Il periodo napoleonico a Valenza
Un nuovo viaggio nella storia della Città del Gioiello
VALENZA – Lo scoppio della Rivoluzione francese, madre e dogma della modernità, trova diversi sostenitori a Valenza, principalmente nell’ambiente borghese intellettuale più informato, ma ben presto la campagna antireligiosa, seguendo il monito di Voltaire ” Écrasez l’infâme” e l’irrazionale e atroce Terrore, fanno sorgere un certo sentimento antifrancese. È in questo quadro che s’inserisce la discesa di Napoleone Bonaparte in Italia.
Escluso il presidio militare, nel 1796 Valenza ha circa 5.000 abitanti, compreso Monte con 350, di cui 452 ecclesiastici, medici, notai e servi, 1.500 agricoltori, 250 artigiani e negozianti e 435 proprietari. Sotto le armi risultano 61 valenzani. A Lazzarone (poi Villabella) ci sono circa 500 abitanti. La vicina Pecetto ha ben 1.400 residenti e 12 sacerdoti. In città ci sono 53 frati e 46 monache e il parroco, dal 2-8-1797, è Francesco Marchese.
Nell’antico convento dei Francescani e poi dei Domenicani, eretto alla fine del Cinquecento e dedicato a S.Giacomo, funziona il seminario per circa 40 chierici, che diventeranno 80 nel 1800, di quella parte della diocesi di Pavia che si trova sotto Casa Savoia, un seminario frequentato sia da allievi interni che esterni. Aperto nel 1788, è una prima vera organizzazione locale di studi, di cui il principale promotore è il vicario Orazio Cavalli e primo rettore don Vincenzo Poli. Per le prossime divisioni della diocesi, il seminario durerà solo pochi anni, fino al ritorno dei francesi nel 1800, e verrà soppresso definitivamente nel 1817, quando Valenza sarà aggregata alla diocesi alessandrina.
Alla fine del Settecento, è edificato uno dei palazzi più belli di Valenza e oggi sede del Municipio, Palazzo Pellizzari, che ospiterà Napoleone Bonaparte nel 1796 e nel 1800; mentre Palazzo Valentino, al tempo dimora del municipio, viene completamente ristrutturato.
Nel 1794, i francesi, reduci da due anni di super violenza, violano la neutralità della Repubblica genovese e, varcato l’Appennino, si spingono nella valle del Tanaro. Il barone Giuseppe Pernigotti, governatore della nostra città, deve attivarsi per ospitare 400 rifugiati tolonesi provenienti dal Principato d’Oneglia occupato dai francesi e, mentre la guerra si avvicina, in città si insediano consistenti truppe austriache.
Dopo la fragile pace di Parigi del 1796, i francesi ottengono alcune fortezze, tra cui Valenza, utile per il passaggio del Po nella campagna d’Italia. Napoleone Bonaparte (1769-1821) giunge a Valenza e minaccia gli austriaci, che saranno sconfitti a Lodi. Da ora ha inizio una delle epoche più importanti della storia italiana moderna: quella dell’invasione delle armate rivoluzionarie francesi (1796-1799), dell’effimero tentativo di restaurazione degli eserciti austro-russi (maggio 1799-giugno 1800), della compartecipazione alla politica napoleonica prima come repubblica, poi come regno satellite fino alla Restaurazione. Impadronitosi del potere in Francia nel novembre del 1799, Napoleone inizierà la seconda campagna d’Italia, vincerà gli austriaci a Marengo il 14 giugno 1800 e riaffermerà il dominio francese su questo territorio.
L’età franco-napoleonica solleva il coperchio del conservatorismo più ottuso e consente di edificare un mondo nuovo. L’ingresso nell’orbita francese avrà però molte conseguenze positive anche per Valenza: una visione unitaria del paese, lo svecchiamento di forme decrepite di costume, l’idea di una politica aperta e non più chiusa nel segreto di un gruppo ristretto.
Inizialmente tutti i valenzani si affrettano ad accettare i costumi di Francia, a trovare incantevoli e serie le nuove idee, ma presto si vedrà che i francesi, grandi appassionati di libertà, non lo sono troppo per quella degli altri. Il diavolo si rende manifesto a ogni buon conto soprattutto nei dettagli. I quali non sono pochi.
