Valenza e dintorni alla fine del primo millennio
Un nuovo approfondimento sulla storia della città del gioiello
VALENZA – Alla fine del primo millennio a.C. nasce la società feudale e le terre di Valenza, chiamate “Nuova Valentiam olim Valentinum” dallo storico pavese del Cinquecento Bernardo Sacco, fanno parte del primo fondamento di Monferrato. Storicamente, non si ha alcuna traccia dei marchesi del Monferrato fino al 1111, quando viene indicato Ranieri.
Nel X secolo la nostra zona è sotto il dominio del marchese Berengario II, che sarà re d’Italia e vassallo dei germani, e poi sotto l’autorità imperiale degli Ottone, con molte innovazionI giuridiche. La classe governante è ancora formata dalla nobiltà feudale, i milites maiores, un’aristocrazia beneficiata dall’imperatore, al di sopra di tutto e ad alto tasso di scostumatezza. Sono caste spesso alleate al proprio carnefice, abbarbicate ai propri privilegi e ai propri comodi, tra tante disuguaglianze e miserie sociali particolarmente odiose, con trame e salti della quaglia. Nulla di strano per il periodo storico fosco, ancora carolingio.
Nel 990, per disposizione imperiale, la marca d’Ivrea, che comprende la Lomellina e una parte della zona di Valenza, la quale è situata all’incrocio delle tre marche (Ivrea, Aleramica e Obertenga), viene passata ad Arduino, incoronato re d’Italia nel 1002.
Anche dalle nostre parti alla fine del primo millennio e dell’Alto Medioevo l’ultimo giorno del 999 sembrerebbe segnare la fine del mondo. Il pensiero è “mille e non più mille” e molti ci credono fermamente. Tutto comincia nella seconda metà del X secolo, quando, tra strumentalizzazioni di varia natura, timori autentici e conclusioni avventate, la convinzione che il mondo stesse ormai giungendo alla fine saliva come una marea sempre più inarrestabile mano a mano che si avvicinava l’anno Mille.
Passato l’anno Mille, la società locale si ritrova in una situazione paradossale: dopo decenni di paura per la fine del mondo e per il giudizio universale, iniziano anni in cui le trepidazioni di questi eventi vengono smascherate dalla realtà di una vita economica in forte crescita.
Nel X secolo, molte terre dei dintorni di Valenza fanno parte del “feudo” Montisferrati, Monfarratus o Montferrat, poi chiamato Monferrato. Probabilmente uno dei primi insediamenti fortificati di questa concessione feudale vassallatica si è originato nella collina di un luogo chiamato Pecetto, quasi certamente nel Torinese o forse a Pecetto di Valenza.
Valenza e i dintorni sono governati da Oberto Visconti di Astiliano, una specie di padre della patria, titolato a perpetuare la propria specie, derivante da Aimone di Mosezzo (conte feudatario di Vercelli dal 950 al 966) discendente da Manfredo IX conte di Lomello, un ricco vassallo regio fedele all’effimero imperatore, appartenente alla famiglia franca dei Manfredingi che, nel 965, ha avuto queste terre da Ingone di Vercelli (vescovo filoimperiale dal 961 al 977). Ingone aveva ricevuto la concessione della signoria di Astiliano (Valenza) e di Lazzarone il 30 dicembre 962, riconfermata con un documento del 29 gennaio 963, dall’imperatore Ottone I (912-973), il grande restauratore del Sacro Romano Impero.
Nel 988 Ottone III (980-1002), imperatore e re d’Italia, tramite la chiesa di Vercelli del vescovo Pietro, conferma a Manfredo XI, figlio del cicisbeo di corte conte Aimone, il possesso del territorio di Valenza, San Salvatore, Pecetto, Monte, Lazzarone e Pomaro nel tentativo di tenere insieme vari borghi insofferenti.
Manfredi XI e Oberto Visconti di Astiliano sono dei capitanei, cioè dei milites maiores investiti di benefici da un vescovo o da un principe territoriale, legati da vassallaggio allo straripante vescovo di Vercelli, che ha in sostanza il potere su questi territori, per ora tutti strettamente connessi con Pavia e Vercelli (Marca Anscarica più che Aleramica monferrina).
