Gli ultimi giorni della Liberazione di Valenza
Viaggio nella storia della Città del Gioiello
VALENZA – A Valenza l’insurrezione del 25 aprile 1945 dura solo poche ore, poi, per tre giorni, le squadre dei fascisti spadroneggiano nella città, commettendo soprusi e angherie. In questi giorni, nella nostra zona sono concentrati circa 30 mila uomini armati facenti parte della divisione San Marco, di una divisione e mezza tedesca e alcune centinaia di uomini delle Brigate Nere e della X Mas. Tutti fanno parte del Corpo d’Armata Lombardia, sono al comando del generale Jahn, provengono dalla costa ligure e custodiscono qui una testa di ponte per il passaggio oltre il Po.
Nella mattina, mentre le truppe fasciste del IV Corpo d’Armata Lombardia stanno tentando una ritirata verso la Lombardia, si compie uno degli atti più tragici della Resistenza locale: i partigiani valenzani Mario Nebbia, Carlo Tortrino e Giovanni Valeriani sono fucilati in località traghetto del Po da una colonna della Brigata Nera, dopo essere stati sorpresi e catturati da una pattuglia tedesca nei pressi del fiume. Si salva miracolosamente Giuseppe Nebbia, anch’egli messo al muro.
Il 26 aprile il ponte di barche sul fiume viene fatto saltare dai partigiani e, alle ore quindici, nel Duomo di Alessandria, iniziano le trattative per la resa del Corpo d’Armata Lombardia. Vi partecipano il capitano Lautischar, stretto collaboratore del colonnello Becker che guida l’esercito germanico in Alessandria, altri quattro ufficiali germanici, il Canonico Don Quinto Gho, incaricato dalla Curia Vescovile di Alessandria, e il vicario vescovile mons. Damiano Civera (la diocesi alessandrina non ha il vescovo). Poi seguono altri colloqui in Prefettura, dove si fronteggiano il CPLN (Comitato Provinciale di Liberazione Nazionale) presieduto da Giuseppe Longo, il generale Hildebrandt, comandante del presidio tedesco, Becker e altri. La strada non è di certo in discesa: si ha a che fare con una divergenza profonda e durante il negoziato si combatte ancora ovunque in balia degli eventi.
Intanto a Valenza la Brigata Nera e la GNR (Guardia Nazionale Repubblicana), innervosite e fuori controllo, scorrazzano in ogni parte, esplodendo colpi senza freno; nelle case di campagna cacciano diverse famiglie, e difendono la strada della Colla con mitragliatrici piazzate nella villa Voglina.
Nello stesso tempo confluiscono a Valenza sempre più colonne tedesche e fasciste, che intendono passare il Po con l’unico traghetto ancora praticabile per fuggire in Lombardia, verso la Valtellina. I partigiani cercano di fermare questi fuggiaschi disperati, alcuni già in borghese; tra loro ci sono anche diversi tedeschi del Kommandantur 1014 insediati a Valenza, la piazza più importante della provincia con il tribunale militare, sotto il comando del colonnello Becker. Essi hanno bruciato quasi tutta l’enorme quantità di documenti conservati nel presidio della scuola “Costanzo Ciano”.
Il 27 aprile, sul fiume, si sviluppa uno scontro a fuoco con morti e feriti tra due squadre di partigiani guidati da Aramis e soldati tedeschi che stanno cercando di traghettare il Po su due barconi strapieni. Le pattuglie di partigiani fermano quasi tutti i fuggitivi non concentrati, provenienti soprattutto dalla Liguria, e li conducono nei loro posti di blocco, uno dei quali è collocato al crocevia del cimitero di Valenza.
