I primi anni del Quattrocento nella zona di Valenza
Un nuovo viaggio nella storia della Città del Gioiello
VALENZA – Alla fine del Trecento, tutto il territorio che comprende i comuni e i borghi di Valenza, San Salvatore, Bassignana, Pecetto e Rivarone è ancora una zona agreste, con una vasta distesa di vigneti fuori alle mura. Ci sono una vita sociale e costumi tipicamente contadini e alcune categorie artigianali e commerciali che costituiscono un embrione della piccola borghesia futura, ma in quantità così ridotte da rendere l’aspetto agricolo ancora più evidente. Solo le fiere e i mercati hanno una ragguardevole rilevanza economica.
Sul Po a Valenza e a Bassignana ci sono dei porti natanti con zatteroni, atti a traghettare persone e merci, e altre imbarcazioni di servizio. Il pedaggio che viene riscosso dai portolani è una delle principali entrate economiche.
A Valenza la popolazione è composta di circa un migliaio di famiglie, per un totale di 3.500-4.000 abitanti; gli altri luoghi ne hanno solo alcune centinaia. La vita religiosa è molto attiva e, essendo Valenza sede di vicariato generale del vescovo di Pavia per i territori posti a sud del Po, essa gode di una posizione di gran rilievo in tutta la zona anche dal punto di vista religioso. L’elenco delle chiese, delle abbazie e dei monasteri è corposo: San Francesco, Santa Caterina, Sant’Antonio, San Bartolomeo, Santo Spirito, Santa Croce, San Giacomo, SS. Nicola e Paolo, San Giovanni e San Giorgio. Ci sono altri quattro ordini religiosi: di Sant’Antonio e Santa Croce, dei Canonici dentro alle mura, dei Gerosolimitani e della chiesa di San Giacomo fuori alle mura; essi soggiogano il popolo, soprattutto con lezioni di moralità. Ci sono tante chiese fuori dall’abitato e anche le campagne di Valenza, San Salvatore, Pecetto, Bassignana e Rivarone sono ricche di cappelle: melius est abundare quam deficere.
Anche Bassignana è pervasa da un forte senso religioso, simbolo di coesistenza. Ci sono, infatti, le chiese di San Giovanni Battista, di San Lorenzo, di Santo Stefano, un convento di carmelitani scalzi con una chiesa propria dedicata a Santa Maria del Carmine, una chiesa nel centro monastico di Sant’Antonio, ubicato al di fuori delle mura occidentali del borgo, lungo la strada per Valenza, che porge ospitalità a tutti. A San Salvatore c’è la vecchia chiesa parrocchiale di San Martino, poi sostituita dalla pieve presso il castello, quelle di San Siro e di San Giacomo. A Pecetto c’è la chiesa di San Siro, della Vergine Maria, di S. Antonio e S. Agata e di San Romeo.
Il patriziato valenzano ha apprezzato poco i requisiti di necessità dei nuovi statuti del 1397, da loro applicati solo quando fa comodo, però tutta la civiltà comunale è ormai avviata a un processo d’involuzione, sia per ragioni esterne che interne, quali carestie, epidemie, tensioni sociali e guerre. Secoli di lotta tra Chiesa e Impero hanno fornito anche i simboli sotto i quali si schiera ogni porzione del paese: i Guelfi e i Ghibellini.
Il 1 maggio 1395 Gian Galeazzo Visconti ottiene il titolo di duca di Milano dall’imperatore Venceslao IV di Boemia, l’anno successivo quello di conte di Pavia e, nel 1397, quello di duca dell’intera Lombardia. Tutto il territorio valenzano, comprese le località di Bassignana, Rivarone e Pecetto, sono appannaggio del duca milanese, quindi tutte lombarde.
Nella zona si afferma un anarchico capobanda, poi famoso condottiero di ventura e più tardi anche signore feudale: Bonifacio Cane, detto Facino da “Bonifacino”, nato a Casale Monferrato intorno al 1360; un uomo del suo tempo, connesso alla contingenza storica e apparentemente non diverso da altri mercenari a lui legati come Ottobono Terzi, Pandolfo Malatesta e Jacopo dal Verme.