Come affiora dalla tortuosa descrizione di sopra, sono soprattutto i vescovi, sovente non troppo misericordiosi, a governare le città; alcuni di loro si ritengono possessori per diritto divino.
All’inizio del nuovo millennio nella curtis valenzana, un’unità produttiva rurale che costituisce un ulteriore sviluppo della “villa” romana, le principali famiglie privilegiate di quest’epoca poco conosciuta, costituite in casta, sono i Visconti, i Ferrari, i Cane, i Colombo, i Cellamonte, tutti derivanti dal parentado dei Visconti (capitanei monferrini).
Il villaggio di Monte compare in un diploma imperiale di Carlo il Grosso (discendente di Carlo Magno) dell’anno 882, dove viene attribuito all’abate del Monastero Sant’Ambrogio di Milano e tale donazione pare sia successivamente riconfermata dagli Ottone nel 951 e nel 996. Da un documento del 1188 risulta permanere ancora il dominio di quel monastero milanese su Monte; la sgangherata sovranità ambrosiana sulla borgata durerà sino al XIII secolo. La signoria di Lazzarone (Villabella) permane nelle mani dei Visconti e dei Sannazzaro, tacciati di ostilità verso i valenzani. Sono tutti valvassori e valvassini con tutto il loro carico negativo, impermeabile a ogni innovazione, partner spesso poco affidabili, sempre e per forza contro chiunque che non siano loro.
Dopo il terremoto seguito alla caduta dell’Impero romano, Valenza, all’epoca denominata Valentia o Valencia, è lentamente resuscitata in località Colombina, dove oggi c’è ancora profumo di storia del tempo, dapprima come agglomerato di umili dimore e poi come un apprezzabile nucleo abitativo. Gravato dalla minaccia di popoli forestieri (vedi le incursioni saracene e ungare) negli ultimi anni del primo millennio il borgo Valentia si è trasformato in un luogo trincerato, riparato da una grezza barriera difensiva. Nell’attuale piazza Statuto si trovava il centro abitato, a lato del quale era situata una chiesa, forse San Massimo. La comunità valenzana appartiene ancora a una semplice loco et feudo.
Le scarsissime fonti storiche raccontano che, nel 1014, con un diploma dell’imperatore Enrico II il Santo, re d’Italia dal 1002 al 1024, le parrocchie della pieve (circoscrizione ecclesiastica minore) di Valenza sono elargite alla diocesi di Pavia; mentre il dono fatto dal presbitero (prete, capo della singola comunità) Pietro figlio di Grosone (presbiterus Petrus) al vescovo di Pavia di una cappella di pieve nel 1096, probabilmente costruita nel nono secolo e già dedicata a Santa Maria, con l’annesso cimitero che rimarrà accanto alla chiesa fino al XVIII secolo, mostra che in quegli anni l’attuale piazza XXXI Martiri era già incorporata nel nucleo urbano, poiché sopra questa cappella, riedificata nel XII secolo, si ergerà molto più avanti il Duomo della città (Santa Maria Maggiore).
A partire dall’età ottoniana, alcune sedi vescovili del regno teutonico ottengono importanti beni fondiari e diritti signorili. Con modi di vita, rapporti e problematiche affini, la nostra zona alla destra del Po può essere considerata a dominio Vercellese-Lomellino.
A sud di Valenza ci sono alcuni borghi dai quali deriverà Alessandria: la curia regis Gamondio (Gamondium), la curia regis Rovereto (Roboretum) e Bergoglio (Bergolium), ove ora c’è la Cittadella. Bergoglio è unita a Rovereto attraverso un ponte di legno costruito da Carlo Magno e i due borghi hanno un porto fluviale in comune. Il castello di Rovereto (più probabilmente un castrum, cioè un luogo fortificato) sorge vicino a una splendida chiesa in stile romanico, Santa Maria di Castello, dedicata alla Madonna di Rovereto. È il monumento più significativo di Alessandria, poiché la sua edificazione è antecedente alla fondazione della città, attestata al 3 maggio 1168. In quest’epoca, a Rovereto sono trasportate e immagazzinate le merci provenienti da Genova, poi smerciate verso località vicine.
