Valenza orafa nei favolosi primi anni Sessanta
Un nuovo approfondimento sulla storia della città
VALENZA – All’inizio degli anni Sessanta Valenza è il principale centro orafo internazionale, con 6000 operai orafi e oltre 650 imprese artigiane, industriali e commerciali. Il 31 dicembre 1960 la Questura di Alessandria rileva nella nostra provincia 846 aziende orafe-argentiere, di cui 14 industrie, 772 laboratori artigianali e 78 aziende di commercio preziosi. In tutto il mondo si stimano circa 500 mila orefici.
Nel dopoguerra le aziende orafe locali e i loro lavoratori contraddicono le previsioni, aiutate dall’apertura dei mercati internazionali. In base ai censimenti decennali, queste aziende passano dalle 335 unità nel 1951 alle 575 nel 1961, con un saldo positivo di 240, pari al 71,64%, e gli addetti dalle 1.972 unità alle 4.068, con un saldo positivo di 2.096, pari al 106,3%. Ma ci sono anche diversi piccoli laboratori e tanti lavoratori a domicilio sommersi o irregolari.
In questo periodo storico di boom economico si assiste a un incremento consistente degli occupati in ogni azienda, che passano da una media di 5,88 unità a una di 7,08. Questa progressione riflette lo stato generalizzato dell’economia italiana, ma a Valenza è particolarmente influenzata dall’espansione massiccia dell’attività orafa, che produce livelli di reddito tra i più alti del nostro paese.
A Valenza non esistono disoccupati involontari, essa appare come una città perfetta, con basi solide, in grado di produrre ricchezza e benessere e di garantire una buona qualità della vita ai suoi cittadini. Una stima del reddito procapite effettuata nel 1961 dà i seguenti risultati: 500mila lire in Italia, 500mila in provincia di Alessandria e 750mila a Valenza.
Valenza ha ormai un indirizzo monoindustriale orafo, una crescita imponente dell’occupazione e della produzione, che si è realizzata attraverso un’attività produttiva senza rilevanti di capitali esterni, un’espansione dovuta principalmente al dinamismo imprenditoriale, all’operosità e all’estro creativo dei valenzani. In gran parte sono imprenditori che, per il loro essere ex lavoratori dipendenti, vivono l’impresa come parte integrante di un sistema coeso, senza conflitti laceranti, in cui l’azienda si fa accettare in quanto contributo al benessere economico, a una migliore qualità della vita, realizzando un standard alto di convivenza.
A Valenza c’è l’unica scuola statale di oreficeria del paese, con un gabinetto gemmologico statale congiunto unico in Italia e secondo in Europa. Molti giovani si formano all’istituto professionale orafo locale “B.Cellini” (I.P.O.), uno dei più rinomati e attrezzati al mondo, fondato nel 1950, dove è sempre più alta la frequenza di studenti stranieri.
C’è una mostra permanente di oreficeria e gioielleria al servizio degli operatori stranieri, molto invidiata e lusingata, che, in modo esaltante, è stata inaugurata nel luglio 1959 dal Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi.
C’è l’Associazione Orafa Valenzana, una potente organizzazione che nel 1961 conta oltre 400 iscritti, con un certo potere simbolico e con l’ambizione di rappresentare strategicamente la Valenza orafa. Essa è stata fondata nel 1945 e condotta dal presidente Dante Fontani, da Mario Genovese e dal 1957 da Luigi Illario, il vero ideologo dell’oreficeria valenzana, un uomo dal piglio sicuro e dal parlare deciso, sempre in sella, forte di una legittimazione che gli viene dall’aver sostenuto l’istituzione in ogni modo e che resterà in carica da presidente fino al marzo del 1975.
