La Chiesa di Santa Caterina e l’oratorio di San Bartolomeo a Valenza
Un nuovo approfondimento sulla città
VALENZA – Questa città non conserva rinomate opere d’arte del passato e le poche che rimangono sono per lo più abbandonate. Un piccolo capolavoro architettonico, però, è l’antica chiesa di Santa Caterina, oggi denominato Oratorio San Bartolomeo, in largo Lanza, all’incrocio tra le vie Banda Lenti, Cavour e Alfieri. La storia di questa chiesa e del convento è travagliata e molto complessa, fatta di abbattimenti, ricostruzioni e trasformazioni. Da allora di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia; l’Oratorio di San Bartolomeo è oggi considerato il complesso più remoto dell’intera città di Valenza.
All’inizio, la leggendaria badia in sorte Monasso offriva accoglienza a donne povere che vi si ritiravano per “vivere espropriate dal mondo” e suddite di una grande madre; per questo motivo fu chiamata Santa Caterina delle donne. Sarà eretta a monastero nel 1506. La badia di Santa Caterina, con relativa chiesetta e una decina di monache, il cui ordine benedettino era coevo a quello francescano, sembra essere già presente nel 1360; una lapide conservata nel cortiletto dell’attuale edificio, infatti, reca la data del 1399.
In questi secoli, lo sviluppo locale delle confraternite con le loro funzioni sociali porta a un sostanzioso mutamento della vita cristiana a Valenza, che viene contaminata da un controverso e pugnace fanatismo religioso in cui le differenze sono molto più grandi delle somiglianze, perfino in un mondo solidale come dovrebbe essere questo.
Il nome del monastero di Santa Caterina si trova per la prima volta in un documento che menziona una visita da parte di una rilevante autorità ecclesiastica diocesale pavese il 26 settembre 1460. Sistemato in un altro luogo, era già conosciuto a quell’epoca perché l’autorità vescovile di Pavia, da cui dipendeva, dovette intervenire contro certe rilassatezze di costume delle monache.
È una lunga storia di vita monastica, di devozione e di carità, che fa assonanza con verità ma che a volte non coincide, con alcuni comportamenti sregolati. Il contegno delle suore non era impeccabile se l’autorità vescovile di Pavia dovette prendere alcuni provvedimenti restrittivi contro, sembra per violazione della clausura. Un tema scivoloso e un fatto difficile da dimostrare in questo mondo inesplorato, forse comportamenti favoleggiati con ignominia dai moralisti dell’epoca, che avevano in sé qualcosa di surreale, o forse un errore appariscente che ha significato una grande vergogna per le monache coinvolte.
La nuova struttura, dov’è oggi la parte rimasta, viene costruita dalle monache Benedettine quando, a causa dell’ampliamento delle fortificazioni spagnole da parte dei francesi tra il 1557 e il 1559, il loro monastero viene abbattuto, trovandosi a ridosso delle fortificazioni nella sorte Monasso, attiguo a Porta Casale in zona Colombina, in direzione dell’attuale stazione ferroviaria.
Sloggiate in molo modo, alle monache benedettine sono assegnati i locali delle confraternite di San Bartolomeo e di San Giacomo, poste entrambe nello stesso isolato odierno. Un intervento maldestro e arrogante, un pasticcio che genera molta confusione e che fa nascere un aspro conflitto con gli esecutori e i governanti della città, un lungo contenzioso che finisce solo nel 1563 ad opera compiuta, quando si impone il potere locale e la controparte è costretta ad accettare la transazione con dignità esemplare.
Il trasferimento nella nuova costruzione avviene in modo graduale e con una procedura complessa; nel 1558, infatti, le monache continuano ad alloggiare in una parte non ancora abbattuta del vecchio edificio, mentre il nuovo è in costruzione. Nel gennaio del 1584, le monache (abbadessa autorevole Arcangela Camilla De Giorgi) acquistano una casa adiacente con forno contiguo da Gian Giacomo Stanchi, pagando duecento scudi d’oro avuti in prestito da un certo Antonio Dalla Chiesa, per potervi fabbricare la chiesa, a cui seguono altri conseguimenti. A questo punto, il complesso di Santa Caterina comprende diverse case attigue, di proprietà desistita di Brasca, Gaudio, Palazzi, Scavini, Stanchi e altri, case che ben presto sono trasformate e riadattate a oratorio religioso e pubblico del monastero. Più tardi, la dimensione dell’aggregato è accresciuta ulteriormente, tanto da occupare l’intero grande isolato. Il monastero benedettino di Santa Caterina, innovato radicalmente, sembra essere diventato uno dei più grandi della città, equivalente a quello grandioso di San Francesco dei Cappuccini, frati molto operosi nella predicazione locale, ma anch’esso oscurato da certe ombre, a volte cupe. La verità storica si disperde nella nebbia delle inverosimili antinomie neppure tanto dissimulate.