Il 10 dicembre 1798, 20 frimaio del settimo anno repubblicano, il comandante di battaglione francese Mancune entra a Valenza con le sue truppe e con l’indole proprietaria. I soldati francesi entrano da porta Alessandria, ora piazza Gramsci, e, accompagnati dal rullo dei tamburi e dalla banda musicale che intona la Carmagnola e la Marsigliese, percorrono in fila per due corso Garibaldi fino a piazza del Duomo, dove Mancune tiene il discorso al popolo valenzano. Il Palazzo Valentino, sede dell’amministrazione comunale (mairie) viene illuminato a festa con le torce per tutta la notte. Il Piemonte e Valenza sono ora annessi alla Francia.
Nel frattempo si forma la municipalità valenzana di tipo francese, Dipartimento del Tanaro sino al 1799, che non piace quasi a nessuno e in pratica non conta nulla. Troppo ammalata di manicheismo, essa è composta dai cittadini Angelo Foresti, Pietro Chiesa, Maria Marchese, Giovanni Oliva, Tommaso Richini e Menada. Il presidente è Lebba, il segretario La Thuille e il sottosegretario Quaglia. Sono quasi tutti gli stessi attori evanescenti di prima che, con capriole acrobatiche e alcuni mantra mandati a memoria, adesso recitano un altro copione in un frullato di contraddizioni e ipocrisie. Non esiste neanche la brama di dannarsi per una causa in cui si crede.
Manifesto del 26 dicembre 1798 (6 nevoso, anno 7°)
pubblicato dalla Municipalità di Valenza
LIBERTÀ EGUAGLIANZA
In nome della Repubblica Francese una ed indivisibile
La Municipalità di Valenza
Evviva la Repubblica Francese! Evviva la patria rigenerata! S’esterni pure o cittadini il vostro contento, ma disgiunto non vada dal buon ordine. Sia pure perenne, ma diretto dalla virtù di un vero patriottismo.
Sacro è questo giorno, e giusta è la vostra gioia. L’albero Trionfatore, il terrore del dispotismo s’erge festoso, ed a voi, a’ figli vostri promette la vera felicità. A’ piedi di questo depongasi le viziose gare, le private contese, ed una sincera fratellanza unisca i vostri cuori.
Così sarà questa un’epoca preziosa per voi, memorabile a’ posteri. Un tanto giorno, in cui dopo tanti secoli la verità a voi presentasi, non deve soffrir tenebre. L’illuminazione del Comune già praticata il giorno di vostra rigenerazione si rinnovi questa sera.
Eguale sia in Questo la vostra emulazione come eguale si è l’obbligo d’allora che vi si replica.
Firm. LEBBA Presidente
Nel febbraio del 1799, due commissari-cittadini organizzatori, appartenenti al Dipartimento di Alessandria, rinnovano la municipalità con Angelo Foresti nel ruolo di presidente, Carlo Biscossa, Fedele Majoli, Marc’Antonio Mazza, Giovanni Antonio Pastore, Tommaso Richini, Francesco Terraggio; il segretario è Vittorio Lebba e il consegretario Giovanni Battista Quaglia.
I valenzani devono indossare sulla giacca la coccarda tricolore della Rivoluzione del 1789, viene abolito il vecchio calendario e adottata la lingua francese negli atti e nei documenti pubblici.
Nasce, però, una crisi strutturale cittadina. Da un lato, alcuni borghesi e intellettuali si schierano a favore del nuovo governo valenzano-francese, scoprendo improvvisamente le virtù dei novelli dominanti prima ignote, o forse sono solo timorosi di perdere i propri privilegi; dall’altro, le forze contadine, irrispettose e istigate dal clero locale, danno vita a un moto reazionario ostile ai francesi, considerati nemici dell’umanità, che, da una sparuta minoranza, si fa sempre più intenso. Nel marzo del 1799, quando in città entrano nuove forze francesi che lasciano devastazioni, questa specie d’insurrezione viene momentaneamente contenuta ma non domata.
Intanto, mentre Napoleone è in Egitto, si rinnova l’alleanza europea contro la Francia, costituita da Austria, Inghilterra e Russia, e riprende la guerra. Sconfitti sull’Adige, sul Mincio e a Cassano dai russo-austriaci, i francesi si ritirano dalle nostre parti, guarnendo le colline intorno a Valenza con una catena d’avamposti.
