La palla del miracolo di Valenza
Un nuovo viaggio nella storia della città del gioiello
VALENZA – Sui vecchi muri di Valenza ci sono testimonianze di momenti tragici vissuti dai valenzani del passato, tracce di vicende di tempi lontani in cui vogliamo andare a frugare.
Nel Duomo di Valenza, alla destra dell’altare Maggiore, oggi è visibile un’antica palla di cannone, di peso superiore ai 10 kg, che fu conficcata nel muro durante l’assedio del 1635, senza arrecare ulteriori danni alla struttura. È curiosa l’esistenza in un luogo di culto di una simile testimonianza di sciagura e di morte diversa da una croce o da uno strumento di martirio. In realtà, quella palla di cannone ha che fare con un preciso episodio storico, che all’epoca fu ritenuto quasi miracoloso.
Dopo le guerre tra francesi e spagnoli e i loro complici più o meno occulti nell’Italia settentrionale per la successione di Mantova e del Monferrato – tra il 1628 e il 1631 – nel tempo dei “Promessi Sposi” ed entro il quadro europeo della Guerra dei Trent’anni, che dal 1618 al 1648 insanguina l’Europa, Valenza, piazzaforte strategica e avamposto della Lombardia spagnola verso il Piemonte e il Monferrato dei Gonzaga, resiste a un aberrante accerchiamento di quasi due mesi, dal 9 settembre al 27 ottobre 1635, da parte degli eserciti collegati di Francia, Savoia, Parma e Modena – 14.000 fanti, 2.000 cavalieri francesi e parmigiani, a cui si aggiungono 6.000 fanti e 1.200 cavalieri savoiardi – che intendono interrompere le comunicazioni con Genova ai milanesi.
Questa città, vittima e principale capro espiatorio, è difesa dalle truppe dello Stato di Milano con contingenti spagnoli, tedeschi, napoletani, svizzeri e milizie alessandrine, sotto il comando di don Alonso de Cordova marchese di Celada, un giovane e valoroso generale spagnolo, deceduto per febbre il 27 ottobre 1635 e sepolto a Valenza, affiancato dall’amico don Filippo Spinola e da don Francisco de Melo. Altro fiero comandante, governatore della città, è Francesco De Cardenas. Sono pezzi grossi cinici e un po’ crudeli, che amano essere temuti e che usano indiscriminatamente la forza provocando spesso devastazioni.
Dopo diversi scontri, il 25 ottobre 1635, con un attacco decisivo al fortino presidiato dai francesi che fronteggia la città oltre il Po, questi ultimi sono annientati dall’esercito italo-spagnolo di Carlos Coloma, che apre la via nella città assediata e decide le sorti di questo sfrontato scontro bellico. I nemici sono costretti ad abbandonare l’assedio e a ritirarsi verso il Monferrato. A Valenza, però, i morti sono tanti, a causa dei massicci cannoneggiamenti, e ci sono danni ingenti a molti fabbricati.
Le cronache degli assedi riportano brutte notizie relative agli effetti dei bombardamenti sulla popolazione civile, di cui sono descritti i sentimenti di terrore, la rassegnazione e la forza d’animo.
Il 18 ottobre 1635, sul far della sera, mentre la città sta subendo un cannoneggiamento da parte delle truppe collegate nemiche e circa trecento persone sono raccolte in preghiera nel nuovo duomo aperto nel 1622, una palla di cannone di ferro proveniente da porta Bedogno (per Bassignana) penetra con fragore dalla finestra soprastante l’altare di S. Sebastiano, quello che oggi conserva le reliquie di S. Massimo nella navata di destra, rimbalza sul cornicione dell’altare di S. Giacomo, dove oggi c’è la statua della Madonna, e casca alla destra dell’altare Maggiore, senza alcun altro danno. Nella moltitudine spaventata, solo uno spagnolo lì presente viene colpito da alcuni piccoli frammenti di cornicione e da pezzi di vetro.
Quasi l’avesse stabilito il destino, il fatto, che ha luogo durante la cerimonia religiosa con la chiesa affollata, non causa vittime, motivo per il quale la palla di cannone viene chiamata da qualcuno la “palla del miracolo”, con una lamentazione vittimistica e auto consolatoria, e ne aveva ben donde.
Il sentimento religioso porterà la sbigottita popolazione valenzana a ringraziare Dio per lo scampato pericolo e, già all’indomani della conclusione dell’assedio, si prenderà la decisione di murare quella palla di cannone nel luogo stesso in cui è caduta, a ricordo perpetuo dell’episodio e come espressione simbolica della resistenza della città durante i lunghi giorni dell’assedio.
In questi tempi Valenza, che nella guerra ha evitato per poco l’incendio totale ma non le scintille, è animata da una sorta di fanatismo e vaneggiamento autoritario spagnolo-milanese e fatica ad affrontare i drammatici problemi della sua popolazione che è legata solo dalla comunanza religiosa, fedele ai suoi santi e all’orgoglio del campanile. Nessun valenzano può fare a meno di essere devoto, c’è il bisogno di santi, di riti e di simboli.
Il comune è composto da circa 2.200 abitanti, dopo che la peste del 1630 ne ha uccisi più di 2.000, ed è dotato di 15 cascine depredate dagli aggressori, di un castello e di un nutrito presidio di soldati spagnoli. Vi sono circa un centinaio di benestanti, 4 medici, 6 barbieri, 4 macellai, 2 notai, 2 fanti di polizia urbana, un dottore fiscale per le imposte, un attuario criminale per giudicare i reati, un prevosto (Cattaneo Marc’Antonio), una decina di canonici, una ventina di cappellani, 3 conventi di frati (francescani, domenicani e cappuccini) e 2 di suore (Santa Caterina e Santissima Annunziata). Una città depredata da una casta dominante e giudicante corrotta e incapace. Diceva Martin Lutero “Ogni uomo di legge o è una carogna o è un ignorante.”
A causa della miseria dell’epoca, diversi valenzani sono costretti a emigrare, lasciando i terreni incolti e il luogo devastato. Il mondo è stato messo a ferro e fuoco dalla Guerra dei Trent’anni. A Valenza seguiranno altri penosi assedi ravvicinati e ci vorrà un’intera generazione per vedere qualche segno di ripresa.