La zona di Marengo (Marenghum), fino alla confluenza dei fiumi Tanaro e Po (Bassignana), è un’unica immensa foresta popolata di selvaggina di ogni genere e in passato riservata alle battute di caccia dei reali. Sembra che durante una scorreria si sia insediata una colonia saracena nella foresta della Frascheta (piana di Marengo).
Tra Valenza e Bergoglio (Alessandria) vi è l’antico stanziamento di Astiliano, parte integrante del suolo valenzano, che alcuni secoli dopo di là del colle diventerà Valle delle Grazie e, infine, Valmadonna. Astiliano compare nelle concessioni di Ottone I del 962.
Le terre di Pecetto di Valenza (Castrum Peceti), a sud-est di Valenza, seguono la sorte di Valenza: l’allineamento è spesso totale. La prima attestazione documentata di una comunità a Pecetto è presente nel diploma imperiale emanato dal giovane re Enrico IV (dal 1084 imperatore) ad Ingolstadt il 3 gennaio del 1069, con il quale Pecetto viene banalmente donato a Gregorio, vescovo di Vercelli dal 1044 al 1077, insieme ad altre terre del Monferrato, quale riconoscimento dei servizi da lui prestati in qualità di fedelissimo cancelliere imperiale: “Mirabellum et Pecetum et que in Monferrato habemus cum omnibus eorum pertinentiis villis teloneis acquarumque decursibus vineis siluis forestis cum eorum et districtis et vinibus regali begnitate damus”.
Nel secolo XI Pecetto è adibito a fortezza e osservatorio, una cittadella circondata da una corona di mura, che raddoppia all’altezza della rocca, il punto più elevato. In questi anni, nel luogo detto Borghetto, viene eretta la chiesa di San Silvestro, forse anche un cenobio (comunità di religiosi benedettini) appartenente alla giurisdizione dell’abbazia di Nonantola.
Sulla parte meridionale di un colle a nord di Valenza, di fronte all’ampia vallata del Po, come ultimo baluardo delle colline del Monferrato al margine della vasta e scoperta pianura della Lomellina, si trova il piccolo centro rurale di Pomaro (Pomarium in antichità, nell’anno 934 Pomario dal Chartarium Dertonense). Una località lambita dal torrente Grana, considerata assai fertile all’epoca. Non si sa di preciso quando sia sorto il paese ma è certo che verso il Mille già esisteva.
In un diploma del 1055 si trovano indicazioni documentarie di Pomaro in cui alcuni beni sono affermati a una istituzione religiosa. Un’altra citazione risale a un diploma del 1069. È un luogo protetto che acquisterà un peso politico e strategico un secolo dopo, quando il Barbarossa, confermerà il borgo ai marchesi del Monferrato, che promuoveranno la costruzione di una struttura fortificata sulla sommità del colle (un recinto munito di difese, poi castello), la cui prima attestazione documentaria risale al 1198.
A ovest di Valenza c’è il luogo fortificato di San Salvatore, noto come Villa ad Vites e, dal 1048, come Castrum Sancti Salvatoris. Si fa riferimento a San Salvatore in un diploma del 7 maggio 999 con cui l’imperatore Ottone III conferma il borgo alla Chiesa di Vercelli.
Già sotto il dominio dei Franchi l’imperatore Carlo il Grosso, discendente di Carlo Magno, nel 882 aveva donato una potente e vasta signoria feudale formata da parecchie curtes regie, tra le quali anche questo territorio al vescovo di Vercelli Liutvardo (Chiesa eusebiana). Durante le invasioni saracene, l’abate benedettino dell’abazia San Pietro di Breme ha fatto costruire un castello a scopo difensivo a San Salvatore, sulla cima del colle più alto, verosimilmente il colle del Campanone, dove si sono trasferiti gli abitanti degli antichi nuclei abitativi. All’interno delle mura, in posizione più sicura, è stata costruita una chiesa pievana, l’attuale chiesa di S. Martino, un edificio costruito nel XV secolo su quel che rimaneva di una struttura più vecchia che sorgeva nel Pagus Gentianus, dove oggi è situata la Colonia G. Barco (nel 1111 è citata la chiesa di San Martino “in Zenzano”, appartenente alla Diocesi di Pavia) . Nel 1164 anche questo territorio verrà donato dal Barbarossa a Guglielmo V del Monferrato. Nell’ XI secolo a San Salvatore esiste anche un’altra e più modesta, parrocchia dedicata a San Siro.
