneggiamenti subiti tra settembre e ottobre del 1696.
Il motivo del massacro non differisce molto da quelli che lo hanno preceduto: i francesi uniti ai piemontesi, che non hanno mai smesso di allungare gli artigli su Valenza, vogliono togliere nuovamente la città agli spagnoli. Nonostante la brevità dell’assedio, i danni alle persone, alle abitazioni e a molte strutture sono gravissimi. Ci sono più di un centinaio di vittime e il monastero dell’Annunziata, quasi addossato al Forte Caracena (ora Parco Trecate, secolare parco de Cardenas-Trecate dove si trovava la residenza dei governatori spagnoli) è quasi completamente distrutto e le monache, com’era già avvenuto nel 1557 con le monache benedettine di S. Caterina, si devono trasferire presso l’Ospedale del Santissimo a Porta Po, messo a loro disposizione dal governatore dello Stato di Milano. Dove decisero di fermarsi, vista la pericolosità del vecchio monastero troppo esposto alle violenze guerresche, offrendo in cambio alla compagnia del Santissimo la parte del loro vecchio convento rimasta in piedi. Per il danno, le religiose si assicurarono un indennizzo di 9.390 lire dal magistrato, previa stima eseguita dagli architetti Richini e Serena.
La fondazione del nuovo edificio sacro e la ricostruzione del convento si devono quindi all’iniziativa delle stesse intemerate suore agostiniane. Nel luglio del 1699, ha inizio la costruzione della nuova chiesa, con disparate difficoltà e tanta caparbietà, ma avanti e che Dio la mandi buona poiché il coraggio e l’orgoglio che hanno loro non sono da tutti. La costruzione venne divisa in due parti: la chiesa interiore per le monache e la chiesa esteriore per i fedeli; infatti, due grate ai lati dell’altare maggiore permettevano alle monache di clausura di seguire i riti religiosi senza essere viste. La SS. Annunziata è diventata così uno dei più pregevoli monumenti sacri ancora oggi presenti a Valenza.
La facciata della chiesa, costruita secondo le linee del barocco piemontese con mattoni a vista, è mossa da delicate modanature: probabilmente l’artista, rimasto anonimo (una sbavatura incomprensibile), era un piemontese che agiva nell’ambito artistico-culturale lasciato da Guarino Guarini, uno dei massimi esponenti del barocco piemontese.
A croce greca, la pianta presenta quattro bracci uguali. A destra della facciata, con i suoi 25 metri, si eleva il campanile, che cela all’interno una scalinata a spirale con gradini in pietra infissi direttamente nella muratura. Da notare anche la cupola con lanterna, alta 18 metri, al centro dell’edificio, in cui risalta l’altare maggiore in marmo dedicato alla Vergine Annunziata. Il transetto è appena segnato da due opposte cavità, ove sono collocati, a destra e a sinistra, due altari in stucco: uno dedicato a San Carlo, l’altro a San Giacomo.
Nel sotterraneo dell’edificio, raggiungibile attraverso un’apertura grigliata posta alla fine di un corridoio che diparte dal fianco del coro, vi è la cripta sepolcrale delle suore di clausura, il colatoio dei morti, dove i cadaveri venivano inumati in piccole cellette: le salme erano messe sedute sopra un apposito scalino ricavato nelle cellette, e mantenute in quella posizione da un supporto ligneo fissato sotto il mento.
Era una specie di vasca muraria, dotata di un foro che consentiva il deflusso dei liquidi cadaverici che fuoriuscivano durante la decomposizione, togliendo al corpo, in modo naturale e sotto l’azione del tempo, le parti molli e putrescibili, fino al totale essiccamento. Una volta concluso il processo di putrefazione dei corpi, le ossa venivano raccolte, lavate e traslocate nella sepoltura definitiva dell’ossario.
Questa procedura intendeva rappresentare visivamente i vari stadi di dolorosa purificazione affrontati dall’anima del defunto nel suo viaggio verso l’eternità, accompagnata dalle costanti preghiere delle consorelle con le loro convinzioni profonde. È sorprendente scoprire quanto si celi sotto il suolo di questa chiesa così ricco di vita, storia e verità.
Le tombe, databili attorno al XVIII secolo, sono state profanate con la speranza, forse, di ritrovare oggetti preziosi, che, invece, proprio per esigenze di culto non erano presenti.