Nello stesso giorno, a Pecetto, la vedetta partigiana del distaccamento scorge dal campanile una delegazione di ufficiali della X MAS salire verso il paese per un colloquio, mentre i capi partigiani Ezio (Carletto Lenti), comandante della zona Mugarone-Bassignana, e Batista (Enzo Luigi Guidi), comandante della Brigata, stanno organizzando le azioni da intraprendere: questi combattenti antifascisti sono pronti a dare tutto senza aspettarsi niente in cambio sul piano personale. Nell’incontro, pieno di diffidenza e di cautela, i fascisti comunicano che il generale Amilcare Farina, comandante della divisione San Marco, una delle divisioni dell’Armata Liguria della R.S.I., chiede un incontro con le formazioni partigiane nelle scuole di Valenza per concordare una tregua e uno scambio di prigionieri. Le due parti si accordano per l’incontro e procedono anche al rilascio immediato di alcuni combattenti che erano stati catturati.
Intanto, nelle trattative ad Alessandria, dislocate tra il Duomo e la Prefettura, l’ammiraglio partigiano Girosi propone la resa della San Marco al generale Farina che specifica le condizioni: per i reparti al di là del Po, nessun provvedimento possibile; per i reparti al di qua del Po, concentramento in Alessandria Cittadella e trattamento da prigionieri di guerra, tregua d’armi e garanzia personale sull’eseguire le condizioni sopra esposte. Durante gli incontri, il colonnello tedesco Becker minaccia di spianare Alessandria a cannonate, ma, infine, alle sei del pomeriggio dello stesso giorno, si giunge finalmente alla resa del presidio tedesco. Il colonnello Becker sigla l’accordo: il suo presidio se ne andrà seguendo gli ultimi reparti germanici in transito. I due rappresentanti del CLN (Comitato Liberazione Nazionale), Fadda e Girosi, accettano la proposta di una breve proroga, anche per dare modo ai gruppi partigiani di arrivare ad Alessandria.
L’atto della resa, scritto nella sala capitolare della cattedrale dal nuovo prefetto Livio Pivano, un’azionista nato a Valenza, è firmato in Prefettura dal presidente Longo per il CPLN, dall’ammiraglio Girosi per il CLN e dal generale Hildebrandt comandante del presidio tedesco. L’atto comprende la capitolazione del presidio tedesco di Alessandria e la resa della divisione San Marco di stanza a Valenza e appartenente all’armata del generale Jahn, anche lui poco propenso ad arrendersi al CLN.
Ma a Valenza nella divisione San Marco dell’Esercito Nazionale Repubblicano, con il III gruppo esplorante appena giunto da Acqui e da Savona, molti ufficiali non condividono la resa tedesca e chiedono al generale comandante Farina di non accettare gli ordini del comandante del Corpo d’Armata Lombardia, il generale Jahn, dal quale dipende ora la San Marco.
Nella zona, intanto, è continuo il movimento di truppe tedesche provenienti dalla Liguria verso Valenza con l’intento di varcare il Po, alle quali si aggiungono molti della divisione San Marco, il cui comando servizi e quello dei trasporti hanno già superato il Po e raggiunto Mortara con tutti i suoi elementi, mentre anche i Pionieri arrivano a Valenza e il gruppo Valli ha già oltrepassato il Po.
Il generalleutnant Hans-Georg Hildebrandt, comandante dello stato maggiore di collegamento tedesco assegnato alla divisione San Marco, rientra a Valenza da Alessandria in uno stato di agitazione estrema: ha appreso la notizia della morte del figlio, decapitato dai russi, e ad Alessandria ha visto il comportamento di quel comando Piazza incline alla resa. In serata, il generale tedesco ordina che tutti gli elementi di truppa liguri, emiliani e toscani siano lasciati in libertà.
Il 28 aprile il comando tattico della San Marco permane a Valenza, mentre il comando servizi ha già oltrepassato Vigevano e il comando 6° è a Valmadonna. Giunge a Valenza la sezione pezzi della CCR/6° e, mentre il I/6° oltrepassa il Po e marcia verso Vigevano, anche il III/6° arriva e sosta a Valenza.
