Valenza nell’Ottocento: dall’agricoltura all’oreficeria
Un nuovo approfondimento storico sulla Città del Gioiello
VALENZA – A Valenza il passaggio dall’economia agricola a quella artigianale orafa e calzaturiera è stato un processo cominciato due secoli fa, nei primi decenni dell’Ottocento, e consolidatosi in modo tangibile un secolo dopo.
A fine Settecento, Valenza centro aveva poco più di 4 mila abitanti, che nel 1837 diventano 5.546, cioè il 34% in più, e, con i dintorni, compreso Monte e Villabella – alias Lazzarone, non ancora una frazione di Valenza – gli abitanti erano circa 8 mila.
La produzione prevalente del settore agricolo locale è la viticoltura. Il territorio era di proprietà di numerosi piccoli agricoltori e il reddito della terra veniva suddiviso tra loro e speso in loco, non certo investito da un’altra parte; per cui, questa cittadina godeva di una relativa prosperità e, grazie al ponte di barche sul Po, i prodotti della terra, principalmente il vino e alcuni cereali, venivano commercializzati perlopiù con la contigua Lomellina. La classe dominante, pertanto, era quella dei piccoli proprietari terrieri, che nel 1837 erano censiti in 695, accanto a 831 contadini salariati; questi ultimi, quasi sempre in uno stato d’ignoranza e di miseria, scontavano la precarietà di un rapporto di lavoro instabile. È una classe di lavoratori sfruttata da secoli, quasi come se fosse un loro dovere morale e sociale, ereditato dalle generazioni precedenti.
Dalla rilevazione del 1837, a Valenza risultano due orefici senza nome, forse Giuseppe Conte e Carlo Merlo, che possiedono piccolissimi laboratori per riparazioni e che svolgono minute prestazioni di produzione, con un garzone ciascuno.
Dopo l’agricoltura, le attività produttive locali più importanti erano i filatoi della seta, 3 aziende di filatura e 215 telai sparsi per la città che trattavano canapa e lino, e 4 fabbriche di mattoni e tegole.
Così, negli anni trenta dell’Ottocento, mentre gli occupati nell’agricoltura erano circa 1500, pari al 20% della popolazione, nell’industria della seta i lavoratori erano quasi 800, di cui 500 indaffarati in piccolissime iniziative individuali di filatura, il 10% della popolazione. Come si spiega il passaggio dalla prevalente attività agricola a quella artigianale orafa? Si sono formulate diverse ipotesi, ma una ragione precisa non s’è mai trovata. Si è parlato di genialità artistica valenzana, della particolare collocazione geografica della città, di un fatto casuale che ha generato una replica a catena, dopo l’avvento pionieristico di un primo imprenditore orafo capace di intuire e sviluppare questa lavorazione, una tesi indimostrabile ma inconfutabile.
Fino a metà Ottocento quasi tutti trovavano lavoro nei campi, dove non ci si angustiava troppo per le generazioni future ma si tirava avanti affidandosi al destino, alla fortuna e a Dio.
Al declino della viticoltura locale concorrono due fattori: la concorrenza francese e la filossera. Il nostro vino era venduto principalmente in Lombardia e, più tardi, anche esportato nella vicina Francia. Presto, però, con le nuove aperture al libero scambio, Valenza dovette subire una forte concorrenza francese, paese che, grazie a un nuovo tipo di vite americana, riesce a sopravvivere alla fillossera, un parassita d’importazione che ha raggiunto l’Europa intorno alla seconda metà del secolo e che ha devastato i suoi vitigni. Quando la fillossera si abbatté anche sulle nostre coltivazioni, i valenzani, che erano stati refrattari alle innovazioni tecnologiche e rigidi nel chiedere finanziamenti, videro morire una ad una le loro viti, il cui periodo iniziale improduttivo è di ben tre anni e che iniziano a rendere solo dopo cinque. Aumentò la sofferenza e l’imbarazzo, Il batterio aveva devastato non solo l’economia reale locale ma anche la mentalità dei contadini valenzani, che persero il lavoro, il reddito e la dignità. Fallirono anche le promesse scontate di aiuto e di sostegno al settore fatte e sbandierate, per lo più per ragioni di consenso, dai politici locali, privi della capacità di cogliere le trasformazioni della società e schiacciati da fenomeni nuovi che non sapevano governare.
In questi anni, neanche la filatura della seta reggeva la concorrenza di quella del cotone; terminava un antico processo di produzione locale e, di conseguenza, finiva un’ulteriore risorsa per il mondo contadino, danneggiando la manodopera femminile che fino ad allora aveva trovato impiego a tempo parziale nella filanda e aveva allevato i bachi da seta in casa. Terminavano anche certe tradizioni, col senso comune e le consuetudini, un mondo lavorativo locale afflitto alla fine del suo corso.
Per fortuna, sul piano sociologico, il passaggio da un’economia all’altra non è stato troppo traumatico, poiché il trapasso dalla civiltà contadina a quella urbana e industriale non ha implicato il lavoro in una grande fabbrica, come avveniva nei centri più industrializzati, ma l’azienda artigiana o la bottega orafa, che era quanto di più vicino e a dimensione umana si potesse desiderare nei confronti delle precedenti attività lavorative per nulla solidali.
Nella seconda metà dell’Ottocento non c’è stato un grande sviluppo dell’attività orafa, che avverrà solo nel nuovo secolo; in questo periodo di transizione, infatti, si è passati da 3 a 17 imprese orafe e da 6 a 300 addetti, mentre l’industria calzaturiera inizierà solo nel 1890. La popolazione di fine Ottocento raggiungeva appena le 11mila unità.
Tra l’oro e la terra la diversità è gigantesca, ma il nuovo orafo ex contadino, incentivato anche economicamente, lavorava pur sempre un materiale da modificare, da rendere commerciabile, maneggiandolo con le proprie mani e con semplici strumenti di lavoro. Una delle ragioni trainanti la nascita di molte piccolissime imprese orafe era il basso costo dell’attrezzatura necessaria, mentre il metallo prezioso era fornito dalla committenza in conto lavorazione. Tutte le ex lavoratrici al telaio troveranno occupazione nella pulitura dei gioielli, sovente a cottimo nella propria casa, cosa che aumenterà a dismisura il lavoro locale in nero.
Sono anche gli anni della grande emigrazione che vedono la fuga verso le Americhe di molti valenzani in cerca di fortuna, anche se alcuni faranno presto ritorno poiché per guadagnare soldi bisognava lavorare come da noi e a far niente si stava meglio qui. Sono gli anni di un nuovo esagitato fermento politico e sociale con legittime ancorché fallaci convinzioni, anche se non c’è frattura tra la classe imprenditoriale e la classe operaia perché la differenza fra l’artigiano e il suo dipendente è minima e il balzo da subalterno a piccolo imprenditore è sempre dietro l’angolo, un processo che, pur fra non poche difficoltà, ha garantito un certo equilibrio tra futuro e passato, tra novità e tradizione.
Orgoglio e pregiudizi, un mondo e un tempo diversi dal nostro, in cui sono quasi scomparsi l’onore e la dignità e in cui è meglio dipingere l’avversario o il concorrente come un farabutto che non dire nulla.