Il 12 aprile 1959 la Casa dell’Orafo, nuova sede della meritoria associazione corrispondente all’ex villa Scalcabarozzi (di stile liberty, costruita sul finire dell’Ottocento e poi appartenuta alla famiglia Mortara), dischiude i suoi battenti per dimostrare quanto hanno saputo fare la passione, l’operosità e l’unità degli orafi valenzani. Una vecchia palazzina, infatti, è stata trasformata in una sede funzionale, con tutti i suoi aggiunti ricreativi, capace di accogliere la Mostra Permanente di Gioielleria, Oreficeria, Argenteria, oltre alla segreteria dell’associazione. La struttura ha un grazioso giardino, fiorito di alberi annosi, in cui trova posto un’ampia pista per le danze e le sfilate di modelli e che fa da cornice a una scala che, dopo un breve pianerottolo fiancheggiato da due colonne, immette nella ampia hall centrale. Da questa si accede alla segreteria dell’associazione, alla saletta presidenziale, alla sala del consiglio, alla redazione dell’Orafo Valenzano, alla sala delle contrattazioni e agli uffici della Mostra Permanente e della Export-Orafi. Il piano superiore è riservato interamente alla mostra permanente di gioielleria, oreficeria, argenteria e affini, dalle cui vetrine, un centinaio circa, fa bella mostra di sé il meglio della produzione valenzana.
L’ingresso è in via Mazzini, il piazzale privato è riservato al parcheggio delle auto degli associati e i dei visitatori. Ai lati della balconata sul davanti dell’edificio, due brevi rampe conducono al circolo ricreativo “Il Gioiello” che occupa tutto il seminterrato con le sue sale e con originali volte a botte. Nel circolo funziona un bar modernissimo e ci sono la sala del biliardo e quella della televisione che completano i due vasti ambienti principali. La capienza di questi ultimi due consente l’organizzazione di trattenimenti danzanti e sfilate di moda.
Alla mostra permanente i visitatori stranieri aumentano di continuo: nel 1963 vengono da 76 paesi esteri diversi, nel 1964 da 83, con 1.445 ordini di merce, che nel 1965 diventano 2.588.
La Export-Orafi, nata nel 1958, è una società commissionaria di orafi che fa spedizioni per l’estero, considerato che il 30-40% della produzione locale è assorbito dal commercio straniero. Essa svolge un buon lavoro a favore degli operatori, che sono avvantaggiati dall’aver ottenuto l’ufficio postale doganale ad Alessandria, di grande aiuto perché dà la possibilità di fare spedizioni all’estero due giorni alla settimana. Cavalcando i mercati mondiali, nel 1961 l’Export Orafi esporta per 502 milioni di lire, nel 1962 per 532, nel 1963 per 859, nel 1964 per 1.150 e nel 1965 per 2.000. In questi ultimi due anni le spedizioni sono rispettivamente 1.850 e 2.793.
L’Orafo Valenzano il cui il primo numero zero sperimentale esce nel dicembre nel 1958, mentre il numero uno esce nel febbraio del 1959, è una rivista inviata agli associati gratuitamente, una tribuna sulla quale anche gli associati A.O.V. possono esprimere le proprie idee e sono costantemente aggiornati sulle nuove tecnologie, sulle scienze gemmologiche e sull’evoluzione del gusto attraverso figurazioni. È una pubblicazione a elevato contenuto tecnico informativo, redatta ancora in una sobria veste editoriale e si avvale delle inserzioni pubblicitarie per coprire i costi. Per molti anni il suo direttore è Giorgio Andreone.
La Casa dell’Orafo è davvero il cuore dell’attività orafa valenzana. In nessun altro centro orafo nazionale c’è una somma di attività e di iniziative come accade in questa città, quindi si può affermare che Valenza sia il massimo centro orafo nazionale, con un pedigree internazionale e un certo complesso di superiorità.
Per tutto il decennio degli anni Sessanta il presidente è Luigi Illario, mentre i vicepresidenti sono i seguenti: Aldo Pasero nel biennio 1961-62, Luigi Baggio nel 1963-64 e nel 1965-66, Aldo Cavallero nel 1967-68 e Aldo Annaratone nel 1969-70 e nel 1971-72. I segretari sono i seguenti: Franco Frascarolo nel 1961-62, Aldo Cavallero nel 1963-64 e nel 1965-66, Franco Castellaro nel 1967-68 e di nuovo Aldo Cavallero nel 1969-70 e nel 1971-72.
