Ospedalità e assistenza residenziale per anziani a Valenza
L'analisi dal primo Ottocento a oggi
VALENZA – Nel nuovo brodo di cultura dell’Ottocento l’opportunità di alleviare le pene delle classi meno abbienti è considerata un elevato dovere morale, soprattutto dai privati facoltosi e dai nobili delle famiglie tradizionali, spesso con la coda di paglia. Questo dovere si palesa nella fondazione e nel sostegno a opere di assistenza sociale e di ospitalità in senso stretto, accanto all’aiuto alle tradizionali attività ospedaliere di tipo religioso.
Durante il periodo della Restaurazione, si ricostituiscono gli ordini religiosi tradizionali, compresi quelli attivi nell’ospedalità nei periodi precedenti. L’assistenza filantropica spontanea diventa una sorta di rinascita caritativa diffusa a ogni livello. In questi anni non si parla ancora di doveri sociali, ma solo di compassionevole beneficenza verso i meno fortunati, oggi molto invocata come un bene perduto.
A Valenza non si può ancora parlare di politica sociale, ma nascono già alcuni organismi d’assistenza. Molti interventi sociali da parte di benestanti locali costituiscono un segno di quella vanità valenzana che si traveste spesso di altruismo e di prodigalità. E’ un impulso che attraversa un po’ tutti, chi provvede, chi ascolta e chi spera.
Nel 1829 viene aperto il nuovo Ospedale Mauriziano in via Pellizzari, all’angolo con via Cavour, con 24 posti iniziali, che passeranno a 28 nel 1840. Nel maggio del 1843 l’ospedale viene visitato dal Re. Nel 1834 viene fondata l’insigne Opera Pia Pellizzari da Don Massimo Cordara Pellizzari, un ricco sacerdote che rifiuta le disuguaglianze, con lo scopo di “soccorrere l’indigenza materiale dei valenzani”. Nel 1836 la contessa Carolina Garessio Del Pero lascia un patrimonio di circa 60.000 lire per la fondazione di una casa d’educazione per le orfane della città.
Con fondi propri e con quelli lasciati da Donna Teresa Lana vedova Giovanni Grossi, il canonico Vincenzo Zuffi, una mente indipendente, autorevole e lungimirante, incline a pensare e ad agire contro certe convenzioni, fonda una benefica istituzione cittadina, la Casa di Riposo Ospedale degli Incurabili, “per ricordare alle succedutesi generazioni quel sentimento di evangelica carità e civili virtù di Valenza”. In questi tempi, gli incurabili sono tutti coloro che non sono in grado di sostenere il costo delle necessarie cure mediche. Più tardi, i valenzani saranno soliti chiamare Ospedalino questo ospizio.
Aperto il 29 novembre 1832, il luogo ospita persone anziane in un modesto locale con due letti. Ben presto allo “Spedale degli incurabili” diventa necessaria una regolamentazione costituzionale e legale, che le viene riconosciuta ufficialmente con Regio Brevetto di Carlo Alberto il 23 aprile 1833 e con l’approvazione del regolamento il 23 settembre 1833, regolamento che contiene anche qualche precetto di ardua applicazione futura.
A seguito dell’epidemia di colera degli anni 1835-1836 e per dare risposta ai bisogni crescenti di poveri e vecchi indigenti, che bussano continuamente alle porte implorando ospitalità, i letti dell’ospizio aumentano a otto. Le suore sono attente alle esigenze dei tempi e del territorio e alle richieste di molte famiglie che, per impegni vari o per lavoro, non possono accudire i propri famigliari anziani o ammalati, mentre tanti altri restano sempre più soli e abbandonati nelle loro misere case.
Tra le prime cospicue elargizioni, ci sono quelle del capitano Seidrich e le successive di Teresa Piacentini Zeme, di Amedeo Annaratone, dell’Opera Pia Pellizzari, della Congregazione di Carità e di altri.
Prima della morte nell’ottobre del 1835, il canonico Vincenzo Zuffi riceve le insegne dei SS. Maurizio e Lazzaro e il titolo nobiliare di barone (14/03/1835) dal re Carlo Alberto, titolo che passerà per eredità, con trasmissibilità al nipote, all’antica famiglia valenzana dei Tarony, avendo la sorella del canonico, Antonia di Giovanni Zuffi, sposato Carlo Raffaele Tarony nel 1778.
