La vita sociale di Valenza a fine Ottocento
Un nuovo saggio sulla storia della città del gioiello
VALENZA – La grande novità degli ultimi anni dell’Ottocento è il consolidarsi di due classi sociali: la borghesia e il proletariato, che diventeranno i cardini della società moderna.
Come in tutto il paese, anche a Valenza la classe dominante è l’alta borghesia proprietaria di beni, che investe i suoi capitali per ottenere profitti e che comprende i più facoltosi agricoltori locali, quali Abbiati, Menada, Reverdy, Terraggio, Trecate e altri. È una classe sociale che vive staccata dalle altre, che ricopre diverse cariche pubbliche e da anni governa la città in modo sacerdotale, avendo così anche un palcoscenico politico per la sua vanità. Questa si riunisce in locali riservati, come il circolo Casinò Sociale, o al Caffè Mazzini, detto dei signori, dove, con pura protervia padronale, ha una sala a sua esclusiva disposizione. È l’élite, il fior fiore della società, che esibisce atteggiamenti boriosi e spocchiosi e tramanda ai suoi eredi i privilegi di cui si crede investita, ma di gran lunga al di sopra delle sue vere capacità. Generalmente queste famiglie non risiedono in città, ma possiedono una tenuta con villa dove trascorrono parte dell’anno.
Un gradino al di sotto c’è la media borghesia, composta da professionisti, notai, medici, funzionari e intellettuali, che hanno la pretesa di essere i migliori e che interpretano ogni gesta del popolo come indizi di rivoluzione, mentre la piccola borghesia è composta da artigiani, commercianti e impiegati, con una diversità rivendicata scrupolosamente e con un certo orgoglio.
A Valenza è presente anche un’altra estesa classe media, fatta di molti strati che si differenziano tra loro per il prestigio professionale, il tipo di istruzione, i modelli di consumo e lo stile di vita. È la più attiva e intraprendente, non disdegna il lavoro, si dedica in modo diretto alla conduzione della propria attività. Alcuni dei suoi membri hanno una bottega o un negozio, come il farmacista, il droghiere, il pizzicagnolo, il macellaio, il panettiere, il falegname e il fabbro. Altri lavorano in casa in modo autonomo, come il ciabattino e il sarto.
Rientrano nel proletariato coloro che, non disponendo di altro che della propria capacità di lavorare, trovano occupazione come braccianti nelle campagne (proletariato agricolo) o come operai nelle aziende (proletariato industriale), ma ne fanno parte anche gli artigiani ambulanti che si rifugiano sotto i portici in piazza del Duomo durante la stagione invernale o quelli che campano alla giornata aggiustando di casa in casa scarpe, seggiole, pentole, gli spazzacamini e, in strada, il cenciaiolo, l’ombrellaio e l’acciugaio.
Altri lavoratori costretti alla vita dura all’aperto sono i carrettieri, che prelevano ghiaia e sabbia dalla riva del Po, o i selciatori, accovacciati come ranocchi per riparare le strade. I valenzani dell’epoca lavorano con coraggio e ostinazione, sono ambiziosi, superbi riguardo al loro mestiere, privi di illusioni e hanno una moralità e un’etica superiori a quelli di oggi. Da una parte c’è l’asprezza della vita, la povertà, la mortalità infantile, gli incidenti e l’emigrazione, dall’altra la tranquillità di un lavoro, l’aiuto reciproco, le speranze e l’orgoglio.
Presto arriverà l’illuminazione elettrica, ma ora si usa ancora quella a gas, erogato dal 1895. Si realizza l’impianto generale d’acqua potabile e il sistema fognario. Le case sono riscaldate con stufe, caminetti o bracieri; sono senza servizi, con una media di due persone a camera. Per molti il bagno resta uno sconosciuto, per lavarsi si riempie il catino d’acqua. Mentre l’analfabetismo a livello nazionale nel 1901 è del 48%, a Valenza scende al 20%. Dal censimento del 10 febbraio 1901 risultano 11.688 residenti nel Comune.
Sono gli anni del passaggio da una economia legata da sempre all’agricoltura, soprattutto alla produzione vitivinicola, a quella industriale. Nelle aziende si lavora 10-11 ore al giorno, un operaio guadagna circa 2 lire al giorno, una operaia molto meno. Il pane costa 0,50 lire al Kg, la carne 1,30 lire al Kg, il latte 0,30 lire al litro.
In questi anni la produzione locale del filato è in decadenza, poiché si è spento il dinamismo imprenditoriale che l’aveva sorretta, ma le filande sono in declino anche a causa della forte concorrenza estera e delle rivendicazioni dei lavoratori. S’inaspriscono le agitazioni operaie, con molti scioperi e provocazioni in diverse categorie (filandaie, fornaciai, bottai, carrettieri, ecc). Si accendono focolai urticanti di ogni genere, caratterizzati da contrapposizioni politiche e contestazioni di piazza: un vulcano sociale pronto a esplodere.