Per stanare il generale francese Jean Victor Marie Moreau da queste posizioni, il comandante russo Suvorov ordina al generale russo Andrei Grigorevich Rosenberg di assalire Valenza. La battaglia si svolge tra Mugarone e Pecetto, dove perdono la vita migliaia di combattenti. Infine, eccitati da frati e preti zelanti, anche i valenzani, con un drappello di Massa cristiana – una unità militare non regolare, una milizia armata, guidata da un capo d’onore – insorgono contro i francesi, che reagiscono spietatamente; tuttavia, ormai piegati dall’esercito nemico, abbandonano la piazza e si avvicinano alla loro patria (Cuneo, Tenda e Argentera).
Ritornano, così, per un tempo breve e dannato che va dal maggio del 1799 al giugno del 1800, gli austriaci-russi con Munkatsij quale governatore della città. Cosacchi e Dragoni bivaccano in città. Le cronache ci raccontano di giorni di terrore: saccheggi, furti, violenze e prepotenze d’ogni sorta. Le donne non si allontanano dalle loro case, le più giovani vivono nascoste. Bande di ladri si aggiungono alle varie calamità, derubando persino i russi. Come sempre, nelle azioni efferate di questi malavitosi vi è di frequente anche una ribellione alle iniquità che si vedono.
Valenza è stata spogliata prima dai francesi e ora dagli alleati antifrancesi. I giacobini locali sono derisi e perseguitati, ma, dopo un anno, la buona sorte muta campo. Tornato dall’Egitto, Napoleone scende impavido dalle Alpi e, con una sola battaglia, sempre dalle nostre parti, recupera tutto il paese che gli austriaci avevano occupato con tanta fatica e sanguinosi combattimenti.
Napoleone a Marengo alla morte del suo generale Desaix
Con la vittoria di Marengo del 14 giugno 1800 e relativo epinicio, i francesi rientrano definitivamente a Valenza il 21 giugno 1800, rinvigorendo gli spiriti repubblicani e suscitando speranze ed entusiasmi, tra non poche astrazioni illuministiche, ma con uno straordinario apparato repressivo, accecati da un’esaltazione d’onnipotenza e facendo sentire il profumo di nuove tasse.
Il vasto complesso della Villa “La Voglina” di Valenza, una storica magione posta sulla sommità della Colla e progettata da Filippo Juvarra (1678-1736), è stato utilizzato da Napoleone come quartier Generale prima della battaglia di Marengo.
Dal 1802 tutto il Piemonte è unito alla Francia e la Cisalpina assume il nome di Repubblica Italiana. Nel 1804 il Primo Console Napoleone diventa Imperatore dei francesi, dopo che nel Palazzo Municipale di Valenza è stato esposto un registro in cui i valenzani hanno dato il proprio voto per l’elezione dell’imperatore: i sì hanno superato la metà dei cittadini attivi del registro civico. All’incoronazione a Parigi sono presenti con una delegazione i valenzani Matteo Annibaldi e il colonnello della Guardia Marc’Antonio Mazza. A Valenza l’anniversario dell’incoronazione si celebra nel 1807 con enfasi e grandissimi festeggiamenti. Nel 1810, in occasione delle nozze fra Napoleone e Maria Luisa d’Austria, si celebrano con euforia matrimoni premio di soldati veterani di ritorno dal fronte con oneste fanciulle locali.
Non è una grande città, ma neanche un piccolo centro, questa Valenza francese che finisce all’altezza di via Lega Lombarda – via Mazzini, chiusa tra due valloni a est e a ovest e con il Po a nord, che nel 1801 conta 5.432 abitanti, di cui 3.800 in città e il resto a Monte e in campagna.
Per quattordici anni, dal 1800 al 1814, la dominazione napoleonica, con il Dipartimento di Marengo creato nel 1802, controlla ogni aspetto della vita comunitaria servendosi di una rigida politica d’accentramento burocratico e di sfruttamento imperialistico, imponendo la lingua francese in tutti gli atti e gli impieghi pubblici, riforme legislative, dazi da pagare, coscrizione obbligatoria, vincoli e beffarde limitazioni. Valenza fa parte del circondario o arrondissement di Alessandria.
Mentre il governo francese alimenta il malcontento popolare con i suoi eccessi, il partito dei monarchici locali fomenta odio e lavora attivamente in clandestinità. Questa brace ardente permette alla delinquenza di stabilirsi indisturbata nella zona, di organizzarsi e di prendere anche coloriture politiche. In questo ambiente, nasce la leggenda di Mayno della Spinetta, che diventerà il brigante più celebrato, soprattutto per le dimensioni della sua banda, con notizie non sempre vere ma spesso verosimili.