Tra i tanti episodi ripugnanti di questi giorni, c’è quello del III gruppo esplorante, che in serata tenta di passare per le armi il Capo di Stato Maggiore della divisione, perché scoperto mentre telefona ad Alessandria ai partigiani per informarli dell’esistenza dei reparti e del generale Farina a Valenza.
Poi Farina riceve da una staffetta una busta del generale Ollearo, il Segretario Generale per l’Esercito Nazionale Repubblicano, nella quale c’è un foglio contenente notizie clamorose: il maresciallo Graziani è prigioniero, il Governo è stato arrestato, Mussolini è stato catturato sul lago di Como, Berlino è accerchiata e, infine, la preghiera di non arrecare danni alle popolazioni lungo il cammino dei reparti della divisione San Marco.
Ma è di assoluta evidenza che Valenza resti ancora occupata da reparti tedeschi e dalla divisione San Marco. Nella città si rispettano la tregua e il patto di libero passaggio delle truppe, ma gli animi sono esasperati e la tensione è a mille. Rientrato a Valenza, il generale Farina rende noto quanto pattuito ai suoi marò e al comando di Corpo d’Armata in transito, che però decide di passare il Po e di inoltrarsi in Lombardia. Il generale comandante, quindi, detta l’ultimo ordine del giorno alla divisione.
Secondo le condizioni concordate, restano in Piemonte il comando tattico della divisione e gran parte del secondo con un gruppo di artiglieria. Intanto, a Valenza, continua il transito di truppe armate tedesche e colonne fasciste provenienti dai presidi della Liguria e della zona con l’intento di varcare il Po; esse sono state attaccate in più punti del loro percorso. Mentre nella prima parte della notte i parlamentari partigiani rientrano a Valenza, il III gruppo esplorante passa il Po; ma qualcuno nega l’accordo o non lo conosce e, nella zona, centinaia di militari della San Marco sono braccati e catturati da unità partigiane.
Il 28 aprile in città si rispetta la tregua e l’accordo per il libero transito delle truppe, ma gli animi sono esasperati e in ogni momento si temono scontri. Regna un caos assoluto, si alternano di continuo notizie che lasciano intravedere una soluzione definitiva e notizie che prospettano una catastrofe. Il comandante partigiano Folgore (Cassini Luigi) e alcuni suoi uomini occupano l’ormai vuota caserma della GNR in viale Casale, ora Galimberti, stendono dei reticolati e piazzano una mitragliatrice sul balcone della casa di fronte, sopra il bar Sport.
Il CPLN si rende conto che a Valenza la situazione è terribilmente pericolosa e invia una rappresentanza guidata dal Prefetto Pivano, dal dott. Luigi Fadda, membro del CPLN, e dal contrammiraglio Massimo Girosi, comandante della piazza di Alessandria per il CLN, scortati da un drappello di partigiani a fare da protezione, per trattare con Jahn e Farina la resa di tutte le forze che stanno confluendo a Valenza per attraversare il Po verso la Lombardia, e che costituiscono il pericolo imminente.
Così, nella scuola “Costanzo Ciano”, riprendono le trattative tra il CPLN e i comandanti delle forze nazi-fasciste, un negoziato che si dimostra ancora una volta molto complicato. Mentre i rappresentanti partigiani vogliono stringere i tempi, appare chiaro che la controparte, invece, voglia allungarli: i repubblichini non desiderano arrendersi alle forze partigiane, come dagli ordini ricevuti, ma hanno intenzione di azzardare una ritirata verso Milano, attraversando il Po.