Ma il fatto più importante è la costruzione di una chiesa a pianta poligonale dedicata a Santa Caterina nel 1584, un gesto morale, ma soprattutto estetico, che suscita devozione; fino a quel momento, le monache si sono servite delle vecchia chiesa di San Bartolomeo. La nuova chiesa edificata, anche se non troppo spaziosa, è divisa in due parti, una riservata alle monache e l’altra riservata al pubblico, e oggi costituisce una delle opere antiche più prestigiose della città. Accanto alla chiesa, c’è un cortiletto recintato con accesso diretto dall’attuale via Banda Lenti, anche adibito a sepolcreto, che serve da passaggio alla famiglia dei De Cardenas, esotica fin dal nome e la patrona del monastero, che abita in un ricco palazzo di fronte, acquistato poi a fine Ottocento dai Ferrari Trecate e per questo oggi noto come Palazzo Trecate. La chiesa viene edificata da un maestro della famiglia Panizzari, che diventa nota a Valenza per aver contribuito a erigere, tra il 1600 ed il 1622, il nuovo duomo progettato dell’architetto luganese Paolo Falcone.
Poco più avanti, è collocata la chiesa di San Giacomo, appartenente ai domenicani, il cui vecchio monastero ha subito la stessa sorte di Santa Caterina nel 1557-1558, lasciandone emergere una visione distorta, fatta di risentimento e di vittimismo che si alimenteranno reciprocamente.
Intanto, nei conventi vengono ridimensionate alcune pratiche di patimento, cosa che provoca un certo vuoto devozionale anche a Valenza. Durante il Concilio di Trento, che dura dal 1545 al 1563, la cultura penitenziale viene ufficialmente rimossa, diventando molto più spirituale. Emblematico del prestigio posseduto dal convento è la frequentazione educativa costante di molte ragazze delle famiglie valenzane più benestanti e devote.
Sotto il vento riformistico della Rivoluzione Francese, nel dicembre del 1796, con un editto, Napoleone sopprime tutti i conventi aventi meno di 15 religiosi. A Valenza i monasteri e le loro proprietà occupano circa un decimo del suolo urbano; si tratta di un patrimonio, abbondante pure di opere d’arte, che viene trasferito allo stato e venduto.
Nel 1799 nel monastero di Santa Caterina, straordinario gestore del suo crepuscolo, ci sono ancora ben 30 monache (religiose corali) e 10 converse, che, negli ultimi tempi, coltivando depressione e rabbia, sono state costrette a una subordinazione verso i singolari governanti e a far buon viso a cattivo gioco di fronte alla continue ed estenuanti prese in giro. Sbattono contro la durissima realtà dei tempi, in cui osservare le calamità altrui è quasi uno svago ed ogni nota deve essere in sintonia col dittatore.
Trainato in modo inesorabile dagli eventi, a partire dal 1801, il monastero viene inopinatamente smembrato e venduto a privati; la chiesa, addirittura, è adibita a magazzino, veicolando un racconto diverso, a senso unico. “Le cittadine madri” erano ormai solo in sei: la badessa Regina Tibaldè, la priora e 4 decane. Per i valenzani pare sia uno scherzo o una sorta di maledizione, ma, purtroppo, è tutto vero: l’indignazione è generale e profonda. Resta una brutta storia, ma va inserita nel suo tempo: i francesi, dopo aver sconvolto il mondo con la filosofia e la ghigliottina, ora distruggono anche i nostri luoghi religiosi.
Ogni parte dell’oratorio è acquistata dai concittadini De Cardenas, Foresti, Marchese, Comolli e ha inizio la graduale e inesorabile trasformazione dell’ex monastero. Gli acquirenti cominciano a costruire e ad abbattere mura per ricavarne alloggi abitativi. Ma presto il conte Francesco De Cardenas (figura locale di spicco, quasi un superprecettore egocentrico), dopo aver ottenuto ulteriori e importanti porzioni della prima compravendita – la chiesa, il primo chiostro e parte del secondo – dà inizio alla progressiva trasformazione di questa parte dell’ex monastero.
Dopo la nuova consacrazione della chiesa nel 1835, con una strategia contorta, De Cardenas cede tutto alla potente Confraternita di San Bartolomeo, a prezzo di favore. La vendita viene formalizzata nel 1838, per un corrispettivo di 6000 lire, delle quali De Cardenas incassa solo 4000 lire, avendo lasciato la differenza per “la costruzione di due altari laterali e per la servitù alla chiesa di una tribuna particolare per la nobile casa predetta”.
