I luoghi del ballo a Valenza negli anni Cinquanta
Un nuovo approfondimento sulla storia della città del gioiello
VALENZA – All’inizio degli anni Cinquanta, agli albori del miracolo economico, quando nasceva il Festival di Sanremo e la bolognese Nilla Pizzi ne era la regina indiscussa, vincendo la prima edizione del 1951 con “Grazie dei fiori” e trionfando nel 1952 con “Vola colomba” e “Papaveri e papere”, a Valenza queste arie regnavano tra tanghi, valzer e ritmi latino-americani nel passatempo più in voga dell’epoca: il ballo popolare, l’espressione più significativa del piacere di massa e della voglia di stare bene. Questa passione accomunava i valenzani di entrambi i sessi, anche se, a dire il vero, non erano molto numerose le ragazze di certe famiglie abbienti che frequentavano i locali pubblici deputati al ballo.
A quei tempi i valloni della nostra città non erano ancora riempiti, via San Salvatore non esisteva e viale Dante non arrivava a viale Santuario. Il lato sinistro del viale era un vallone pieno di gaggie, sterpaglie e poche case, e lo stesso accadeva in viale Cellini. Via Trieste era il confine del centro urbano e oltre non vi erano che case sparse in aperta campagna fino a Mazzucchetto, ove iniziava a formarsi un piccolo quartiere.
I cinema e i teatri erano tre più uno, talmente affollati che al sabato e nei festivi diversi spettatori non trovavano posto a sedere. Cinema Teatro Italia all’Oratorio in viale Vicenza; il cinema Politeama Gervaso in piazza XXXI Martiri, con incluso un circolo del cinema, che d’estate abbandonava la sua sede un po’ tenebrosa in stile Art-decò per la più areata sede all’aperto in via Mazzini; e infine il bel cinema Teatro Sociale, dove, oltre alle ordinarie rappresentazioni cinematografiche, teatrali e di varietà, era presente un cineforum e saltuariamente si svolgevano anche apprezzabili veglioni danzanti.
In questi anni l’Enal, che aveva la propria sede in Palazzo Pellizzari, gestiva una piacevole pista da ballo all’aperto tra via Trieste e viale Cellini. Si ballava anche dai “Socialisti” in un salone situato in via Pellizzari, sopra la Camera del Lavoro. Qualche volta si ballava nei giardini di Villa Scalcabarozzi (poi sede dell’AOV), dove si sono svolte anche alcune Feste dell’Unità. All’aperto, di danzava in viale Repubblica e in periferia al Cavallino Bianco. Un luogo da ballo senza orchestra, allora, era inconcepibile.
Il veglione più importante era quello di capodanno al Teatro Sociale, organizzato in anni diversi dalla U.S.Valenzana e dalla CGIL. Un ambiente spettacolare, con l’orchesta sul palcoscenico e i palchi traboccanti di persone. La platea era strapiena di coppie che ballavano mentre dal loggione i più giovani lanciavano coriandoli e stelle filanti.
In via Cavallotti, presso la sede DC, c’era il Centro Italiano Femminile (CIF), anche Circolo Libertas, un contenitore sociale sempre più impegnato in manifestazioni artistico-culturali-ricreative, dove, soprattutto la domenica pomeriggio, si andava a ballare nella ampia sala denominata “Faro”. Dal 1954 il luogo diventa anche sede del Jazz Club valenzano e da questo momento si tengono importanti e frequentatissimi concerti jazz, il primo il 28 aprile del 1954. Tra i principali dirigenti organizzatori, con una dignitosa cultura cattolica, c’erano Cavalli, Manfredi, Illario, Lombardi, Genovese, Accatino e Mattacheo.