Nel frattempo, per trattare con il generale Farina, da Pecetto arrivano i delegati partigiani Dutur (Nilo Ottone) e Roberto (Cesare Taverna), mentre da Valenza arriva Capo (Renzo Cavanna). Sono armati e muniti di bandiera bianca e affrontano con molta cautela la pericolosa missione. Arrivati alla sede del comando fascista, insediato nella scuola “Costanzo Ciano”, già dal piazzale e su per le scale sono riempiti di sputi e di insulti dai nemici, per la maggior parte giovanissimi con le divise ornate di teschi, aquile e tibie incrociate e armati di pugnali, bombe a mano agganciate alle cinture e nastri di pallottole a tracolla, che manifestano l’acredine e la cattiveria degli sconfitti e creano un’ulteriore complicazione per raggiungere l’intesa. Si fa loro incontro il prefetto Pivano, informandoli che le trattative sono già in corso e pregandoli di non intervenire, ma viene interrotto dal Farina, che dice di voler trattare lui con questi partigiani della 108° Brigata Garibaldi di Valenza.
Dopo una snervante attesa, il generale Farina, che poco sopporta la retorica e fa bene i conti con la realtà, incontra i tre scudieri antifascisti locali e gli fa subito vedere dalla finestra alcuni prigionieri nel cortile, promettendo la loro liberazione in cambio di una tregua di dodici ore che permetta alla sua armata di passare il traghetto sul Po procedendo verso Milano. In caso contrario i prigionieri saranno fucilati, poiché catturati in abiti civili con le armi in pugno e quindi considerati ribelli, cosa a cui seguirà il saccheggio della città e un attacco in forze al distaccamento partigiano nel Comune di Pecetto. La tregua è accettata, ma con la condizione di avere subito in cambio i prigionieri. Così, sempre più cauti e soverchiati da insulti e minacce dai furiosi camerati presenti, i tre negoziatori, con i compagni liberati, stipati in uno sconquassato camioncino, se ne vanno veloci verso Pecetto, dove sono accolti dagli altri partigiani con gioia.
Mentre si dibatte instancabilmente con gli esponenti antifascisti giunti da Alessandria, un gruppo di agitati Arditi della San Marco, comandati dal tenente colonnello Marcianò, circondano le auto del CPLN e con le armi in pugno, minacciano di ammazzarli tutti. Interviene il generale tedesco Jahn, che ingiunge al generale Farina di far mantenere ai suoi la disciplina, evitando il massacro della delegazione per un soffio.
Dopo l’incidente, camminando sempre sul precipizio con tracotanza, riprendono le trattative, che ben presto restano incagliate in modo tale che il generale Jahn afferma di dover attendere ordini superiori. Il colloquio diventa sempre più drammatico, sulla trattativa cala un’atmosfera glaciale, ma qualcuno recita solo la parte più conveniente.
Solo a mezzanotte si riesce a concordare la tregua e l’immobilità dei reparti fino alle dodici del giorno dopo, il 29 aprile; è il segnale concreto della fine delle ostilità. Si stabilisce che nessun contingente militare debba più affluire a Valenza. Il generale Farina, che ha grossi problemi a convincere i suoi ufficiali ad accettare la resa concordata, ordina che le truppe in transito della sua San Marco si diano prigioniere nella Cittadella di Alessandria. Nella notte, il generale Jahn fugge, traghettato su un canotto di gomma oltre il Po.
Alle dieci del mattino successivo, domenica 29 aprile 1945, nelle scuole di Valenza riprendono le trattative, ma l’epilogo continua a non arrivare per alcune reticenze, così, alle ore quattordici, i rappresentanti del CLN pongono l’ultimatum: o si arrendono entro un quarto d’ora o le truppe tedesche verranno attaccate dalle squadre partigiane coadiuvate dall’artiglieria americana. Già in Lombardia, Jahn cede e accetta l’accordo tramite un telefono da campo. L’assunto è molto chiaro: “Le forze armate tedesche in Valenza si arrendono onorevolmente e saranno consegnate alle truppe alleate che stanno per sopraggiungere”. L’atto di resa definitiva è firmato dal rappresentante dell’armata tedesca Zoban, dal prefetto Pivano e da Massimo Girosi.