Dopo lo sconforto causato dalla dipartita del canonico, l’attività dell’istituzione prosegue, nella piccola casa finché, per le crescenti necessità e con nuove risorse, nel 1860 si decide di costruire un nuovo e più grande edificio, composto da locali più ampi e con più appropriati servizi, che costa complessivamente 75mila lire, circa 500mila euro di oggi. Per far fronte alla spesa, vengono raccolte 40mila lire con un prestito ventennale cittadino (restituzione rinunciata dai munifici nel 1881) e 25mila lire dalla vendita del vecchio edificio e da un mutuo. Re Vittorio Emanuele II dona 2mila lire e il Comune una parte del terreno.
“Fuori le mura a mezzodì di Valenza a banda sinistra di chi esce da porta Alessandria”, il nuovo edificio, corrispondente all’odierna facciata, viene aperto nel 1865 e i posti letto aumentano a 40; molto meglio di prima, ma non sono affatto sufficienti a soddisfare le richieste. Nel 1882 il servizio interno viene affidato alle suore della Congregazione delle figlie di Sant’Anna, un organico che ha consacrato la sua vita alla cura dei poveri infermi con spirito di abnegazione e carità cristiana.
Fino al 1898 si distingue in veste di direttore il già cappellano interno don Francesco Conterio, che dedica la sua vita e i suoi averi alle esigenze dell’ospedale. Dopo Conterio, occupa il posto di presidente Vincenzo Ceriana, che resterà fino al 1934, quando sarà avvicendato da Ferdinando Abbiati, che a sua volta reggerà le sorti dell’ente fino al 1958, quando sarà il turno del barone Alberto Tarony, distante parente del fondatore, e, infine, di alcuni altri. Con realismo e buonsenso, supportati dal consiglio di amministrazione, che è l’anima dell’istituzione, questi insigni e carismatici esponenti valenzani lottano in un contesto di problematicità continua, sovente anche contro elementi politici di disturbo.
Nei primi anni del Novecento, all’Ospedalino arrivano donazioni consistenti: nel 1903 una sostanziosa eredità da Bartolomeo Sassi, nel 1905 da Pietro Ceriana Retazzini e, nel 1911, da Giovanni Marchese. Le cospicue elargizioni permettono lavori di ampliamento e di sistemazione strutturale degli ambienti. Poi, negli anni 1910-1912, si costruiscono due bracci laterali, si chiudono i porticati e i corridoi e si sub-alza l’edificio con un piano superiore; i posti disponibili, così, diventano un centinaio.
In tempo di guerra l’organismo palesa fin da subito di non riuscire a far fronte ai fabbisogni assistenziali della popolazione a causa del razionamento del cibo e dell’innalzamento dei prezzi, ma molti contadini valenzani non fanno mancare uova fresche, latte appena munto, verdure e frutta di stagione all’ospizio.
Negli anni successivi e fino al secondo conflitto mondiale, si effettuano diverse migliorie nella struttura e negli impianti. Vi sono, però, ancora forti sperequazioni tra i beneficiari, che ricevono livelli qualitativi diversi di assistenza a seconda delle quote contributive versate. Si verifica il solito conflitto per l’istituzione, tra le esigenze del popolo, che di idee sembra averne poche e confuse, e i privilegi dell’élite che la sorreggono, dentro un’aura fraudolenta di decoro e di signorilità.
Durante la seconda guerra mondiale, tra emergenze sanitarie e belliche, si naviga nell’incertezza, con infinite preoccupazioni e timori; è consigliabile, quindi, muoversi con cautela, ora che, nonostante la grave situazione economica, sono ricoverati gratuitamente molti anziani in condizioni precarie.
La situazione migliora nel secondo dopoguerra. Nel 1952, ad esempio, viene costituita la “Associazione morale benefica pro ospedalino”. Per poter continuare l’attività in un certo modo, si raccolgono contribuzioni volontarie periodiche tra i valenzani e gli istituti bancari locali.
Si registrano trasformazioni e ampliamenti a getto continuo, grazie a un’amministrazione inserita in un’operosa atmosfera tendente a trasformare l’istituzione da ricovero tradizionale, in un soggiorno concepito secondo una mentalità più moderna.
