Armistizio, l’8 settembre 80 anni dopo: ecco cosa accadde ad Alessandria
Il racconto che fece Carlo Gilardenghi: dalla caduta di Mussolini all'occupazione tedesca
ALESSANDRIA – Armistizio: l’8 settembre è una data fondamentale nella storia italiana. Segna il tragico crollo dello Stato ma anche l’inizio della Resistenza, da cui nascerà una nuova Italia. Cosa accadde ad Alessandria in questa drammatica fase della nostra storia? Una testimonianza preziosa è quella rilasciata da Carlo Gilardenghi nella primavera del 1993, alla vigilia del cinquantenario del 25 luglio e dell’8 settembre.
Venne pubblicata su ‘La Provincia’ e su ‘Il Piccolo’, ma con diversi tagli, dovuti a problemi di spazio. Successivamente fu presentata integralmente nel ‘Quaderno di Storia Contemporanea’ n.34 del 2003. Ora pubblichiamo la parte dell’intervista riservata specificatamente al 25 luglio e all’8 settembre.
Carlo Gilardenghi (1923 – 2003) è stato un protagonista di primo piano della vita politica e culturale alessandrina. Partigiano comunista, è stato assessore alla Pubblica Istruzione dal 1951 al 1960 e cofondatore dell’Istituto per la storia della resistenza e della società contemporanea per la provincia di Alessandria, che guidò come presidente per un ventennio.
L’importanza di questa testimonianza sta nel fatto che non si limita a riportare cosa avvenne il 25 luglio e l’8 settembre. Gilardenghi inserisce queste vicende nel suo percorso di studente che, di fronte ai disastri della guerra, cerca i primi faticosi contatti con un antifascismo ancora nelle catacombe per poi, attraverso le drammatiche esperienze di queste due giornate storiche, approdare alla Resistenza. La sua è la storia di tanti ragazzi, cresciuti nella dittatura e posti davanti a scelte drammatiche per sé e per il Paese.
L’intervista a Gilardenghi
Gilardenghi, ad Alessandria si dice che l’antifascismo era rappresentato dal partito comunista e dai liberaldemocratici che ruotavano intorno a Livio Pivano…
Io ero in contatto con i comunisti e poi ero stato presentato anche a Pivano, che in effetti era l’altro punto di riferimento dell’antifascismo alessandrino. Da lui c’erano tutti gli altri: qualche cattolico, gli azionisti (come lo stesso Pivano) e dei liberali. In particolare, aveva un paio di collaboratori proprio fidati, Capriata, quello della Cassa di Risparmio, e Maranzana, ambedue liberali. Pivano teneva salotto a casa sua. Vi ho partecipato anch’io qualche volta nel 1942, prima del crollo del fascismo. Allora studiavo al liceo classico. Per combinazione, una volta ci trovai l’insegnante di italiano, che si allarmò moltissimo. Farsi vedere lì da un allievo poteva essere pericoloso. Poi mi ha chiamato a casa sua e mi ha fatto un lungo discorso. Era un mazziniano. Io ho partecipato ad alcune di queste riunioni. Si parlava ormai di politica.
Il partito comunista aveva già, a differenza delle altre forze, un certo radicamento?
Il partito comunista aveva già un certo tipo di organizzazione, l’unica che andava alla base. Stava dentro le fabbriche. Era una struttura più o meno presente in quasi tutte le maggiori fabbriche alessandrine, specialmente la Borsalino, i calzaturifici e le aziende meccaniche, come la Pivano e la Mino. Però nel 1942 c’era stata la caduta. Si era talmente sviluppata la rete di spionaggio fascista, l’Ovra in particolare, che erano guai appena i gruppi comunisti tentavano di uscire allo scoperto, uscire cioè dal chiuso dell’organizzazione interna per prendere contatto con l’esterno del partito. L’importante dell’organizzazione infatti era riuscire a collegarsi con il centro. Stava all’estero ma aveva in Italia un centro direzionale.
Tu venivi in qualche modo riconosciuto quando riuscivi a venire in contatto con il centro. Sennonché quando prendevi contatto con il centro, c’erano questi emissari che erano quasi sempre controllati e, quando cadevano, trascinavano dietro tutti. C’era già stata una caduta prima, nel 1931, una caduta generale ad Alessandria e Asti e ci sono i documenti. Pochi anni dopo erano caduti altri, il padre di Maestri (il riferimento è a Ottavio Maestri, padre di Delmo, per molti anni presidente dell’Azienda Teatrale Alessandrina, ndr) anche il mio insegnante delle elementari. Stavamo preparando l’esame finale e sono venuti a prenderlo in classe. Abbiamo pensato fosse malato e che lo portassero all’ospedale.