Al contrario, si sviluppa l’industria calzaturiera. Il tomaificio-calzaturificio Bonafede-Ceva, sotto l’insegna “La Valletta”, conta un centinaio di operai a Valenza e una trentina nella filiale di Bassignana, mentre la Manifattura Calzature Giunte Ballario e Mantelli, fondata nel 1899 con il marchio “La Stella”, ne conta una sessantina.
Nell’oreficeria si manifesta una crisi improvvisa che crea uno smarrimento generale. Presi dalla febbre del guadagno, da tempo i fabbricanti di gioielli hanno fatto a gara a chi produceva e guadagnava di più. Molti di loro, pur essendo in poco solide condizioni finanziarie, affetti da un esagerato ottimismo per il credito che veniva loro concesso, hanno comprato a debito pietre preziose e metallo senza alcun discernimento. A farla da padrone è non solo l’incompetenza, ma anche l’imbroglio. Le perdite e i fallimenti si susseguono a getto, facendo sorgere screditi e risentimenti feroci. Hanno brillato per ottusità economica sconsiderata senza poi capirci più nulla: inetti nel capire, inadeguati nel decidere.
La produzione di gioielli traballa ma non cede. A inizio secolo ci sono circa una ventina di fabbriche orafe, che occupano quasi 300 lavoratori, erano 25 nel 1889 e diventeranno una trentina nel 1908, con quasi 500 addetti. Ci sono anche numerosi lavoratori orafi a domicilio, armati di entusiasmo e di illusioni, alcuni di loro passeranno presto alla condizione di imprenditore.
Buona parte dei valenzani gode di autosufficienza grazie all’attività agricola, che procede secondo ritmi stabiliti da secoli, con 13-14 ore al giorno. Il salario giornaliero di un contadino è di circa una lira. In un anno l’agricoltura locale produce in media circa 12.000 quintali di frumento, 300 d’avena, 8.000 di granoturco, 10.000 di fieno, 20.000 di paglia e 80.000 di vino, superiori al consumo che viene fatto in loco.
La stalla svolge molteplici funzioni: è un ricovero per animali, ma, nella stagione fredda, anche un luogo di socializzazione e caldo giaciglio per ammalati e anziani. Chi si diverte di più sono i bambini che, liberi come fringuelli, saltano a perdifiato sul fieno e sulla paglia. Il forte odore che proviene da tutta questa pluralità non infastidisce più di tanto le narici dei presenti, avvezzi a ben altri effluvi.
Osterie, caffè e circoli sono i luoghi in cui, più di altri, si trascorre il tempo libero, fonti inesauribili di personaggi maschili singolari, ma sono anche luoghi politici e insurrezionali nei quali il confronto e la differenza di classe diventano evidenti. La Cuntrā Grānda è rivestita di negozi con la porta aperta e la tenda esterna nella bella stagione.
Per ripararsi dal freddo gli uomini si avvolgono in pesanti mantelle nere. Le donne vestono con abiti semplici: un’ampia sottana, un corpetto, una cuffia o fazzoletto in testa a coprire i capelli lunghi raccolti a crocchia sulla nuca e uno scialle per coprirsi le spalle. I giovani attendono con ansia le poche scadenze annuali per fare un po’ di allegria.
Per i valenzani la sagra patronale di San Giacomo è il punto culminante della stagione estiva. Si svolge nel mese di luglio nella cosiddetta piazza del Diamante (attuali giardini pubblici), circondata da ombrosi ippocastani e che fiancheggia il viale di Porta Alessandria (ora viale Oliva); la Lea dal Diamānt corrisponde al tratto odierno di viale Cellini compreso tra viale Oliva e via Mazzini. In quest’occasione il luogo diventa una cittadella di divertimenti. Al centro della piazza ci sono due padiglioni circolari per il ballo pubblico e per il caffè ristoro. Suona la stimata banda musicale cittadina del maestro Clemente Zanfi.
Sono installate giostre trainate da cavalli, altalene, bersagli, tiri a segno e bancarelle di vendita. Si esibiscono saltimbanchi, nani, minoranze etniche, giganti umani, fenomeni scheletrici e superobesi, donne flessuose e donne cannone di circa 200 kg. È un cascame di anomalie pietose, di veri mostri e di povere bestiole ammaestrate che oggi apparirebbe come un quadro agghiacciante. Intorno alle bancarelle di bibite e cocomeri si affolla la gente assetata, in cerca di refrigerio. C’è il circo in piazza Italia, ora Gramsci, poi, nei primi anni del Novecento, apparirà il cinema, prima nei carrozzoni ambulanti poi nel 1908 nel cinematografo stabile “Salone Varietà”. C’è anche il mercato bovino ed equino, un panorama di buoi, mucche e cavalli, che fanno gola agli esperti e durante il quale vengono assegnati premi per gli animali più pregevoli. È una gara che tiene alto il prestigio degli agricoltori valenzani. Durante la manifestazione le vie e le piazze sono affollate da migliaia di persone. I valenzani lontani dal paese natio ritornano per onorare la tradizionale festa patronale. A casa ogni tavola è imbandita perché il santo patrono merita un menù speciale, poi, dopo aver mangiato, le persone si recano al caffè a gustarsi un gelato, per alcune forse l’unico dell’annata.