Figlio di Emanuele Cane di Casale originario di Borgo San Martino, Facino è un mercenario crudele, detto “Il Terribile”, ed è destinato a lasciare il segno: vanterà una carriera militare lunga circa 30 anni, con capovolgimenti stupefacenti e alla conquista di 240 località, dopo aver iniziato a combattere a meno di 20 anni e servito gli Scaligeri a soli 26 anni.
Teodoro II marchese di Monferrato e Facino Cane sono i protagonisti della storia della nostra zona e del Monferrato intorno al Quattrocento, ma anche dell’Italia nord-occidentale. Tra il 1396 e il 1397, il condottiero guerreggia contro i Savoia e gli Acaia per conto di Teodoro II, che, per i suoi servizi, gli garantisce l’impunità e lo ricompensa infeudandogli Borgo San Martino, il borgo natio del padre, dove può organizzare e alloggiare i suoi uomini nelle lunghe soste invernali. Ciò che lo induce a combattere crudelmente è l’arricchimento suo e dei suoi devoti soldati.
Affermatosi come capo militare, dal 1400 ottiene anche i primi successi politici, anche se governare è una cosa e far politica è un’altra. Dopo la morte del duca Gian Galeazzo Visconti nel 1402, Facino occupa alcune città del ducato, che, governato nominalmente dal giovanissimo tiranno Giovanni Maria Visconti dal 1402 al 1412, verrà percorso dalle soldatesche di Jacopo Dal Verme, di Carlo Malatesta e, specialmente, di Facino Cane. In questi anni il Ducato di Milano sarà in uno stato in piena anarchia.
Il territorio di San Salvatore, invece, fa parte del marchesato del Monferrato. In questi anni, il marchese Teodoro II Paleologo è attento a difendersi dagli assalti dei Visconti e dei Savoia, i cui domini confinano col Monferrato. La costruzione della famosa torre inizia nel 1405, in concomitanza con altre che servono più per avvistamenti che per difesa, anche se i confini si difendono quasi sempre solo a cannonate. Torri dalle quali, con specchi e fuochi, si trasmettono notizie sui movimenti di eserciti nemici al marchese. La posizione alta e confinaria lo richiede qui più che altrove. San Salvatore è un comune rurale con proprie leggi codificate nel 1374; non sarà mai infeudato, salvo due temporanee eccezioni, e non sarà mai un feudo donato o venduto a vassalli, ma resterà sempre una terra immediata, cioè direttamente dipendente, dei principi monferrini. In questi anni tiene comunque la coda del vessillo di Facino, per raziocinio e sopravvivenza.
Nel settembre del 1403, Facino Cane entra ad Alessandria in modo fraudolento, aiutato da alcuni cittadini favorevoli al duca di Milano, alla testa di 600 cavalieri e dei ghibellini locali antitetici ai Guasco. In pochi giorni, costringe i guelfi e gli alleati francesi del contingente genovese a ritirarsi nella fortezza di Bergoglio, feudo della nobile famiglia guelfa dei Guasco, e, con l’ausilio di alcuni pezzi di artiglieria, bombarda il castello imponendone la resa. Essendo lui privo di ogni magnanimità e misericordia, oltre alle tante uccisioni e ai tanti riscatti impone che a molti prigionieri francesi considerati furfanti venga addirittura tagliata la mano. La città è saccheggiata e incendiata per otto giorni e sembra quasi una vendetta, perversamente programmata, per la distruzione di Casale nel 1215. Il bottino è acquistato in gran parte dai mercanti valenzani e, per la vittoria, Facino riceve in pegno dalla duchessa Caterina Visconti, madre tutelante di Giovanni Maria, le terre di Valenza, con il suo castello e quello di Monte per 45.000 fiorini e di Montecastello per 8.000 fiorini, come compenso degli stipendi arretrati dovuti a lui e ai suoi uomini.
Così anche nella zona di Valenza ha inizio la spietata tirannia di Facino Cane, a cui troppo spesso prudono le mani e che trova sempre qualcuno con cui litigare.