Gli impianti igienici e sanitari, i servizi di riscaldamento, la cucina, la lavanderia e il guardaroba dell’Ospedalino subiscono trasformazioni radicali grazie all’applicazione di attrezzature moderne. Nei primi anni Sessanta viene costruito un nuovo complesso attraverso la sopraelevazione di due piani, con venti nuove camere per pensionati e altre per il personale civile e religioso; è un lavoro grandioso eseguito con criteri moderni, specie per quanto riguarda la nuova entrata principale in via Canonico Zuffi. L’amministrazione può sopportare l’onere di queste opere di trasformazione e di abbellimento grazie all’eredità, lasciata dalla a benefattrice Anna Farelli Cardarelli, superiore a 35 milioni, all’offerta di 10 milioni della concittadina Donna Bice Trecate e alla donazione consistente della signorina Angeleri, ospite del pio istituto.
Oltre a queste, arrivano anche altre offerte che permettono, insieme alle rette incassate, di reggere un bilancio annuale che sfiora i 40 milioni di lire negli anni Sessanta. Le reverende Suore di S.Anna continuano a prodigarsi per il buon governo e la cura materiale e spirituale degli assistiti, ma presto queste custodi dei pensieri, delle parole e delle emozioni dei bisognosi verranno costrette ad andarsene nel segno del laicismo, risuscitando vecchie polemiche tra i politici e producendo malumori e un certo panico nella cittadinanza.
Nel corso del secondo Novecento, si verificano profondi cambiamenti nella società locale: viene meno il concetto di famiglia patriarcale e la vecchiaia assume sempre di più i connotati di un vero e proprio problema sociale. La casa di riposo non è più concepita solo con l’obiettivo di sorreggere la salute fisica degli ospiti, ma anche di stimolarne le capacità relazionali e il benessere mentale per assicurargli una buona qualità della vita, più facile a dirsi che a farsi.
Sono affermazioni che si fanno per sentirsi migliori, ma che inducono a un’amara riflessione: in passato i nonni erano stimati e protetti, anche come garanti delle tradizioni e portatori di saggezza, ora, invece, sembrano essere troppi e, quindi senza più valore.
Un decreto della Regione nel 1980 sancisce l’estinzione dell’Ospedalino e il trasferimento delle sue funzioni, del personale e dei beni al Comune. Si conclude, così, la vicenda dello “Spedale degli incurabili” e inizia quella della Casa di Riposo Comunale. Si chiude, così, l’epoca della beneficenza volontaria e si dice che inizi quella della sicurezza sociale garantita dallo Stato a favore dei cittadini. Nel 2002, dopo aver accumulato deficit significativi nei bilanci comunali – nel 2001 per l’ospizio si registra un deficit di 1,6 miliardi a carico del Comune – con l’intento utopico di rendere la gestione finanziaria più sobria, la casa di riposo è trasformata nuovamente in istituzione, “L’Uspidalì”, un organismo strumentale dell’ente locale per l’esercizio dei servizi sociali, dotato di una certa autonomia gestionale ma sostenuto ancora dal Comune, su cui graveranno eventuali deficit. Il presidente della nuova istituzione è Giorgio Assini a cui seguiranno Giuseppe Gatti, M. Maddalena Griva e, infine, Silvia Raiteri. Sono personaggi colmi di umanità, a volte troppo legati al potere locale.
Intanto, in circonvallazione Ovest, sta sorgendo la Residenza Sanitaria Assistenziale per anziani non autosufficienti, opera della fondazione Valenza Anziani costituitasi nel 1997. Inaugurata il 18 dicembre 2006, costata circa 10 milioni di euro, autorizzata e convenzionata dalla Regione Piemonte, la residenza può accogliere fino a 60 ospiti con diversi gradi di non autosufficienza.
Nel 2009 il personale delle due case di riposo valenzane è composto da circa 60 lavoratori e il deficit è di circa un milione di euro. Nel 2011 per fare una certa ristrutturazione della Casa di Riposo Comunale viene lanciata una sottoscrizione cittadina.
Nel 2016, le entrate complessive dell’Uspidalì ammontano a 3.848.274 euro di cui 1.833.600 provenienti dalle rette degli ospiti e dai contributi. Nello stesso anno le spese sostenute dall’istituzione ammontano a 3.811.691 euro, di cui euro 743.618 per il personale dipendente e 1.554.633 per prestazioni di servizi.
Nel 2019 i 20 posti Cavs (continuità assistenziale a Valenza sanitaria) collocati al primo piano dell’Ospedale Mauriziano, ormai desueto, vengono spostati all’Uspidalì.