C’erano Walter Audisio (diventato poi famoso per avere ucciso Mussolini a Dongo, ndr), Ottavio Maestri e un paio di altri militanti. Anche lì il contatto con l’esterno c’era stato. Poi era caduto il gruppo di Quargnento e Fubine. C’era stato anche un gruppo nella zona di Roccagrimalda e Ovada. Quelli però erano in contatto con Genova. Poi nel 1942 c’era questo gruppo di cui facevano parte persone come Gandini, Carlo Negri. Li hanno messi dentro nel 1942, deferiti al Tribunale Speciale. Sennonché hanno provato un paio di volte a portarli a Roma e, anche per via dei bombardamenti, non ci sono mai riusciti. È venuto il 25 luglio e questi stavano ancora in carcere. Erano un bel gruppo, dieci o dodici persone. C’erano anche Gallinotti di Solero, compagni di Castelceriolo. Quindi in quel momento per la verità la struttura si era un po’ indebolita. Il dirigente principale era Ottavio Maestri.
Come entraste in contatto con l’organizzazione comunista?
Noi eravamo un gruppo di giovani e cercavamo un contatto. Conoscevamo Mandirola, maestro di musica e comunista, e anche con lui si ragionava sul fatto che ci doveva essere un’ organizzazione. Abbiamo contatto tante persone che erano note per essere azioniste, comuniste, socialiste, repubblicane. Parlandogli insieme capivi però che avevano opinioni antifasciste ma anche che erano degli isolati. Anzi stavano bene attenti a non avere rapporti con nessuno. A noi la cosa non soddisfaceva.
Volevamo vedere un’organizzazione che potesse dirci anche che cosa fare. Ad un certo momento il padre di Maestri, il quale era molto cauto, ha accettato di incontrarmi e ci siamo visti nei giardini, dove aveva un negozio, un magazzino di alimentari. Stava parlando con degli operai, parlavano di una perquisizione che era stata fatta a casa di un operaio e Maestri a questo diceva di stare tranquillo, che non avevano trovato niente. E allora ho capito che lì sì che c’era qualcosa.
Poi gli ho parlato insieme e da quel momento abbiamo incominciato ad avere un rapporto con questo organismo del partito comunista in città il quale ci dava la direzione. Maestri ci diceva che a un bel momento qualunque cosa facevamo andava bene: “Tu prendi un pezzo di gesso di notte e scrivi sul muro Abbasso il Duce e hai già fatto una grossa operazione di propaganda. Una cosa che da vent’anni non succede. È già sufficiente”. Allora andavo all’Università con un pacco di volantini con parole d’ordine antifasciste e nelle stanze dei servizi igenici li distribuivo. Io avevo un mio gruppo, gente della mia classe, della scuola, amici. Avevamo preso contatto con i ragionieri. C’erano diversi gruppetti. Si stringevano delle amicizie personali e poi si reclutava.
Il contatto con il gruppo di Pivano avvenne successivamente?
Ad un certo momento, Maestri mi disse che l’onorevole Pivano era dell’avviso di prendere contatto con alcuni di noi. Si parlava già di istituire un organismo pluripartitico, un comitato antifascista. Ed è quando sono andato da Pivano, ho partecipato a qualche riunione e ho portato anche qualche persona, non tante, si capisce. Pivano addirittura ci ha acquistato un ciclostile. Così, invece, di fare a mano qualche dozzina di volantini, abbiamo potuto sfornare centinaia e centinaia di pezzi di propaganda.
Cosa è accaduto il 25 luglio ad Alessandria?
Stavo andando a casa sul tardi, passando davanti ad una bottiglieria che era sempre aperta in via Guasco. Il proprietario mi conosceva e sapeva che orientamento avevo, mi ha chiamato per darmi la notizia perché il comunicato era stato dato nella notte. Quindi i più non lo hanno sentito.