Fra le varie opere d’interesse artistico rimaste nella chiesa, si segnalano il coro ligneo e un organo settecentesco ingrandito nell’Ottocento, posto nella cantoria sopra la porta d’ingresso e racchiuso in una cassa di legno addossata alla parete; si tratta dell’organo più antico di Valenza, che, insieme a quello del duomo e della chiesa della SS. Trinità, costituisce un importante patrimonio storico- artistico. Non si conoscono né l’autore né l’anno di fabbricazione dello strumento, si sa solo che venne restaurato nel 1846 dall’organaro Carlo Pallavicini di Vigevano, che aggiunse diversi registri, e, all’inizio del Novecento, da Elia Gandini di Varese.
La chiesa conserva alcune tele secentesche di pregio, in particolare quella raffigurante il martirio di San Sebastiano, quella di San Carlo Borromeo e un’ultima, gravemente danneggiata, che rappresenta San Carlo e Sant’Agostino.
Scardinando ogni certezza, nel 1802, il governo francese, accalorato di laicità illuminista, nell’ambito della politica di soppressione degli ordini e degli edifici religiosi, dopo una specie di consultazione diretta, quasi blasfema, donò la chiesa alla vecchia confraternita di San Rocco e destinò il monastero a uso degli impiegati comunali. Nelle votazioni del tempo, usando la disperazione dei fragili, obbedienti al cumulo di sciocchezze e ipocrisie propinate, funzionava così: se vinciamo noi governanti, comandiamo noi, se vincete voi sottomessi, anche.
La chiesa subì alterne vicende nel corso dell’Ottocento. Furono fatti tre prevedibili tentativi, ripetitivamente falliti, di impossessarsi della chiesa ridotta ormai all’irrilevanza come un artista passato di moda; il primo nel 1811, dal prevosto Francesco Marchese, un ingegnoso provocatore di solito letale che, con una etica più bellica che spirituale, cercherà da farsela assegnare come sussidiaria della parrocchiale; il secondo nel 1825, dalla dogmatica Congregazione di Carità, con vacua retorica; il terzo, nell’ottobre del 1826, quando si rivolse una al re per far ammettere la chiesa alla prebenda parrocchiale.
Nel 1835, il monastero e la chiesa furono assegnati all’ordine dei Camilliani, frati di San Camillo – un ordine religioso fondato da San Camillo de Lellis per sostenere i malati – i quali, al cospetto del loro caritatevole paradigma, e senza svenimenti di gioia, officiarono fino al 1866, quando con lo stesso sfortunato destino la legge sulla soppressione delle corporazioni religiose costringe irrimediabilmente le monache ad abbandonare le antiche celle di clausura per essere accorpate con tanta sofferenza ad altri monasteri, e quindi, per la seconda volta, tutto, ostinato e sepolto dal silenzio, passò alla confraternita di San Rocco, all’epoca di gran moda e devota al vento del momento, che, pur se qualche volta sconvenientemente sbeffeggiata, ancora adesso detiene saldamente la chiesa quale contributore prevalente e tradizionale.
L’opera di restauro contemporaneo dell’edificio è iniziativa della confraternita nel 1979; dopo la vendita di alcuni lasciti, a essa si devono il restauro degli affreschi, la sostituzione dei telai delle finestre, oggi in ferro, il rifacimento degli intonachi delle cupole, delle pareti e del coro, l’adeguamento dell’impianto elettrico alle norme di sicurezza e dei sistemi anti intrusione per preservare il patrimonio inestimabile dalle ruberie. In tempi più recenti, sono stati restaurati gli esterni della cupola, del campanile e della facciata, con la ripulita del bellissimo portale d’ingresso.
Dal 1988, la chiesa della S.S. Annunziata è stata dichiarata sede spirituale del corpo dei vigili urbani, poiché in essa se ne onora il loro patrono, San Sebastiano, la cui statua effigie è stata scolpita e benedetta in occasione del 120° anniversario di fondazione del corpo, nel 1868, la cui ricorrenza si celebra ogni anno il 20 gennaio.
L’edificio è ora gestito dalla Confraternita cattolica SS. Rocco, Sebastiano e Beato Gerardo, una sparuta minoranza laica di postura tardo praticante per una cristianità in declino da tempo, con sfumature nostalgiche di un mondo trapassato, frammenti di storia e di opere rimaste e altri persi nella memoria del tempo.