Pescatori e cacciatori di Valenza nel dopoguerra
Personaggi della storia della Città del Gioiello
VALENZA – Nel tempo libero degli anni del secondo dopoguerra, i valenzani erano assidui frequentatori delle rive del Po, sia per la passione della pesca che per quella della caccia.
Niente accomuna come una grande passione, e i pescatori valenzani, sono stati una rete estesa d’amicizie e una vera collettività che amava riconoscersi nei propri rituali, nella condivisione delle competenze e in una particolare sintonia con la natura e con l’acqua, a contatto con le quali erano tenuti ad attendere in un silenzio rotto soltanto dai rumori del creato e dei propri studiati gesti.
Vivevano l’acqua come i non pescatori neanche immaginavano: la monitoravano, la studiavano, la sognavano, capaci di vivere la loro vita sul fiume con ardore, traendo anche la forza per tutelare ciò che amavano.
In quel periodo, a Valenza i pescatori usavano la canna fissa, il mulinello, la rete piccola (al balansì), la rete grande (al grifò) o i tremagli (i termagi); questi ultimi, costituiti da tre reti, erano consentiti solo ai pescatori considerati professionisti, ma erano utilizzati anche da qualche screanzato. Si pescavano carpe, lucci, tinche, ecc., poi si è diffuso molto rapidamente il pesce siluro, una specie alloctona cresciuta a dismisura diventando un problema per la fauna ittica autoctona.
Nel dopoguerra il primo presidente dell’Associazione Valenzana dei Pescatori fu la guardia giurata Enrico Rossanigo, che rappresentava la Federazione Italiana Pesca Sportiva ed era un abile organizzatore di gare sul Po e nei laghetti dei dintorni. Il re del Po, però, era l’eterodosso Francesco Lingua, detto “Musolino” per la rassomiglianza con il famoso bandito. Pescatore e cacciatore, trascorse tutta la vita sul fiume e nei boschi attigui; la sua baracca era meta di molti amici tra i quali il gruppo non troppo riservato del caffè Garibaldi, di cui facevano parte al Rasmì (Erasmo Terzano), al Barusò (Carlo Baroso) e Nino Buonafede.
Pescatori esperti e fedeli a se stessi erano al Némbro, Carlin Bac-i (Sannazzaro), al Landa (Giovanni Giordano), al Garbli (Giovanni Corbellini), al Majnéri (Walter Garberi), al Carlin bac, al Nembrot e al Ciciuac (Baiardi), la cui moglie vendeva il pesce fresco al mercato coperto, come la moglie dello Stufnì, Pierina. La sezione comunale di pesca aveva più di cento associati (vedi foto con nomi). Ad ogni pescatore professionista veniva assegnata una zona del fiume in cui praticare la pesca, previo pagamento di una tassa comunale.
Un pescatore sulla riva del fiume che lanciava l’amo verso un punto che solo lui sapeva appariva all’osservatore come un’immagine di pace, di armonia e di eleganza. Si provava perfino invidia per la capacità che avevano i pescatori di essere distanti dal mondo frenetico che scorreva un po’ più in là, oltre la riva del fiume. Oggi, purtroppo, dopo una infinita serie di abbandoni, è rimasto poco di tutto ciò. Constatazione amara grondante di realismo, anche se già visibile da tempo.
Destinavano una porzione di tempo libero alla pesca anche molti cacciatori. In quegli anni, sulle nostre colline e nelle boscaglie del fiume abbondavano lepri, fagiani quaglie e pernici, che, come il pescato, spesso finivano nelle pentole e nei tegami dei capanni e delle baracche in riva al Po, sovente consumati sul posto e sempre accompagnati da esuberanti bevute e da ogni ben di Dio sulla tavola, dove la dieta non era di casa: all’epoca non c’era il pericolo dell’alcol test e i mezzi più utilizzati per spostarsi verso il fiume erano il motociclo e la bicicletta, carichi di tutto, al posto dell’auto.
Acchiappare e uccidere la selvaggina non è mai stata un’attività lucrativa per il cacciatore valenzano, ma piuttosto un hobby di irresistibile fascinazione in cui ha sempre investito somme consistenti per procurarsi dispositivi all’avanguardia; basti pensare agli strumenti come le attrezzature, i fucili, gli indumenti, ecc.