La Sala Faro di via Cavallotti era utilizzata anche per ostentare il conflitto politico esistente, ma soprattutto per fare proselitismo tra i giovani, i meridionali e altre categorie di elettori, con concerti, feste danzanti e ristorazione che si prefiggevano di avvicinare o conservare l’elettore al partito e di emulare quanto era fatto dagli “odiati” comunisti locali. Dopo l’apertura del Valentia si tenderà ad andare a rimorchio di questo nuovo locale, riuscendovi poco. Purtroppo, negli esponenti dei due partiti avversi prevale un complesso di superiorità che li fa sentire migliori dei loro avversari politici. Sempre contro, con amorose utopie politiche.
Nel secondo dopoguerra la festa estiva di San Giacomo e quella dell’Unità in riva al Po hanno continuato a far danzare e divertire i nostri avi. La celebre festa dell’Unità era un momento di svago e di incontro, un luogo per far festa con poco e niente, in cui lo spirito volontario dei militanti comunisti si traduceva in un servizio agli stand, gastronomici e non. Qui la passione si mischiava all’evasione e l’impegno al piacere, si discutevano i destini del mondo a tavola di fronte ad agnolotti e a bottiglie di vino. La politica faceva comunità ed emergeva la mitizzazione dell’Unione Sovietica e la celebrazione delle conquiste spaziali russe. Tutto questo avveniva al riparo delle bandiere rosse e la passione che spingeva i volontari a trasformarsi una volta all’anno in elettricisti, muratori, falegnami e idraulici era il frutto dei loro valori e ideali, ma anche dei meccanismi di partecipazione democratica che regolavano la vita del PCI. Una sinistra che veniva dal popolo e che voleva combattere i privilegi, i soprusi e le ingiustizie sociali.
Ben presto, però, il rapporto con la nuova società dei consumi diventa più complicato, soprattutto per un grigio dirigismo e a proposito degli ospiti musicali della festa; questo accadeva perché non era sempre facile conquistare un equilibrio tra vecchio e nuovo capace di mettere d’accordo generazioni differenti di militanti e perché ogni volta tornava a riaccendersi il dibattito sull’opportunità di concedere uno spazio crescente alle star della musica commerciale.
Tuttavia, ai tanti “compagni” locali serviva anche un luogo ampio per la loro operosità politica – la sezione del PCI aveva anch’essa una sede ristretta in Palazzo Pellizzari – e, per fornire un locale di mero divertimento ai cittadini, il partito locale decideva di costruire una Casa del Popolo come punto d’incontro per i valenzani, dove questi potessero più di tutto divertirsi a ritmo di musica. Questa fu realizzata lavorando gratuitamente e tassandosi pure, perché da queste parti la fede politica era un culto religioso che veniva prima di tutto. Oggi, forse, bisognerebbe ridare quel valore forte alla parola politica, visto che ormai è tutto antipolitica.
Nel maggio del 1957, così, veniva posata la prima pietra della Casa del Popolo di Valenza, poi denominata “Circolo Culturale Rinascita Valentia” o solo “Valentia” in qualità di luogo di danza. L’opera, che sorgeva in via Melgara (prima via Tripoli) al posto di una fabbrica di calzature maschili fallita (Valentia), sarà acquisita definitivamente dal Partito Comunista quattro anni più tardi, con una forma dilazionata di pagamento.
Più di un centinaio di simpatizzanti e sognatori di provata fede marxista prestarono con entusiasmo la loro opera alla realizzazione della Casa del Popolo, senza distinzione di condizione economica, soprattutto il sabato e la domenica mattina. In totale, si presume che siano state spese ben 10.000 ore lavorative gratuite (oggi, per le norme sul lavoro, si potrebbe rischiare il carcere) e una consistente somma iniziale di denaro raccolta tramite una sottoscrizione pari a otto milioni di lire. Si proseguirà a versare rate per un certo tempo anni fino a raggiungere l’intero importo d’acquisto di 28 milioni di lire.