Il paese di Bassignana, antica e vasta Augusta Baltienorum, che nell’età carolingia venne assegnato alla contea di Pavia come tutte le altre località a meridione del Po, all’alba del nuovo millennio ha un territorio suddiviso tra una moltitudine di piccoli proprietari laici e alcune istituzioni ecclesiastiche, tra le quali il vescovo di Tortona Liutfredo, il Monastero di Nonantola e, soprattutto, quelle di Pavia.
Il diploma dell’imperatore Ottone II del 22 o 21 novembre 977 investe il vescovo di Pavia Pietro III Canepanova, futuro Papa Giovanni XIV, signore di Rivarone, Bassignana e Mugarone del Comitato di Lomello, confermandogli il possesso della pieve di Bassignana con la chiesa dedicata a San Giovanni Battista, di remota istituzione e di ampia estensione territoriale, già menzionata come diretto possesso vescovile in un diploma dell’849. Nel dicembre 997, Liutfredo vescovo di Tortona dona metà della sua parte di Bassignana all’imperatore Ottone III, che, il 21 novembre 1001, in un’epoca di abbondanti donazioni imperiali, la devolve a sua volta alla potente badia di S. Salvatore, sita in Pavia. Lo stesso vescovo, il 15 gennaio 998, vende l’altra metà al duca Ottone I di Carinzia, il quale, poco dopo, la cede a una badia milanese. Da uno dei discendenti del conte Aimone di Vercelli derivano i signori di Bassignana, che avranno spesso convivenze forzate con il popolo.
Il borgo di Rivarone, che si muove in sincrono con Bassignana, è nel Comitato di Lomello ed è chiamato “Rivassi” in un diploma di Re Berengario. Nel 977 il borgo passa sotto il controllo del vescovo di Pavia, quindi al vescovo di Tortona Liutfredo e per brevi periodi è ceduto alla famiglia del conte di Stazzona e Seprio, Adamo detto “Amizzone” e al conte del Comitato dell’Ossola Riccardo. Sono designazioni oligarchiche decise sempre altrove e dall’alto.
Nel 967 Montecastello, estremo confine della preesistente Marca di Savona, viene infeudato da Ottone I ad Aleramo e poi ai Marchesi del Bosco, con riferimento al Bosco di Ovada intorno a Bosco Marengo. Il promontorio di Montecastello ha una notevole importanza su questo territorio perché domina l’ansa del Tanaro e offre un’ampia veduta della pianura di Marengo tra il Bormida e lo Scrivia sullo scenario del pre-appennino tortonese che sfuma nell’Oltre Po pavese. È stato per lungo tempo una difesa estrema dalle incursioni dei Saraceni, che si spingevano in Piemonte dalla Provenza. Nel nuovo millennio il posto sarà investito ai Bellingeri di Pavia con facoltà di fortificarlo, poi verrà ceduto alla città di Alessandria, che a sua volta lo venderà ai Marchesi di Monferrato.
Alla fine del secolo XI a Montecastello è già presente una precettoria per i pellegrini di San Giovanni Gerosolimitano, detta anche “della Ripa”, che impongono nella zona i loro valori, esibendo una caparbia purezza; in seguito consistenti acquisizioni territoriali renderanno questa commenda la più estesa del contado alessandrino. In un atto del 2 aprile 1096 è menzionato in Valenza una “terra Sancti Iohannis” situata in regione Astiliano, probabilmente il più antico insediamento piemontese di ospitalieri giovanniti o gerosolimitani.
In un documento del 913 a firma di Berengario I, re d’Italia, per la prima volta è citato un “situm de Comitatu Laumellino”, cioè un luogo nel Comitato lomellino. Un secolo dopo, in un diploma del 1019, Enrico II il Santo, imperatore del Sacro Romano Impero, scrive: “Res etiam iuris ipsius monasterii de ipsa civitate [Pavia] et in Laumellina”.