A.O.V. 1961-1962
Gli iscritti sono 370 nel 1960, 405 nel 1961, 520 nel 1964 e 567 nel 1966. Nel luglio del 1965, in occasione del ventennale dell’associazione, in via sperimentale e dimostrativa, viene allestita una mostra del gioiello con 120 aziende espositrici, un’esperienza che solo dieci anni dopo diventerà un appuntamento fisso annuale.
La partecipazione alla fiera di Milano e a quella di New York sono i primi successi, che aprono le porte al mercato interno e a quello estero. Una delle iniziative più importanti e azzardate è la mostra itinerante negli U.S.A. del 1963, con una vasta eco sui giornali americani.
Con tutti i suoi errori, le sue incertezze strategiche e le tante indecisioni, l’AOV resterà ancora per lungo tempo un’organizzazione fondamentale per la vita economica di Valenza.
Riguardo al quadro generale della produzione di Valenza, essa è molto varia: va dal minimo oggetto, il più semplice e fruibile da tutte le borse, all’oggetto più fine e complicato, più lavorato e artistico, più bello e di valore.
La creatività di queste 600 organizzazioni aziendali indipendenti l’una dall’altra, capaci di produrre una vastissima gamma di modelli, è in grado di interessare tutti gli operatori orafo-gioiellieri d’Italia e gran parte di quelli del mercato mondiale.
Molte ditte di Valenza, anche le più modeste hanno un’organizzazione esemplare, con ordinati cataloghi di fotografie e disegni che gli permettono di rifare gli oggetti con assoluta precisione anche qualche tempo dopo la prima esecuzione. Tutti questi oggetti sono muniti di un cartellino con il numero del modello, il peso e le altre indicazioni che richieste dal compratore.
La vendita del prodotto, invece, è poco ordinata, prevale spesso l’interesse particolare su quello generale. Gli orafi valenzani, spesso prigionieri della propria attività, solitamente vendono con dilazioni di pagamento che variano dai 6 mesi ai 12-14 mesi e anche di più. Il mercato orafo gioielliere d’Italia è composto da grossisti e da dettaglianti e sarebbe doveroso praticare al grossista un prezzo più favorevole rispetto a quello che viene praticato al dettagliante, ma sovente questo non avviene e si perde di credibilità, attraverso una pluralità di sfumature e con un poco decoroso rimpallo di responsabilità.
Sul mercato interno il prodotto viene venduto attraverso centinaia di viaggiatori orafi, una particolare figura dell’economia valenzana, a meta strada fra il raccoglitore grossista e il produttore, che punta sul contatto diretto con i dettaglianti.
Purtroppo in queste piccole aziende è diffusa una sgangherata applicazione delle norme sui rapporti di lavoro, l’inosservanza generalizzata dei versamenti contributivi sulle paghe elargite, che toglie all’operaio la possibilità di vedersi assegnati i contributi assicurativi che gli spettano. Delle circa 700 aziende orafe, infatti, pochissime sono in regola coi versamenti contributivi dovuti per le assicurazioni obbligatorie del lavoratore. In questi anni a Valenza il lavoro di un buon operaio può essere pagato anche 500 lire l’ora, corrispondenti a circa 7 euro di oggi, che non sarebbe una cattiva paga se più della metà non venisse passata fuori busta. Questo fa sembrare che i preziosi esposti nelle migliori gioiellerie del mondo siano fabbricati da una manodopera senza qualifica né specializzazione, giacché 250 lire circa sono la paga oraria di un operaio metalmeccanico comune. Questo spiega perché un orafo specializzato che in trenta anni di lavoro quotidiano ha fatto guadagnare molti milioni al principale venga collocato a riposo con una in pensione mensile miserevole. Singolari e illogiche anche le differenze di salario fra donne e uomini a parità di rendimento e mansioni.
Concepita per favorire l’occupazione e l’addestramento giovanile, la legge sull’apprendistato, che esonera l’azienda dalle contribuzioni, è molto sfruttata dall’artigiano titolare orafo, sovente con il genoma operaista. Ce ne sono di zelanti ma pochi.
