Il 1943 a Valenza
Un nuovo approfondimento sulla storia della Città del Gioiello
VALENZA – Il 1943 è un anno cruciale nella storia del nostro paese e l’anno in cui si scontano gli effetti più catastrofici della guerra e della dittatura. Il 25 luglio 1943, il Gran Consiglio del Fascismo vota la sfiducia a Mussolini, che si dimette e viene arrestato. Di fronte all’incubo della disfatta militare, gli stessi sostenitori del regime pongono fine a vent’anni di oppressione, instaurata col beneplacito e la collaborazione delle classi medie e alte. Le strade italiane si riempiono di gente festosa e gli emblemi fascisti vengono rimossi. Anche a Valenza la reazione è di grande entusiasmo e di risentimento: si inneggia al Sovrano e al maresciallo Badoglio, anche se tra i veri antifascisti emerge una grande prudenza dettata da una situazione incerta.
A Valenza l’apparato del regime entra in crisi tra il 1942 e il 1943, quando ormai è chiaro che la guerra sta concludendosi tragicamente; in questo periodo il fermento cresce nella popolazione, anche se molti aspettano ancora di vedere dove soffierà il nuovo vento e continuano a tacere e riverire. I quadri superstiti del popolarismo, insieme alle nuove leve d’intellettuali e di organizzatori che si sono formati all’interno del movimento cattolico durante il regime, danno vita a una nuova forza politica che sarà destinata a essere protagonista della rinascita democratica e dello sviluppo economico dell’Italia, la Democrazia Cristiana, un partito populista assistenziale in cui ci sarà posto per tutti e che negli anni futuri farà coesistere troppe identità per poterne averne una sua.
La partecipazione dei cattolici valenzani al nuovo movimento politico e alla lotta di liberazione inizia nel 1942, prima della caduta del fascismo. Si tengono molte riunioni all’Oratorio, dove sono alloggiati i tedeschi, che, senza avvedersene, fanno involontariamente da guardia. Nell’estate di quell’anno, Giuseppe Brusasca è incaricato da De Gasperi di organizzare il nuovo partito nella provincia di Alessandria. Egli, con la collaborazione di Carlo Torriani, prende i contatti con i vecchi amici della Gioventù Cattolica e del PPI.
Così a Valenza si forma il primo gruppo organizzato e, nel febbraio del 1943, durante una riunione nel retrobottega della farmacia di Maria Manfredi in Via Cavour, tra flaconi e barattoli, viene costituita la prima sezione in clandestinità della Democrazia Cristiana in provincia. Oltre a Brusasca, sono presenti i valenzani Luigi e Vittorio Manfredi, Luigi Stanchi, Luigi Venanzio Vaggi, Carlo Barberis, Pietro Staurino, Giuseppe Bonelli, Luigi Deambroggi e Felice Cavalli.
Convinti che il regime fascista abbia i giorni contati e con qualche ipotesi utopica, i convenuti si preparano con profonda emozione ad assumersi la responsabilità di lottare per un nuovo paese libero e democratico, consapevoli di dover ancora fare i conti con una feroce realtà. Brusasca detta i chiarimenti sulla struttura, sulle finalità e sul contenuto programmatico della nuova Democrazia Cristiana, destinata ad accogliere i superstiti del Partito Popolare e i gruppi con altre esperienze intellettuali, come le nuove generazioni dell’Azione Cattolica che non hanno affatto paura di menzionare la parola di “Dio” e non accettano di farsi imbalsamare in loculi ideologici. Alle riunioni occulte tenute all’Oratorio partecipano i fondatori citati e diversi altri, quali Porta e Illario, importanti dirigenti futuri. Localmente questo diventerà il partito dei sentimenti e dei risentimenti, con reazionari e sacrestani, ma con poche possibilità di incidere sulla politica valenzana del dopoguerra, che sarà sempre dominata da una cieca contrapposizione. Responsabile della sezione viene nominato “Gigi” Venanzio Vaggi, astuto manovratore pieno di virtù.