Al mattino sono andato in piazza per vedere che movimento c’era. Sembrava non dovesse esserci niente. Ad un certo momento è arrivato Pivano che mi ha detto: “Guarda, vai a casa mia, tieniti vicino al telefono, io adesso vedo di incontrare gli altri, facciamo una manifestazione”. Sono andato a casa sua in via Trotti. Mi ha telefonato, dicendomi cosa fare, preparare i volantini, ecc. Abbiamo fatto una manifestazione, era la prima volta, in un clima inizialmente un po’ di incertezza. Tanto per dire, qui (a palazzo Guasco, nella sede dell’Istituto per la storia della resistenza, dove è stata registrata l’intervista, ndr) c’era il gruppo rionale Chiappino e al mattino ho visto il segretario che si recava ancora tranquillo in ufficio. Mi conosceva. Vedendomi, mi ha chiesto cosa succedeva. “Ma guardi che è caduto il Duce”. È diventato tutto bianco. Quando la cosa è montata, partivano dei gruppi come quello che è venuto qui con il figlio di Gandini (aveva quindici sedici anni) che è salito sulla bicicletta per andare a colpire l’insegna con un martello. La cosa che soddisfaceva di più era prendere i documenti e distruggere tutto, con gran disappunto dei miei collaboratori dell’Istituto storico della Resistenza che non hanno poi trovato niente.
Si trattava di una documentazione riguardante tutta l’attività del gruppo rionale, che era veramente totalitaria: assistenza, indagini, di tutto. Hanno bruciato anche i mobili. Queste cose si sono ripetute in tutti i gruppi rionali. Noi però abbiamo fatto questa manifestazione, c’erano Audisio e Pivano in testa. Siamo andati in piazza, dove c’era il distretto militare. Sono andati su e hanno fatto un discorso dal balcone. Dappertutto c’erano dei gruppi di giovani, allora noi correvamo a prendere contatto. Questi gruppi, come ho già detto, erano scatenati. Quelli nei giardini, per esempio, spaccavano la testa al monumento di Arnaldo Mussolini. Queste cose capitavano in tutte le città d’Italia. Il Regime era praticamente sparito.
E nei giorni successivi?
C’era lo stato di guerra. Qui però c’erano tutti soldati di Alessandria, li conoscevo in gran parte perché più o meno erano miei coetanei. Io avevo l’esonero perché ero studente universitario, ritardavo il servizio militare di qualche anno. In tutti i posti dove avevano messo queste guardie, dalle poste alla federazione fascista, si trovavano pertanto soldati che erano amici. Quindi avevamo rapporti con tutti. Allora eravamo già tutti spostati decisamente sull’antifascismo e poi, insomma, si pensava alla pace.
Comunque sia, in quel mese di agosto ci furono tutta una serie di tentativi di riorganizzazione dei partiti politici, un po’ lenti perché il regime non consentiva tanto. Anche i giornali hanno incominciato gradualmente a modificare il linguaggio. Ma l’obiettivo principale era di strappare il permesso di organizzare ufficialmente i partiti politici. Il sindacato è stato il primo a riorganizzarsi anche qui ad Alessandria. Il grosso dei comunisti, che erano in prigione, sono usciti alla fine di agosto e forse anche dopo. Il regime lasciava andare i prigionieri con molta lentezza, specialmente i comunisti perché avevano già dichiarato che si organizzavano per far finire la guerra mentre al momento Badoglio voleva far credere che avrebbe continuato.
E così si arriva all’8 settembre…
L’8 settembre ci siamo riuniti tutti in quella osteria in via XX settembre, Arnaldo. Saremo stati una trentina. C’erano tutti vecchi comunisti e io li ho conosciuti per la prima volta, non li avevo mai visti. Esco, passo davanti al chiosco di bibite e sento da una radiolina il comunicato di Badoglio. Anche lì, di nuovo, l’incertezza. Anche questa volta non riuscì a dormire. Il mattino dopo ero in piazza e anche lì incontrai di nuovo Pivano, molto agitato. Abbiamo cercato di organizzarci.
C’erano dei tedeschi ma erano dei territoriali. Sono andato dal gruppo di soldati alle poste e gli ho detto: ‘Qui bisogna prendere questi tedeschi. Ormai…’. C’era un gruppetto che credo andasse a portare il rancio. Allora uno, mi sembra fosse l’avvocato Badò (che era tenente), è andato a catturarli. Sennonché dopo un po’ sono arrivati altri tedeschi. Venivano da via Dante e la gente li guardava. Poi, siccome hanno preso per via Guasco o via Milano, hanno pensato che se ne andassero verso la Lombardia e quindi verso casa. Allora c’è stato addirittura qualche accenno di applauso, come dire ‘bravi, se ne vanno’. Invece, dopo pochissimo tempo, abbiamo sentito quei colpi che avevano sparato alla Cittadella. Avevano intimato la resa, gli italiani avevano chiuso il portone e quelli avevano sparato alcuni colpi. Mi ricordo che siamo andati di nuovo – non so più se con Pivano o con Audisio – al comando a cercare il comandante della piazza.