Le spedizioni devastanti provocano la distruzione e la spogliazione di queste terre, con repressioni, terrore e crimini atroci. Facino depreda i luoghi di proprietà Beccaria come Bassignana e Rivarone. L’intera zona subisce i colpi di questi assalti, che diffondono nel popolo timori e insicurezze; inoltre, devastanti epidemie si portano via ciò che è stato risparmiato dalle guerre. Miseria e fame sono rilevanti. Le gabelle da pagare al signore e alla chiesa sono sempre più elevate e gravano sul popolo. A Valenza il podestà Antonio Bossi è abbandonato nelle grinfie del condottiero.
Nel 1405, dopo il tentativo di ribellione nell’alessandrino e la tentata conquista di Castelletto-San Salvatore da parte dei capi guelfi di Alessandria Gabriele e Cristoforo Guasco, Facino, mai domo, aggredisce nuovamente i Guasco nei loro castelli; distrugge quello di Sant’Antonino, posto sulle colline tra Alessandria e Valenza, e uccide in modo orribile tutti i Guasco caduti nelle sue mani. L’uomo dona la rocca alla famiglia ghibellina alessandrina degli Inviziati, poi si insignorisce di Alessandria: il duca Giovanni Maria Visconti lo nomina “prefectus” della città, ma egli muta il termine in “dominus”.
Inesorabile guerriero, reduce da una sonora sconfitta contro il duca milanese, con cui si riconcilierà presto, Facino si ritira malconcio a Valenza, dove uccide crudelmente alcuni nobili bolognesi e alessandrini. In un documento del 5 maggio 1407 l’abitazione del condottiero risulta a Valenza, stesso luogo in cui è stato steso l’atto. In realtà, egli aveva un grande disegno: costruirsi un suo stato in questa zona, un territorio cuscinetto tra il ducato visconteo, la contea dei Savoia, la repubblica di Genova e il marchesato di Monferrato.
Nel 1408 anche Pecetto si ribella al conte Ottone Mandelli e si dà al funesto Facino Cane. Più tardi il paese passerà, come il resto del territorio, alla ex moglie di Facino, Beatrice, divenuta duchessa di Milano, che continuerà a governarlo a proprio nome fino alla orrenda morte per decapitazione nel 1418, inviandovi il podestà, rettori, amministratori e fattori e percependo proventi ed entrate. Sono le regole non scritte che il popolo deve rispettare senza opporre resistenza.
In costante lotta contro Genova, nell’ottobre del 1409, dopo una battaglia vittoriosa verso Novi in zona Fraschetta, contro il maresciallo di Francia governatore di Genova Boucicaut (Jean II Le Meingre), Facino si ritira nuovamente a Valenza, contrastando l’azione del patriziato locale che, pronto a ogni sorta d’intrigo, rivendica il potere. Riconciliatosi con Giovanni Maria Visconti, di cui è il più grande condottiero, nel 1410 Facino diventa governatore dello Stato, una specie di sovrano senza regno e senza corona.
Ma ormai ha imboccato la via del declino: minata dalla gotta e logorata dalle innumerevoli campagne militari, la sua forte fibra sta per cedere. L’uomo muore a Pavia nel 1412. I suoi possedimenti sono ereditati da un fratello e da due nipoti, mentre il restante ingente patrimonio e le pertinenze (Valenza e zona, Alessandria, Novara, Breme, Varese, Vigevano e forse Tortona) passano alla vedova Beatrice, che si risposa poco dopo con Filippo Maria, unico erede dei Visconti, costringendo di nuovo Valenza e zona a prestare fedeltà ai duchi di Milano.
Filippo Maria (1392-1447), che il 16 giugno 1412 è entrato a Milano da acclamato duca, procede presto alla ridistribuzione dei feudi, secondo la più o meno provata fedeltà. Egli si scontra subito con la baldanzosa e ghibellina famiglia Beccaria, che nelle ultime vicende ha perso e ripreso il comune di Bassignana, fino a che, nel 1415, Lancellotto Beccaria si accorda e, con la stipula di un trattato, consegna il borgo col suo territorio ai Visconti. In pochi anni essi procedono allo smembramento dell’area, infeudando, come complemento d’arredo, Bartolomeo della Sala a Bassignana nel 1428. Negli anni 1422-1425 una terribile peste decima la popolazione della zona, già stritolata dai soliti scontri bellici.