Purtroppo, negli ultimi anni la cronaca ha fatto emergere casi di anziani abbandonati e maltrattati in case di riposo. Due volte dimenticati: prima dai loro familiari che non se ne sono più interessati e presi cura, poi da assistenti senza cuore, che li hanno vessati con disumanità e fatti vivere in pessime condizioni igieniche. Per fortuna a Valenza non è così, anche se molti sono costretti in questo luogo in cui, forse, non sarebbero mai voluti entrare e che, in prossimità della fine, si chiedono se sono ancora amati davvero.
Nella Residenza Sanitaria Assistenziale R.S.A. (così si chiamano oggi gli ospizi) Casa di Riposo “L’Uspidalì”, che oggi ospita circa 100 anziani autosufficienti e non autosufficienti, ci sono persone sane, persone con piccole patologie da vecchiaia e persone con malattie più serie, tutte rimaste per tre anni in condizioni di segregazione forzata a causa del Covid.
Questa istituzione è in grado di soddisfare le esigenze dei suoi ospiti, dando risposta alle loro necessità e misurandosi con i loro reali bisogni. Così facendo, essa dà sollievo anche ai familiari, che hanno la sicurezza di sapere che i loro cari sono seguiti regolarmente e che godono di un servizio mensa adeguato dopo le ultime alterne vicende nell’assegnazione dell’appalto.
Purtroppo, a finanziarla finora provvedono il Comune e, soprattutto, gli assistiti con le loro rette, in assenza di un vero ragionamento nazionale di assistenza sociale pubblica.
Infine parliamo brevemente del vituperato ospedale Mauriziano trasferito da via Pellizzari nel dopoguerra. Il servizio ospedaliero a Valenza risale ai primi del Quattrocento; nel 1782, con un lascito della Marchesa del Carretto del 1776, si apriva l’ospedale Mauriziano.
Già risparmiato da svariati aggressori, sembrava averla scampata, ma ci ha pensato la nostra generazione a spogliarlo lentamente e inesorabilmente sino ai giorni nostri.
Inaugurato nel 1954 e completato nel 1960 nel monoblocco di viale Santuario, il nosocomio valenzano aveva un centinaio di posti, una decina di suore, circa 40 infermieri e vari medici, qualcuno troppo tronfio. Nel 1997 aveva ancora un’ottantina di posti letto (3,41% del provinciale e 0,44% del regionale), i degenti dell’anno erano 2.813 (3,72% del provinciale) e le giornate di degenza 21.888 (3,23% del provinciale).
A guardare i numeri del personale, si può immaginare una casa di cura in cui il malato aveva una corte a sua disposizione come quei ristoranti più chic, ma i conti, invece, non quadravano, specie il risultato. Col tempo, infatti, c’è stato un calo incessante nei servizi e negli assistiti, sicché, nel periodo gennaio-ottobre 2009, ben 2.333 valenzani si sono ricoverati all’ospedale di Alessandria, 841 al Santo Spirito di Casale e solo 447 al Mauriziano di Valenza. La tecnica del rinvio permanente pare al punto di non ritorno a poco a poco sarà sempre peggio; ormai si va verso la chiusura, navigando in una confusione pressoché totale con un vuoto pneumatico di idee e con un risultato imbarazzante per tutti.
Poi dilagava la protesta permanente dei valenzani, un vasto dissenso popolare con una carica di risentimento e di disagio verso la dura realtà. Sulla sopravvivenza dell’ospedale arrivano solo promesse, comitati, utopie e chiusure di reparti e di servizi. In questo clima non mancano i politici retroscenisti, maestri solidali nell’usare queste situazioni in modo strumentale per conseguirne beneplaciti e consensi.
Negli ultimi tempi, convinti della scelta suicida fatta con la chiusura, soprattutto di fronte alla nuova realtà sanitaria, pare si sia raggiunto un accordo (ottobre 2020), tra Regione Piemonte, Fondazione Ordine Mauriziano e Azienda Sanitaria Locale per resuscitare l’ospedale valenzano. Per crederci davvero abbiamo bisogno di coraggio, in mezzo a tanto sconforto tra facce feroci e facce di bronzo e nell’attuale disastrosa e quasi surreale situazione sanitaria pubblica.
Oggi, in tempi di longevità e gerontocrazia, a quarant’anni ci si chiama ragazzi, a sessanta si nega di essere anziani, i vecchi sono al potere se agiati e all’ospizio se indigenti o ammalati. Tutti sono disposti a sacrificare ogni cosa per preservare la propria vita terrena. Di recente, il Parlamento ha approvato il disegno di legge delega in materia di politiche a favore degli anziani. Poco credibile, ma unico disponibile.
Ai posteri l’ardua sentenza.