A rendere la struttura ancora più bella, preziosa e accogliente, dove primeggiava il salone da ballo, forniranno la loro opera, anche gratuita, con grandiosi affreschi sulle pareti, artisti di grande valore quali i pittori Sassu, Motti, Treccani e altri. I manovali volontari degli anni Cinquanta lavorarono incessantemente anche dopo l’inaugurazione del cortile con pista danzante all’aperto il 25 agosto 1958. In questa prima trionfale serata danzante, motivo di rievocazione, si è esibito il famoso jazzista Glauco Masetti.
Nel gennaio del 1959 si apriva l’ampia porzione al chiuso: un salone lungo 30 metri e largo 14 adibito a sala da ballo e altri locali utilizzati dal partito comunista valenzano, quali uffici e sedi delle tre sezioni locali. A inaugurare ufficialmente ma tardivamente la Casa del Popolo è stato il segretario nazionale del partito Palmiro Togliatti. Domenica 30 agosto 1959, il leader nazionale del PCI giungeva a Valenza da Alessandria, dove si trovava per il Festival dell’Unità, accompagnato dagli onorevoli Nilde Jotti, Audisio, Lozza e Villa e dal senatore Boccassi; a Valenza lo attendono il sindaco Lenti e il segretario locale del partito Gatti.
Se i dirigenti più attivi per la realizzazione del progetto sono stati Lenti, Lombardi, Ravarino, Annaratone e altri, fin dall’inizio la gestione del ballo è riservata a Giovanni Carnevale, un personaggio locale carismatico che resterà tra i più amati e conosciuti, permanendo come condottiero, responsabile e animatore fino all’abbattimento nel 2005-2006. Una vendita decisa con sconforto dalla direzione DS di Valenza nel 2003, con la quale il luogo segue il destino di molti altri locali da ballo, suscitando forti perplessità in città.
Al Valentia si ballava sia al coperto che all’aperto e presto era diventato il punto di riferimento per il divertimento di tutti e fiore all’occhiello del partito. Non c’è più bisogno di andare in grossi centri per ascoltare i grandi personaggi della musica leggera e dello spettacolo, perché al Valentia iniziano ad arrivare i principali interpreti musicali nazionali e questo locale diventa il simbolo della vita da ballo del territorio.
Si esibiscono star di gran calibro quali Natalino Otto, Flo Sandos, Betty Curtis, Nicola Arigliano, Achille Togliani, Luciano Taioli e Gianni Basso, per citarne alcuni. Nell’estate del 1959, in una serata d’eccezionale successo, arriva a Valenza Fred Buscaglione, poco prima della sua tragica scomparsa. Nello stesso anno la grande Mina è ospite del Valentia per due volte: il giorno di Pasqua (il costo biglietto è di 500 lire per gli uomini e 300 per le donne) e in estate, poco prima di Buscaglione. Giorgio Gaber, con Jannacci e Maria Monti, debutta l’1 gennaio 1960 registrando un tutto esaurito che si ripeterà diverse volte negli anni seguenti. La stagione estiva del 1960 è aperta da Peppino Di Capri.
Nei primi anni Settanta, quando al sostantivo “socialismo” si abbina l’aggettivo “reale” e certe certezze passate vacillano, si sbancherà il tutto per realizzare una grande sala da ballo coperta da balconata e, accanto ad essa, alcuni locali per la segreteria e per le riunioni. Per l’esigenza di avere un nuovo spazio da dedicare ad attività culturali e di partito si realizzerà anche un salone al di sotto, dove Aurelio dipingerà il grande murale (metri 3 X 20) su pannelli lavorando per circa otto mesi, dal dicembre del 1971 al luglio del 1972, a libro paga come operaio specializzato.
Il Valentia, la Sala Faro e le feste di partito erano il simbolo di una città spensierata in anni di continuo progresso e lontana dai problemi d’oggi. Forse è un’immagine troppo oleografica di quel mondo remoto, ma c’è tanta verità e i ricordi sono ancora vivi e frizzanti per tanti, ma non per i giovani di oggi, che, a differenza dei loro antenati, non hanno vissuto la magia di quei tempi.