All’interno del nucleo familiare la donna è ancora sottomessa al marito, che resta il garante e l’amministratore dell’unione coniugale, fondamento della società dell’epoca. Nonostante una maggiore attività extra-casalinga delle donne è ancora radicato un maschilismo arcaico e grossolano, i ruoli domestici non mutano. In casa è la moglie a occuparsi dell’economia domestica e dell’educazione dei figli.
Oltre a opere liriche, con esecutori che spesso lasciano a desiderare e che provocano fischi, risate e urla irriverenti dal loggione, al Teatro Sociale si mettono in scena anche certi drammoni strappalacrime che commuovono fortemente gli spettatori. Nei giorni festivi la banda musicale cittadina si esibisce nei giardini o sulla piazza Umberto I, con una letizia popolare verso questa moda del tempo.
In questo periodo il forte mutamento sociale-economico si riflette anche nelle pratiche sportive. La ginnastica, l’atletica e il pugilato la fanno da padroni, ma è il ciclismo che offre ai valenzani gli spettacoli più esaltanti. Il ciclodromo utilizzato è una pista ciclistica ellissoidale formata da due rettilinei e da due curve di circa 700 metri totali, che occupa la zona delimitata oggi da piazza Gramsci e via Trieste. Qui, nella buona stagione, si susseguono corse e allenamenti a cui partecipano i principali campioni del momento e i valenzani Celeste Melchiorre, figlio dell’autorevole Vincenzo promotore dell’oreficeria valenzana, ed Armando Torra, due corridori veloci e resistenti, soprattutto nelle gare a cronometro.
Sono gli anni in cui a Valenza si ha la smania di dialogare, dibattere, dare vita a incontri, pubblicare giornali e interessarsi ai problemi locali e nazionali, con rabbiose contrapposizioni. La favorevole congiuntura economica non gela le idee progressiste con i primi germogli d’organizzazione sindacale, così la classe borghese valenzana, finora dominante, inizia a sentirsi minacciata dal proletariato, che ambisce a un sistema più democratico, ma mantiene il solito opportunismo. Anche il notabilato di sinistra, che considera i governanti una banda di vecchi rimbambiti, è ancora troppo scollato dalla realtà e non dialoga con gli operai, per il notorio dogma giacobino secondo il quale il popolo non conosce quello che gli è utile. Il partito dei liberali, un raggruppamento politico conformista costituito dalla Destra e dalla Sinistra storica è ormai diviso e recalcitrante. Esso ha molti aderenti in zona, in primo piano Abbiati, Ceriana, Angeleri, Mayneri, Majoli, Merlani, Vaccari, Cuniolo, Bonafede, Biglieri, Terzago, Raiteri, Corones e Ferraris. Sono in maggioranza sostenitori di Giolitti e della Sinistra costituzionale, quasi di centro-sinistra (volendo utilizzare un’espressione di oggi), ma ci sono anche falsi moderati, conservatori, nazionalisti e massoni.
Gli oppositori socialisti valenzani più impegnati e riottosi sono per lo più veterani del Partito Operaio e di gruppi radicali. Questi sono settari e condividono poco le tendenze riformistiche. Alcuni rifiutano l’anarchismo e certe astrazioni fanatiche, ma solo a parole. Tra i più impegnati ricordiamo Calvi, Battezzati, Balzano, Gota, Camurati, Morosetti, Ferraris, Gaudino, Melgara, Marchese, Oliva, Soro, Tassinari, Vecchio e Visconti. Tra gli iscritti ci sono molti massimalisti sindacalizzati, impegnati nelle varie leghe e nelle organizzazioni sociali d’ogni seme, e tra di loro ci sono alcune teste matte imbevute di sindacalismo rivoluzionario e di elogio della violenza, con la convinzione dogmatica di detenere la verità assoluta. Tuttavia, tra le mistificazioni propalate a Valenza nel periodo, quelle di protagonismo politico non sono le peggiori.
Nei tempi di cui stiamo narrando Valenza è una città viva, un po’ anarcoide e disfattista, più o meno antistatalista e in lotta per il potere, ma gonfia d’ottimismo e di vivacità. È un simbolo d’efficienza e di modernità e lo sarà sempre.