Primo presidente dei cacciatori valenzani fu Giovanni Garavelli, detto l’Arsigat, titolare di un negozio di armi e di munizioni in corso Garibaldi, nel palazzo dei Terzano.
Una famiglia di noti cacciatori era quella dei Milanese, il capostipite era Giuseppe, seguito dai figli Valentino, Massimo, Remo e Ugo. Dal dopoguerra, tra i cacciatori valenzani più raffinati e luccicanti nello scegliere il luogo o anche la predata nazione in cui sparare, ci sono Amisano, Bisio, Bruni, Chiappone, Fabbri, Frascarolo, Icardi, Lombardi, Marelli, Morandi, Passalacqua, Pozzi, Vanoli, e moltissini altri (vedi foto con nomi).
Tra i più originali seguaci di Sant’Uberto in un’epoca considerata ormai antica, c’era al Delfì, ovvero Delfino Scalcabarozzi che nel suo negozio di pompe funebri in via Cavour esponeva i capi selvaggina come trofei. C’erano anche alcuni cacciatori poco ubbidienti alle regole e qualche esagerato in servizio permanente, come Al Capè, il più grande cacciatore scalzo di lepri, o la Palina, che facevano bella mostra delle prede per le strade, magari appese al collo o a una pertica appoggiata sulla spalla. Qualcun altro, ai confini tra realtà e immaginazione, vestito come un capraio afgano tornava dopo la battuta di caccia nel suo atelier a vendere preziosi. Tra i cacciatori valenzani esisteva una fitta rete di relazioni, non solo sportive-ricreative, con l’orgoglio di far parte di questa città.
Già nei primi anni del Novecento c’era l’Unione Cooperativa Cacciatori Valenzani, che organizzava diverse sfide, specialmente tra i molti soci. In epoca fascista si sparava molto a bersaglio fisso (tiro a segno) nel poligono militare nei pressi del cimitero. Al termine del conflitto, si continuava a utilizzare il poligono per esercitazioni di tiro, tra cui prevaleva quello al volo, praticato principalmente da cacciatori locali, finché, nei primi anni Cinquanta, non venne costituita la Società Tiro al Volo Valenza.
In questi anni, alla presidenza della società si succedono Guido Rota, Ezio Deambrogi e Giovanni (Nino) Battezzato. I più assidui alle gare e validi tiratori sono Walter Zanutto, Giancarlo Emanuelli, Giuseppe Chiappone, Remo Milanese, Cesare Oddone, i fratelli Massimo e Danilo Pasetti ed Ennio Lenti. Quest’ultimo è da ritenersi il più abile e il più decorato, ha conquistato il titolo di campione italiano di tiro al volo ENAL, giungendo alla soglia della nazionale. Soci e appassionati che hanno onorato la disciplina sono stati anche Ugo Pozzi, Pietro Mensi, Pietro Cresta, Renzo Amisano e altri; quasi tutti alternavano la caccia con il tiro al volo o al piattello. L’unica esponente femminile valenzana, regina del gruppo, che praticava assiduamente la disciplina era Dirce Repossi, più avanti anche abile golfista.
Oggi, in un circolo vizioso di risentimento e nella decadenza in corso, tutto è molto più complicato; infatti, molti si sono arresi e solo pochi riescono a praticare questi passatempi, mai tutelati, pur se ritenuti da molti degli invasati che vivono fuori dal tempo. Licenze, limiti, norme varie per la pesca sportiva e ricreativa in acque interne complicano le cose. Per la caccia è ancora peggio: oggi non ha più niente a che vedere con quella di un tempo. Generalmente, è ormai ritenuta un divertimento violento e pericoloso, che fa molto male alla natura e alle persone, e per questo motivo i calendari venatori vengono ridotti sempre più e sono stati istituiti divieti vari. È un pensiero che scorre in una sola direzione, ma sono le leve ecologiste, con le loro emergenze e le motivazioni etiche, a far riflettere su certi umori e paradossi.