I segni pubblici della religione sono rimossi e la pluralità è garantita solo sul piano formale dai codici, mentre sulle ragioni ognuno ha le sue. In realtà, le belle e oneste intenzioni di uguaglianza, fratellanza, libertà stanno per essere soffocate dagli interessi economici dei facoltosi borghesi, che vogliono escludere l’aristocrazia e la maggior parte della popolazione valenzana da certi benefici. È l’utopia rivoluzionaria che si piega al pragmatismo dell’interesse.
Nel periodo napoleonico, la città è privata di diverse opere, a cominciare dalla chiesa della Santissima Trinità, che, utilizzata come ricovero per le truppe, è quasi completamente spogliata dei suoi beni. Fra quelle distrutte, primeggia la fortificazione della città con le guarnite porte: con una disposizione del 2 maggio 1805, quel diavolo di Napoleone ha ordinato la distruzione dei fortilizi (cinta muraria) con lo scopo di procurarsi il materiale per l’ampliamento della Cittadella di Alessandria. Per due anni, il 1805 e il 1806, è un continuo via vai di carri carichi di mattoni ottenuti dalle demolizioni, che percorrono la Colla verso Alessandria.
Per ragioni tattiche, poiché servono come protezione contro gli smottamenti del terreno, vengono risparmiati solo alcuni tratti di cinta verso il Po, il bastione della Colombina del quale oggi restano tratti di cortina che, franata in parte, ha lasciato in vista la retrostante struttura archivoltata e la Rocca ormai derelitta – un eremo diroccato di piccole dimensioni che più avanti, nel 1850, sarà raso al suolo – ubicata nella porzione più alta e meglio difendibile della città (area oratoriale). In passato, la rocca era posizionata accanto al castello medioevale, residenza dei feudatari, demolito a metà del XVI secolo.
Il popolo, narcotizzato dalla rapidità delle iniziative francesi, teme la costrizione militare e i contadini soffrono le solite spogliazioni effettuate dagli eserciti di fieno, granaglie, vino e animali, anche da lavoro. I tanti preti all’antica, col bisbiglio mistico incessante dei bigotti e delle anime pie, spaventati dalle profanazioni e dai troppi pavidi e miscredenti, temono una soppressione del culto. Anche se paiono vituperati nei giorni dispari e corteggiati nei giorni pari, sperando forse anche di passare per martiri.
Nel periodo napoleonico la carestia raggiunge vette elevate in certi momenti, con malattie e pestilenze, eppure non pochi valenzani interpretano la genesi francese come il più importante anelito di democrazia e libertà.
Le idee anticlericali portate dalla Rivoluzione Francese favoriscono anche episodi stizzosi e l’uso laico di diverse chiese: non è piacevole, ma è così, c’è poco da fare. Fin da subito, i rapporti col parroco don Francesco Marchese sono difficili e lo saranno per tutto il periodo. Per i matrimoni, le nascite e i funerali la popolazione deve recarsi perentoriamente prima in municipio.
In questo clima, nel 1802, viene soppresso il monastero della SS. Annunziata e la chiesa è affidata alla confraternita di S. Rocco e S. Sebastiano; nel 1835 andrà ai Camilleri e nel 1866, per la seconda soppressione degli enti ecclesiastici, nuovamente alla confraternita di S. Rocco. Scompare il convento e la chiesa dei Cappuccini. Il convento di Santa Caterina è liquidato e smembrato, diviso in lotti e venduto a Marchese, Comolli, Foresti e De Cardenas, passerà poi alla confraternita di S. Bartolomeo. Quest’opera importante – 30 monache e 10 converse, ridotte nel 1801 a solo quattro decane, con la badessa Regina Tibalde e la priora – è stata il fiore all’occhiello nel tessuto religioso e sociale di Valenza, molte famiglie nobili o benestanti vi hanno mandato le loro fanciulle. Inoltre, i locali del soppresso convento di San Francesco (1804) sono adibiti ad abitazione e la chiesa a ricovero di foraggio. Le religiose sono ormai trattate come relitti del passato cristiano quasi superato, come capri espiatori del male oscuro che si vuole abolire.