Nella Lomellina, appena al di là del fiume Po, c’è Frascarolo, facente parte del Comitato di Lomello (l’antica e potente contea di Lomello). Il paese viene nominato per la prima volta in un documento del 934 (924 per qualcuno), in cui Oglerio, vescovo di Lodi tra il 929 e il 941, dona al conte Alberico e a suo fratello Aldramano alcune terre, e tra queste Frascarolo in Lomellina. Nel 1024 una sollevazione popolare allontanerà i conti Palatini o conti di Lomello da Pavia, facendoli ritirare nei loro possedimenti lomellini e convertendoli in un piccolo regno difeso da un composito sistema di castelli, rocche e torri di guardia, di cui Frascarolo sarà uno dei punti di forza con intense relazioni con Valenza, spesso osteggiate in modo brutale.
In questo periodo la pianura lomellina, che è una parte del più vasto dominio pavese, è descritta come un “luogo ubertoso, ameno e fruttifero, tanto di legumi quanto di pesci”, ma lo stesso territorio viene anche segnalato come infestato dai lupi “a causa della densità delle boscaglie e delle selve”.
In tutta questa zona descritta ci sono alcune migliaia di dimoranti, ma per molti di loro la vita è assai difficoltosa e si subisce il tutto con rassegnazione, quasi come se fosse una calamità naturale. L’economia della zona, prettamente rurale, è circoscritta nel sistema dei privilegi e soggetta all’esclusivo arbitrio dei signori; lo scambio consiste generalmente nella forma elementare del baratto e il lavoro è considerato più una penitenza, che una fonte di miglioramento economico.
Dopo l’anno Mille, però, ha inizio una solida crescita economica, sociale e culturale, che costituisce il punto di partenza della prima modernità. In questo periodo la zona è un territorio essenzialmente agricolo; il terreno, ondulato di colline, è abbastanza fertile, sparso di case coloniche e di boschi dove trovano rifugio animali selvatici come i lupi, di cui oggi non vi è più traccia, ma è abitato anche da volpi, lepri e scoiattoli in abbondanza.
Già in quest’epoca la produzione vinicola occupa il primo posto e in alcune circostanze il solo genere di esportazione. Granaglie, ortaggi, frutta, selvaggina, legname, prodotti dell’allevamento e bestiame sono quasi sufficienti a soddisfare i bisogni della popolazione. Si sta passando passa da un’economia di sussistenza a un’economia di mercato dal momento che il surplus del prodotto viene venduto. Grazie a un miglioramento del clima, i raccolti diventano più abbondanti. L’aumento della produzione agricola è favorito anche da nuove tecniche di coltivazione dei campi, come la rotazione triennale e l’aratro pesante a ruote trainato dal cavallo. Per macinare i cereali si usano i mulini ad acqua sul Po.
Nei nostri borghi circolano liberamente cani, maiali, cavalli, oche e galline. Le strade sono di terra, quindi diventano fangose quando piove.
Potendo mangiare di più, le persone sono più resistenti alle malattie e vivono più a lungo. La durata della vita media, però, è ancora molto bassa e la mortalità infantile è altissima.
La promiscuità favorisce il proliferare di parassiti, pidocchi, pulci e acari, ma per molti la sofferenza più pungente è ancora la fame. Il cibo è ancora di pessimo livello nutrizionale. L’alimentazione é sbilanciata e, essendo scarso il frumento, si basa in prevalenza su un’unica vivanda composta con farina di segale, che, conservata in ambienti malsani e inadatti, provoca sovente la proliferazione di un fungo tossico, l’ergotina, responsabile di una malattia chiamata “fuoco di Sant’Antonio”. La carne è rarissima. Nei boschi si trovano spesso gli alimenti della dieta: funghi, miele, noci, ecc. Dal Po si pesca un’abbondante quantità di pesce.
Le diete dei ricchi si caratterizzano per una preponderanza di proteine primarie, cioè di carne, così abbondanti e continue da favorire patogenesi individuali di gotta, arteriosclerosi, cirrosi, disturbi circolatori, ecc. I poveri, il cui destino è segnato alla nascita, invece, stretti dalla morsa economica, non hanno molte possibilità di scelta e sono obbligati a un’alimentazione più varia e bilanciata costituita da pane, pesce, frutta, ecc., un tipo di dieta, che oggi sappiamo più sana, pressoché ignorata dai ceti più alti. Quasi una rivalsa celestiale.