Negli stessi anni a Valenza, da parte del Municipio, viene edificato il nuovo Ospedale dei Pellegrini (San Bartolomeo) nella contrada Maestra o strada Grande, ora corso Garibaldi. Dopo pochi anni di pietosa coltre funeraria per la pestilenza, Valenza entra in una fase di prosperità economica e nascono ambizioni nascoste in alcune famiglie locali, quali Annibaldi, Aribaldi, Basti, Bellone, Bocca, Bombelli, Del Pero, Dina, Fracchia, Guazzo, Leccacorvi, Schiffi, Stanchi, Turone e Zuffi. Ma saranno le famiglie giunte da località diverse, in tempi diversi e con una concezione più ampia e moderna, adeguata ai tempi, a creare il tessuto ideologico, programmatico ed economico di una nuova compagine sociale che scalzerà molte antiche casate in via d’estinzione, producendo dinamismo e innovazioni.
Nel 1420 i figli di Ottone Mandelli, Antonio, Raffaele e Tobia, ottengono la concessione feudale del castello e della terra di Pecetto, con piena giurisdizione e diritti di riscossione di dazi e pedaggi, in estinzione del credito cospicuo ereditato dal padre nei confronti del duca e della camera ducale milanese, quasi godendo di una assegnazione convenzionale e contrattualistica di favore per le passate vessazioni ricevute. Poi, nel 1447, il borgo, in una situazione economica disastrosa e con inaffidabili garanzie, passerà ai Savoia, e pochi anni dopo, ritornerà al ducato milanese.
Nel 1441 i nuovi feudi di Rivarone e quello di Mugarone si distaccano da quello di Bassignana e diventano due possedimenti autonomi che per molte cose dipenderanno dai feudatari e per altre da Bassignana, con intrecci perversi. Tutto ha inizio con l’atto del 14 agosto con il quale Bonifacio Bellingeri, che negli ultimi giorni è stato nominato senatore del duca Filippo Maria Visconti, poco prima delle esequie del 13 agosto 1447, ha comperato, per sé e tutti i Bellingeri, le terre di Rivarone e Mugarone, facente parte del distretto di Alessandria e della diocesi di Pavia, “con mero e misto imperio, podestà di Castello, di ogni giurisdizione, gabelle, dazi di pane, vino eccetto la gabella di sale …”. L’investiture dei feudi è stata poi fatta ai signori Guglielmo Bonifacio a Rivarone e Franceschino Bellingeri a Mugarone col suo castello. Una parte delle terre dei due nuovi feudi sono perciò concessi, con un mercantile baratto, ai marchesi Bellingeri di Milano e ai Conti Bellingeri di Rivarone, con relativi privilegi, prebende, inchini melliflui e assetti precedenti.
Sono le guerre, però, la causa primaria dei mali di questi due borghi (Bassignana e Rivarone) che si trovano all’affluenza del Tanaro con il Po: il passaggio di truppe attraverso questo territorio è sempre accompagnato da saccheggi e da violenze e i sopravvissuti vengono sovente decimati anche da infezioni e carestie.