I giovani lavoratori sono tenuti apprendisti fino al termine massimo di cinque anni, seppure quanto a capacità produttiva e retribuzione conseguano la qualifica molto tempo prima. Alcune volte gli apprendisti sono licenziati o tenuti in nero quando compiono il diciassettesimo anno di età al fine di sostituirli con altri di età inferiore. Ciò accade perché l’artigiano per essere considerato tale, è obbligato a non tenere più di cinque dipendenti che non superino il diciassettesimo anno per evitare di passare nella categoria superiore che comporta la tassazione in R.M. cat. B.
Valenza è una delle più strane realtà economiche del nostro paese: pur con crescenti richieste di mercato e migliori prospettive di guadagni, la maggior parte degli imprenditori orafi preferisce rinunciare a ulteriori sviluppi dell’attività e tenere l’azienda sotto il limite che la trasformerebbe in industria, a causa dei relativi oneri e obblighi di legge.
Essendo ex lavoratori dipendenti, una gran parte degli imprenditori orafi sa bene quanto sia importante un sistema grandioso nelle retribuzioni, senza conflitti troppo laceranti. Regna un rapporto di lavoro paternalistico, in cui il datore di lavoro è generoso in premi, ferie, permessi e paghe e il lavoratore è soddisfatto poiché, quasi inebriato; In buona sostanza, alla sicurezza di un rapporto in regola preferisce, o subisce, la generosità benevola e interessata del datore di lavoro. Si può quindi affermare che i salari, seppur elevati, in questi anni sono costantemente al di sotto degli aumenti della produttività, cosa che favorisce un volume crescente di profitti e una progressiva ridistribuzione del reddito a favore dell’impresa e a danno dei lavoratori, che non è una concezione keynesiana né liberista ma padronale, senza suscitare sdegno.
Un altro argomento poco trattato dai sindacati, o messo in secondo piano rispetto a quello dei salari e della difesa del posto di lavoro, è la tutela della salute in fabbrica. L’azienda artigiana locale, infatti, ha una protezione inadeguata rispetto alla nocività della lavorazione che utilizza acidi, amianto, gas, ecc. Nessuno bussa per svelare l’ovvio e l’imprenditore orafo non ha disponibilità né sensibilità verso forme improduttive che favoriscono la salute in azienda e così il mancato investimento in impianti di protezione e di depurazione, la convivenza di fabbriche e abitazioni, l’inquinamento dell’acqua e dell’aria e una patologia del lavoro misconosciuta incidono pesantemente sulla salute dell’operaio e non solo, favorendo gli utili aziendali grazie l’assenza di questi costi.
In questi anni la scarsa propensione a fare formazione delle piccole imprese valenzane è un problema culturale: l’imprenditore orafo pensa che la formazione sia ciò che lui trasmette al lavoratore e l’attività formativa strutturata pubblica non viene ancora riconosciuta come un bene. C’è un basso livello di scolarità tra artigiani e operai e tra questi ultimi in particolare, una bassissima percentuale di diplomati tecnici o professionali, a conferma che la produzione locale si basi più sull’apprendimento sul posto di lavoro, che sulla formazione scolastica.
Verso la fine degli anni Sessanta il disordinato ma utile sistema economico locale s’incrina e ha inizio una fase recessiva che colpisce l’oreficeria locale, una fase provocata dalla divergenza tra il costo del lavoro e i prezzi del prodotto, da un consistente calo della domanda, dal relativo aumento delle giacenze e dal conseguente allungamento dei termini di pagamento, da una burocrazia in vertiginoso aumento. Già negli ultimi anni del decennio si avvertono le difficoltà dell’imprenditoria familiare ad adeguarsi alla nuova economia di mercato; il modello di crescita, basato più sul ricorso alla manodopera aggiuntiva che sull’aumento della produttività è un forte motivo di freno. Alcuni importanti esponenti locali del mondo produttivo, dunque, iniziano a proclamare che il piccolo laboratorio non possa reggere più e che serva una dimensione competitiva, se si vuole restare sul mercato. Non esistono certezze assolute, eppure proprio la dimensione ridotta delle aziende sembra essere stata la carta vincente fino a questo momento di transizione.