Hanno non poche difficoltà anche le settarie e sfuggenti confraternite religiose munite di rispettive chiese, che sono le seguenti: SS. Trinità, San Bartolomeo, San Giacomo Maggiore, San Rocco e San Sebastiano, San Giovanni Decollato – al cui interno erano tumulati i condannati a morte e che nel 1793 è stata trasformata in magazzino militare – e la più antica e rigorosa San Bernardino – sorta attorno al 1500, nel XVII secolo sommava circa un centinaio di confratelli – che ha sempre steso le braccia per accogliere malati e persone allo sbando. Ma lo shock più forte si ha con la coscrizione obbligatoria voluta dai francesi, che toglie una parte della gioventù valenzana dagli studi e dal lavoro, mettendo in crisi l’artigianato, l’agricoltura e il commercio. Diversi nostri ragazzi, la cui età tramonta di colpo, sono mandati a morire in terre lontane, sotto la bandiera francese, in guerre che dureranno per sei anni. Quindi, tutto sommato, i valenzani tireranno un sospiro di sollievo quando sapranno di Waterloo.
I sindaci del periodo, vanesi con simpatie napoleoniche, o meglio “maire” alla francese, sono: il giacobino Tommaso Ricchini dal 1801 al 1806, anno della morte; il moderato Carlo Del Pero dal 1806, maire aggiunto Annibaldi-Biscossa; Francesco De Cardenas dal 1813, che, prescelto per rivestire il ruolo di capro espiatorio, se n’andrà sbattendo la porta; e Cordara Pellizzari dal 1814, un discreto funambolo su una corda ormai instabile. Servizievoli uomini politici d’occasione ma non casuali, più che conduttori sono elementi d’arredo, sottomessi in ginocchio ai voleri dei francesi con l’obiettivo di cascare sempre in piedi.
In poco tempo, Napoleone scompare nelle fredde e desolanti pianure russe, nelle quali si è spinto imprudentemente nel 1812. Seguono feroci battaglie, ma alla fine il grande prescelto viene abbattuto. Dopo la caduta dell’astro imperiale e il Congresso di Vienna, che ridisegna gli assetti europei, i sovrani europei ritornano sui troni da cui erano stati spodestati e dipingono l’imperatore sconfitto come un orco sanguinario. E’ l’ora del si salvi chi può, i fedifraghi sono parecchi, sono tempi in cui si cambia facilmente idea, anzi la si inverte.
Il 22 maggio 1814, dopo la ritirata dalla Russia e la sconfitta di Lipsia di Napoleone Bonaparte, il parroco Marchese celebra un Te Deum per il ritorno degli antichi governi e la città è nuovamente in festa. Sic transit gloria mundi.
Dopodiché, poiché le sventure non finiscono mai, Valenza, mandamento nella provincia di Alessandria, soggiace alla restaurazione sabauda e subisce l’insediamento di un presidio austriaco fino al 1823, una protezione militare imposta con circa 600 uomini custodi dell’ordine restaurato dal 1815, che grava, come sempre, sulle spalle dei frustati e sempre più delusi contribuenti valenzani. Al momento, la popolazione valenzana è di circa 6.400 persone, compresi i 500 di Monte, mentre Lazzarone ha circa 500 residenti.
Ritornano gli anacronismi dell’antico regime, gli abusi legali, un revival di privilegi feudali che mortificano il popolo politicamente profondamente diseducato, il vecchio ordinamento comunale, i vapori d’incenso, i monasteri e il monopolio ecclesiastico sull’istruzione, dopo quasi vent’anni di ateismo di stato. Qualcuno rimette le parrucche, tornano le antiche mode, si dichiarano nulli i matrimoni civili contratti al tempo dei francesi, si vogliono ristabilire i vetusti comportamenti, ma questa riapparizione revanscista dell’antico non piace più al popolo valenzano imbevuto di principi libertari. È il tentativo assurdo di cancellare la rivoluzione e l’età napoleonica, ritornando alla vecchia alleanza fra il trono e l’altare e a un governo locale chiuso al dialogo e in cerca di se stesso, dominato dalla nobiltà terriera, con un ritorno al vecchiume passato fingendo devozione. Ma, dopo gli spiriti repubblicani portati dai francesi, il trionfo della reazione sarà breve e Valenza, con la ripresa dei mercati, s’incamminerà a sfruttare le grandi tematiche sociali e a diventare un centro produttivo orafo di alta qualità in modo irreversibile.