La lunga dipendenza di questo territorio dal ducato milanese è sempre stata interrotta da brevi sovranità di altri principi. In questi anni le collettività di confine, messe di fronte all’alternativa tra lo Sforza e i Savoia, sono allettate dalle offerte di esenzioni dei savoiardi. Nel 1438 Filippo Maria Visconti dona il feudo di Valenza al nipote Giacomo Visconti, “con tutte le sue dipendenze, colla riserva de’Dazj de’ Gualdi, Ferrarizia, e Gabella del Sale”, aggiunto a quello di Tortona. Ai valenzani non piacciono i Visconti e per proprietà transitiva non piace neanche Giacomo, mai amato e capito abbastanza. Alla morte dell’ultimo discendente dei Visconti, che si sono estinti in linea maschile, Valenza va nelle mani del duca Ludovico di Savoia (atti del 12 ottobre 1447), proiettato verso l’allargamento del potere a seguito di un trattato molto generoso per i valenzani – concessione in franchigia di due fiere annuali, un mercato settimanale, divieto di importazione di vini forestieri, caccia libera, esenzione dalla tassa dell’imbonato su vino e grano – finalizzato ad accattivarsi la benevolenza e l’accettazione valenzana. Il trattato, stipulato a Vercelli alla presenza di Amedeo IX di Savoia, primogenito di Ludovico, e degli ambasciatori valenzani, viene identificato come “Le Franchixie Valentie”. Esso fa anche menzione di grosse bombarde, artiglierie, macchine da guerra e un munito castello, uno sforzo bellico a conferma che la città sia ormai diventata un’importante fortezza.
Però, dopo un breve periodo, con la salita al potere di Francesco Sforza, la città viene riconsegnata al Ducato di Milano, che ha grande appetito di terre e che impone certi pensieri e comportamenti.
Dopo che si è estinto l’ultimo dei Visconti nel 1447 ed è stata proclamata l’effimera e debole Repubblica Ambrosiana – ma già nel 1450 i milanesi acclameranno signore di Milano Francesco Sforza – l’oscillante filosforzesco Carlo Gonzaga, secondogenito del marchese di Mantova, ottiene per poco tempo la padronanza di Bassignana e di Rivarone e tutta la loro zona in virtù dei servigi prestati come capitano delle milizie milanesi. Ma, poco dopo, queste terre sono occupate dal marchese del Monferrato Giovanni IV e da Ludovico di Savoia, che, per suggellare la presa, tramite il precedente castellano Marchese Visconti, affida la piazzaforte di Bassignana ad Antonio Rabbia, il quale, in modo celere, ne trasferisce il possesso a Guglielmo signore di Mentone e a suo fratello Filiberto nominandoli castellani e custodi della fortezza di Bassignana per il periodo di un solo anno. La simbolica consegna delle chiavi è fatta dal podestà Paolo de Verano, a nome del consiglio generale cittadino, nella sala grande del castello, dove la comunità e gli uomini del paese, che non possono intervenire ma solo prenderne atto, inclusi coloro che detestano i nuovi arrivati, prestano il giuramento di fedeltà al duca di Savoia e, a capo riverentemente scoperto, in ginocchio e con le mani giunte fra le palme di Guglielmo di Mentone, baciano i suoi pollici tastando i santi vangeli. Giurano per sé e le proprie famiglie di essere fedeli sudditi del duca e di promuoverne gli interessi, facendo guerra ai suoi nemici. Questo è un rito propiziatorio più che un’azione politica, la conferma del dominio per i nuovi padroni, meno preparati dei loro predecessori, certa nella volontà ma problematica nella pratica, perché presto i bassignanesi, da sempre abbastanza equilibrati, cominciano a volgere il pensiero al nuovo duca di Milano Francesco Sforza, che, pochi giorni, nell’estate del 1454 tramite il condottiero Tiberto Brandolini, aiutato da Roberto da San Severino,, in piena bufera e in mezzo all’odio, recupera e depreda tutte le terre che i savoiardi e i monferrini avevano acrobaticamente occupato oltre il Po, comprese Valenza, Pecetto, Bassignana e Rivarone.
Dopo che Valenza ha aperto le porte agli sforzeschi, nell’agosto del 1454, nonostante le preghiere contrarie del consiglio generale della città, Gaspare da Vimercate, talvolta nella forma “Gaspare Vimercati”, è nominato conte feudatario. È un algido e superbo condottiero di ventura di origini valenzane, al servizio di Francesco Sforza e a lui molto familiare.
Quello descritto è stato un periodo che di etico non aveva neanche l’ambizione, ma, come ha detto Nietzsche, “i giudizi morali sono epidemie che hanno il loro tempo”.