La chiesa viene riaperta al pubblico nel 1840, i valenzani non chiamano più il complesso rimasto Santa Caterina bensì, San Bartolomeo. Con il trasferimento in Santa Caterina, una sorta di riconquista, i confratelli di San Bartolomeo, dopo due secoli e mezzo, ritornano a casa propria, mentre quelli di Santa Caterina sono passati da proprietari a esecutori della volontà altrui.
Nello stesso anno la chiesa è restaurata e ridipinta, a spese di Lorenzo De Cardenas, dall’artista lombardo Francesco Gabetta e, all’ingresso principale, viene collocato un pregevole portale gotico in cotto, probabilmente già appartenente alla chiesa di San Francesco, distrutta da un primo incendio nel 1834. Il restauro del 1840 aumenta il pregio artistico dell’edificio, ispirandosi alla maniera neogotica dei primi dell’Ottocento ancora impregnata dal gusto trubadur. Purtroppo, il pregevole organo ottocentesco Mentasti andrà distrutto.
Fino all’inizio del Novecento la chiesa, unica parte testimone del passato, è una sede di culto, poi, dal primo dopoguerra in avanti, c’è un graduale e completo abbandono dell’edificio da parte di tutti. Un grande affetto a parole e di buone intenzioni, però, non tradotto nei fatti. Un cahier de doléance contro il Comune.
Siccome stiamo trattando la chiesa di Santa Caterina, l’oratorio di San Bartolomeo, la vecchia chiesa e il soppresso ampio monastero di Santa Caterina, la cui parte est era chiusa da un muro che costeggiava l’antica strada di circonvallazione (ora viale Vicenza), è il caso di fare qualche precisazione e di circostanziare brevemente l’intreccio generale facendo un passo indietro, repetita iuvant.
La chiesa e l’unito ospedale di San Bartolomeo, aperto ai poveri e pellegrini nel 1415, vengono fondati il 17 aprile 1412 (i coniugi de Magistris ne erano rettori e custodi), quando non esisteva ancora una vera e propria confraternita, che da un documento risulta presente nel 1529.
Dopo il passaggio alla nuova Santa Caterina nel 1557 e la scomparsa del proprio ospedale, che più tardi diventerà comunale, i confratelli di San Bartolomeo costruiscono una loro piccola chiesa in sorte Astiliano, grazie ad alcune elargizioni ricevute.
Purtroppo, nell’assedio del 1635, subiscono molti danni dai soliti francesi che distruggono l’intera masseria. Pur afflitti da problemi gravi, al di là di certe divisioni confessionali, resistono e, stupefatti, tendono devotamente la pargoletta mano, fino all’acquisizione del Santa Caterina nell’Ottocento. Questi confratelli si confermano tra i più disponibili a compiere azioni di misericordia e di carità in questa città. Poi, nella bufera del Novecento, stremati dalle reiterate promesse e il tempo trascorso in compagnia di un sogno svanito suggeriscono a molti confratelli, o presunti tali, un addio alle armi. Segue il niente ridipinto di niente.
Abbandonato all’incuria per molti decenni, dopo troppe elucubrazioni melliflue, il solito carico di retorica e, dopo il crollo del tetto del coro nel 1972, negli anni Novanta e nei primi del Duemila l’Oratorio San Bartolomeo e la chiesa sono infine oggetto di un approfondito intervento di restauro da parte del Comune a firma di un gruppo di progettisti, gli architetti Semino e Bartolozzi e gli ingegneri Angeleri ed Evaso; quest’ultimo segue la realizzazione in qualità di direttore dei Lavori.
Gli ambienti superstiti (la chiesa, il coro, la sagrestia, il vano tra cortile e sagrestia e le scale) in passato avevano un aspetto molto diverso da quello attuale, a causa delle varie manomissioni subite nel tempo. Le costruzioni attuali nell’area del monastero, invece, non hanno niente di antico che in qualche modo possa ricordare il convento di Santa Caterina con la sua rovinosa parabola, travestita di modernità e frammentata in peccatori e santi.
Oggi, l’edifico appartiene al Comune di Valenza ed è composto dal corpo centrale di pianta ottagonale, la chiesa, alla quale si congiungono due cappelle laterali, da un cortile recinto e da un altro stabile situato in via Banda Lenti.
Nell’epoca dello smartphone e dei social, restituire alla città il suo monumento più antico ha assunto il significato di una vittoria postuma, di grande valore intellettuale, e ha offerto a questa sbadata città uno spazio di pregio per svolgere iniziative culturali, sempre meno presenti nell’odierno mesto e patetico torpore generale sconsolante, accompagnato da sospiranti “ti ricordi”.
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