Il comando tattico della San Marco si trasferisce a Valmadonna e, nel pomeriggio, passa in prigionia di guerra ad Alessandria; lo stesso vale per il 6° con i suoi restanti reparti d’artiglieria e per il II/3° unitamente al 3° gruppo da posizione costiera.
A Valenza, la notizia della resa si diffonde in un lampo. Tra due ali di folla plaudente, la delegazione, scortata dai partigiani, si reca in municipio. I valenzani invadono le strade e la piazza. Dal balcone del Comune, il Prefetto della Liberazione, Livio Pivano, annuncia ai cittadini valenzani che i nazi-fascisti si sono arresi al CPLN e che Valenza è finalmente libera. Parlano diversi compiaciuti oratori mentre viene sventolata la bandiera della Brigata Garibaldi.
Nel pomeriggio una fila di tedeschi, arresi e umiliati, esce dall’edificio scolastico di Valenza sotto il controllo degli americani, il cui primo carro armato è entrato in città alle ore quattordici. Sono discinti, alcuni senza giacca, altri in mutande, diversi sono anziani. Un altoparlante montato sulla facciata della scuola diffonde il Bolero di Ravel in continuazione. Sulle truppe nazi-fasciste in movimento, aerei alleati a bassa quota continuano a lanciare manifestini invitanti alla resa. Disintegrata, la 3a Divisione Fanteria di Marina San Marco, cesserà di esistere il giorno dopo.
Lunedì 30 aprile tutta Valenza è in piazza del Duomo davanti al balcone del Comune (Palazzo Valentino), ci sono anche gli angloamericani e i valenzani osannanti festeggiano la fine del regime. Sul balcone si alternano esponenti di punta della Resistenza: Sisto, Boris, Vaggi, Repossi, Gilardenghi e Guidi.
In municipio si è insediato il sindaco della liberazione, Guido Marchese, e la prima giunta provvisoria è costituita dai membri del CLN di Valenza. Precedentemente a Pecetto, abituale luogo dei loro incontri, i componenti del CLN si erano accordati con i partiti per le nomine degli amministratori comunali di Valenza. Come sindaco era stato scelto il socialista Guido Marchese e come assessori i democristiani Staurino e Deambroggi, i comunisti Masi e Rossanigo, i socialisti Camurati ed Emanuelli e gli azionisti Legnazzi e Deambrogio. In seno al CLN verrà poi costituito un comitato di epurazione composto da Vescovo, De Ambrogi, Deambroggi, Ferraris e Badini Confalonieri. Saranno deputazioni indulgenti e con nessuna traccia di idee per il futuro.
Spudoratamente, anche a Valenza alcuni voltagabbana sconfessano qualsiasi loro dimostrazione di adesione al fascismo, fingono di mostrarsi puri e salgono a forza sullo stipato carro dei vincitori, ben presto anche in cerca di capri espiatori. Purtroppo, la festa sarà guastata da qualche violenza gratuita mirata a saldare i conti e da alcuni gesti quasi consueti verso i vinti. Alcuni combattenti liberatori, forse inconsapevoli e al di là delle loro intenzioni, sono pronti ad aprire la strada a un altro regime autoritario di cui sono innamorati.
Il generale Farina cadrà in mano a un gruppo di partigiani, che lo picchierà selvaggiamente procurandogli la frattura di una tempia; dovrà la salvezza agli americani della 92ª Divisione Buffalo. Trentanove soldati della GNR, arresisi con la San Marco ad Alessandria, tornando a casa disarmati, stanchi e umiliati, sono catturati dai partigiani al Colle di Cadibona; vengono tutti denudati, fucilati e abbandonati in un macabro mucchio ai lati della strada. Ma la guerra è finita, e così viene riscritta la geografia dei buoni e dei cattivi nel mondo. Churchill disse: “Bizzarro popolo, gli italiani. Un giorno ha 45 milioni di fascisti, il giorno dopo 45 milioni tra antifascisti e partigiani. Eppure, dai censimenti non risultano 90 milioni di italiani”.