All’inizio dell’estate del 1943, tra euforie artificiose, frustrazioni avvilenti, disorientamento generale e i primi salti della quaglia, i comunisti valenzani intensificano i contatti e gli incontri: nel susseguirsi incalzante degli eventi, il giorno della riscossa si avvicina. Si stabiliscono i primi legami con esponenti esterni e con il valenzano Ercole Ferraris, fondatore e primo segretario del partito in Alessandria. Questi è rappresentato in città da Ercole Morando, il calzolaio rivoluzionario, senza peccato, sognante l’avvento di Stalin, che ha lottato nella clandestinità accanto ai principali esponenti provinciali. Tenace e coraggioso, egli è il punto di riferimento politico del comunismo locale, che, pur con tante contraddizioni, rappresenta la scelta antifascista e repubblicana più radicale. Partecipano alle prime riunioni nascoste Casolati, Dogliotti, Guidi, Rossi, Vaccario, Visconti e altri valenzani, che riescono a trasformare molti esponenti del sottobosco in veicoli di cambiamento, anche se alcuni “cantori rousseauiani” di un tempo si sono persi per strada. Il risultato fallimentare del regime fascista è talmente chiaro che la necessità di un cambiamento è avvertita da tutti.
Nel luglio del 1943, dopo la caduta di Mussolini, avvenuta il 25, arrivano le prime colonne tedesche e le autorità fasciste locali, impaurite e fuori controllo, convocano in Comune alcuni noti antifascisti per costituire un Comitato di difesa civile. Il Comitato viene composto dai rappresentanti dei vari partiti antifascisti: Boris per i socialisti, Morando per i comunisti, Vaggi per la Democrazia Cristiana e Poggio per i liberali, ma è una manipolazione che sfuma in un batter d’occhio. A settembre, da questo primo nucleo, disarticolato, demagogico e poco incisivo sulla vita reale, nascerà il C.L.N. locale.
La gente è sempre più stanca della guerra, la vita quotidiana è mutata, cresce sempre di più l’incertezza e l’avversione per il fascismo, che ha ormai perso ogni influenza locale. Anche a Valenza il conflitto ha causato e causerà ancora tanta sofferenza, in mezzo al caos che regna sovrano. La povertà, l’oscuramento, la cartolina rosa, i bombardamenti, gli annunci dei primi caduti, Peppino l’aviatore notturno, le tessere dei pochi generi alimentari, i sacrifici, le privazioni, gli sfollati, il pane nero, la posta censurata, la borsa nera, le macellazioni clandestine, la confisca del bestiame, il sale irreperibile, il tabacco in foglie, i renitenti alla leva.
Il 3 settembre viene firmato l’armistizio tra il paese e gli alleati e, proprio quando l’incubo sembra essere finito, si va invece verso l’occupazione tedesca, la Repubblica di Salò e la guerra civile, con molti giovani che si arruolano nella R.S.I. convinti di difendere l’Italia dagli invasori inglesi e americani. L’8 settembre è annunciata via radio la firma dell’armistizio e, Il giorno dopo, la Germania nazista reagisce occupando l’Italia, mentre lo sbarco alleato a Salerno è in pieno svolgimento. Il re Vittorio Emanuele III e il capo del governo Pietro Badoglio, che il 25 luglio aveva pronunciato la famosa frase “la guerra continua”, fuggono con i vertici militari e istituzionali. Tre giorni dopo, Il prigioniero Mussolini è liberato dai tedeschi e poi dà vita alla Repubblica Sociale Italiana. Nella scomparsa delle istituzioni, a prendersi su di sé la responsabilità di resistere è chi era stato escluso e maltrattato dal regime; anche i bandi della R.S.I. spingeranno molti giovani a ribellarsi in modo sempre crescente. Questi resistenti-partigiani, che non indossano soltanto la camicia rossa, saranno sempre definiti, banditi e traditori da chi gestisce in modo tracotante il potere. La guerra partigiana riuscirà, però, a coinvolgere persone di ogni gruppo sociale, credo politico e religioso, che saranno inquadrate in modo crescente dal C.L.N. In questi giorni nasce il C.L.N. locale costituito da Boris (PSIUP), Morando (PCI), Vaggi (DC), Corones (PdA), in seguito modificato e integrato con Cuttica (P.L.), Dogliotti (PCI), Scalcabarozzi prima e Mazza poi (PSIUP). Le tante riunioni sono tenute in ordine di tempo in casa Boris, in casa Scalcabarozzi, all’Oratorio, in casa Mazza a Monte e a casa dei fratelli Marchese.