Era sfollato anche lui, mi pare a Solero. Che razza di resistenza potevi fare? Allora ci siamo messi a correre in tutte le caserme per indurre i soldati a scappare, magari con le armi. Possibilmente bisognava portare via più armi possibili. Mi ricordo che siamo arrivati alla Valfré, c’erano già i tedeschi e avevano ripetuto la stessa scena della Cittadella. Quelli avevano chiuso il portone, allora hanno sparato un colpo contro la porta e dall’altra parte hanno tirato fuori lo straccio bianco.
Ne hanno presi un bel po’, incolonnandoli in via Faà di Bruno. Non era facile però controllare queste colonne di prigionieri. Magari c’era un tedesco con una colonna che non finiva più. Così c’erano delle donne che nei portoni semiaperti prendevano questi ragazzi, li portavano dentro (o loro stessi si infilavano) e poi li rivestivano. Poi sono andato all’Autocentro con Audisio. Qui siamo arrivati in tempo, abbiamo chiamato il comandante, gli abbiamo spiegato che stavano facendo il repulisti. Quello fa: ‘Ma voi chi siete? Siete dei borghesi’. ‘Noi siamo del comitato antifascista’. ‘Ma che comitato antifascista. Io vi metto dentro’. Il tipico sistema che avevano allora. Allora ho detto: ‘Questo non capisce mica, andiamocene se no ci facciamo prendere’. E difatti, come siamo usciti, sono arrivati i tedeschi. I soldati hanno tentato di scavalcare – parecchi ci sono riusciti – il muro dietro che dà verso il Tanaro e lì c’erano tutti i barcaioli. Noi gli dicevamo: ‘Prendete i fucili altrimenti non vi portiamo di là’ e abbiamo recuperato una cinquantina di fucili. Poi sono andato ancora a Pecetto dove c’era un altro piccolo distaccamento di soldati e lì stessa musica: ‘Ma cosa volete?’.
E lì, quando sto per uscire dalla caserma dopo averli mandati a quel paese, arrivano i tedeschi. Questi avevano un piccolo camion con un cannoncino sopra. Non c’era niente da fare. Sono rimasto intrappolato nella caserma. Per fortuna c’era un’ uscita nel retro, ho fatto un salto di due o tre metri. Sono poi tornato a vedere e mi sono chiesto come avevo fatto a fare quel salto, non lo avevo neanche visto. Gli altri però li hanno presi. Insomma, questo è stato l’8 settembre ad Alessandria. Sembrava che dovessero arrivare truppe. Allora siamo stati tre giorni all’addiaccio, inizialmente sull’argine del Tanaro. Poi la maggior parte sono andati a casa e noi giovani in bicicletta siamo andati nei boschi sotto Pavone ad aspettare. Poi a un bel momento, uno viene a dire ‘Arrivano i bersaglieri da Torino’. Allora ci siamo messi in fila indiana, abbiamo fatto il giro della Cittadella e siamo andati sulla strada di Solero. Qui abbiamo incontrato un compagno che ci ha disilluso: ‘Ma che bersaglieri, è pieno di tedeschi’. E allora siamo tornati indietro e abbiamo nascosto i fucili.
Nei giorni successivi cosa accadde?
Il partito ha organizzato dei gruppi e soprattutto c’era questo contatto tra i singoli partiti. Naturalmente c’era una situazione stramba. Gli antifascisti più importanti, come Maestri o Pivano, erano conosciuti.
Allora non potevano agire?
Agivano lo stesso perché nei primi mesi la struttura del Regime neofascista era fragilissima. Tant’è vero che c’è un episodio interessante. Tra i fascisti alessandrini, erano ben pochi quelli disponibili. Cera proprio uno squagliamento. Quei pochi hanno proposto il famoso patto di pacificazione. Lo hanno fatto dappertutto, anche qui ad Alessandria. Non ho partecipato, ma ricordo che si era discusso in casa comunista se partecipare o meno a questo incontro tra alcuni fascisti alessandrini, i fratelli Bologna, e i membri del comitato di liberazione.
Mi ricordo che in casa comunista c’era una netta divisione tra chi voleva partecipare e chi non voleva. Audisio era uno di quelli che voleva partecipare. Qualcuno c’è andato e poi c’è stata una specie di resa dei conti in casa comunista. Quelli che erano andati sono stati sconfessati. I fascisti intendevano guadagnare tempo. Non solo, ma in qualche modo scoprivano le carte dell’avversario. Ufficialmente questi sono andati come rappresentanti del comitato di liberazione, tanto vero che poi quando c’è stato il primo scontro in città, li hanno messi tutti dentro.