Il giorno in cui la Wehrmacht tedesca occupa l’Italia, l’8 settembre 1943, viene fondata la sezione locale del Partito Comunista Italiano. L’evento si realizza durante una riunione notturna all’aperto in strada dello Zuccotto, ora via San Salvatore, con la presenza di Armando Baucia, Dante Casolati, Giovanni Dogliotti, Enzo Luigi Guidi, Carlo Masi, Ercole Morando, Luigi Prato, Ferruccio Rossanigo e Pietro Rossi. Le cariche del primo comitato locale vengono così distribuite: presidente Guidi, segretario Morando, economo Casolari e membro Dogliotti. Qualche settimana dopo, la segreteria viene assegnata al Guidi, uno dei principali protagonisti della Valenza antifascista e partigiana. Dogliotti, invece, è il leader virtuale, che si maschera con grande modestia.
La presenza di un grosso presidio tedesco a Valenza e di forze fasciste GNR (Guardia Nazionale Repubblicana) e Brigate nere costringe gli antifascisti a misurare le scelte operative con estrema prudenza. Le loro azioni, che richiedono una certa dose di coraggio, saranno basate più al sabotaggio che sullo scontro armato e saranno compiute soprattutto alla stazione e verso i treni, sfruttando ogni opportunità che favorisca il danneggiamento del nemico; a queste imprese si affianca anche un’opera incessante di incitamento e di persuasione, cogliendo l’unità dell’agire e del pensare. Il primo vero scontro a fuoco avviene la sera di Natale, nella galleria che collega Valenza a Valmadonna, dove venivano occultati esplosivi.
Dopo l’8 settembre, si presta aiuto ai prigionieri alleati-inglesi, americani, australiani e neozelandesi, quando, a seguito del disfacimento del nostro esercito, rimasto senza ordini, sono liberati soldati e ufficiali che erano rinchiusi nella fortezza di Gavi e in altri luoghi di prigionia. Sono sfamati e, molte volte, vestiti e calzati da famiglie valenzane e dai partigiani, trattamento riservato anche a diversi carabinieri in defezione, per la maggior parte anziani e richiamati, soprattutto rivestendoli con panni civili. Sono rintanati in case ospitali e poi nascosti in luoghi più sicuri. Valida e instancabile staffetta combattente, che assiste questi ex prigionieri è la giovane Mariuccia Sannazzaro.
Le prime formazioni partigiane sorgono spontaneamente, grazie ad un forte radicamento e sostegno della popolazione locale, con caratterizzazioni e matrici ideali-culturali differenti tanto citate e altrettanto trascurate.
A fine novembre 1943, il valenzano Mario Alberto Tuninetti diventa il direttore del settimanale Il Piccolo; in passato, era stato vicesegretario federale di Alessandria. Il linguaggio di Tuminetti, che abbonda in retorica compiacente, è tipico e paradigmatico del radicalismo propagandistico della Repubblica Sociale. Ormai, pervasi da timori crescenti, pochi recitano con dignità il loro ruolo istituzionale.
Sono molte le retate che GNR e Brigate nere compiono in città, terrorizzando la popolazione, allo scopo di catturare renitenti e antifascisti. Una di queste, il 16 gennaio 1944, eseguita nel bar Achille, costringe il giovane resistente Sandro Pino a cercare scampo con la fuga, ma, dopo pochi passi, il diciannovenne viene colpito da una scarica ad opera di un milite graduato della GNR della Legione di Alessandria e muore dopo alcune ore. L’evento e la brutale scena finale trafiggono la popolazione valenzana, che sarà tutta presente ai funerali di Sandro, sommergendolo di fiori e di corone, sotto gli occhi allibiti dei fascisti e di alcuni dissimulati sostenitori del regime, in una città che, per l’occasione funesta, ha serrato ogni attività economica, pur se con troppi pentimenti tardivi.
La memoria diventerà un macigno irremovibile.