Gli svaghi dei valenzani nei primi anni del dopoguerra
Curiosità dal passato della città del gioiello
VALENZA – Parlare dei passatempi dei primi anni del secondo dopoguerra vuol dire fare un salto in un altro mondo. La trasformazione del tempo libero influenzò anche lo stile di vita di molte famiglie valenzane, i cui rapporti, erano ancora molto stretti, a differenza di oggi. I riti e le consuetudini che c’erano state fino ad allora cominciarono a interagire con i nuovi stimoli e le inedite esigenze di una società in rinnovamento. All’epoca ci si divertiva in ogni occasione più o meno propizia, soprattutto nelle ore serali e di domenica, poiché il sabato si lavorava ancora, e non solo a Capodanno, a Carnevale o alla Festa Patronale. Quando la temperatura non era troppo bassa, ci si divertiva in diversi luoghi, ma il cinema stava già cominciando a essere la forma più sublime di divertimento.
Alcuni uomini trascorrevano il loro tempo libero all’osteria con l’aiuto del vino.
I giovani valenzani non possedevano le cose dei loro coetanei di oggi, ma riuscivano lo stesso a trovare il modo di stimolare la fantasia, anche con qualche passatempo stuzzicante.
I bambini e i ragazzi aspettavano il mese di luglio, quando, in occasione della festa patronale di San Giacomo, arrivavano le giostre che riempivano tutta piazza Gramsci. In quei giorni, genitori e familiari uscivano la sera e si ritrovavano nella piazza e nei vicini giardini per fare quattro chiacchiere e trascorrere qualche ora spensierata in quel parco divertimenti temporaneo.
Nonostante i primi segnali di emancipazione femminile, nell’immediato dopoguerra alcune nuove pratiche legate al tempo libero furono avvertite dalla Chiesa come un azzardo per la morale femminile e per gli equilibri che caratterizzavano i nuclei familiari.
Durante la stagione calda, a Valenza il pranzo domenicale era quasi un rito. Molte famiglie usavano trascorrere i giorni di festa dentro ai numerosi vigneti che all’epoca rivestivano le colline attorno alla città, altri consumavano il pranzo nelle baracche in riva al Po. Nei casinòt, i minuscoli fabbricati di legno o di mattoni situati tra i filari o ai loro bordi, venivano consumati pasti appetitosi preparati dalla possidente del fondo o dalle sue compagne di cucina, sempre in forma casalinga molto gradita. Attorno a queste tavolate di amici e di conoscenti, caratterizzate da abbondanza, si creavano nuovi legami sociali, si rinsaldavano quelli già esistenti e si consolidava la fierezza dell’appartenenza. Tutti sentivano di far parte di una grande famiglia, amabile nella ricreazione, divertente a tavola e pungente nella vita più seria: si scoprivano il privato, i gusti e i disgusti.
Il menu solito era a base di pasta e fagioli o minestrone, che, cuocendo per l’intera mattinata, assumevano sapori appetitosi ormai dimenticati. A ciò seguiva al bujì, il bollito, e al bagnāt, salsa verde, e tanto vino, pane, uova sode e, quando era la stagione giusta, fette d’anguria. Tutti erano altresì estimatori della buona tavola, non ai piatti ricercati ma al fatto in casa, come la zuppa di ceci, i tagliolini ai funghi, la polenta e merluzzo, gli gnocchi di patate, ma soprattutto, gli agnolotti alla piemontese con overdose di barbera, una vera eccellenza.
Per i valenzani dell’epoca la collina era la montagna e il Po il mare nostrano, dove, sul lido ghiaioso e sul bagnasciuga del giarò, si prendeva la tintarella estiva. Si nuotava nel fiume, che ogni tanto faceva una vittima per annegamento. Molti passavano le intere giornate libere a pescare muniti di uno zaino pieno di vivande, unendo sport, tranquillità e bisboccia.
Il ballo era una delle più importanti occasioni di socializzazione dell’epoca e, in particolare, uno dei principali momenti in cui le persone di sesso opposto potevano stare a stretto contatto tra di loro e comunicare le proprie simpatie. Durante la bella stagione questo svago avveniva nei fine settimana, di solito in occasione della festa patronale annuale di ogni paese. In queste circostanze i giovanotti valenzani, che si spostavano in bicicletta e in motocicletta, per chi l’aveva o per chi si faceva trasportare, tentavano avance in queste balere occasionali, in cui il loro cavallo di battaglia era la Cumparsita o l’irresistibile e appassionato Besame mucho. Quasi tutti con la sigaretta in bocca per sentirsi più grandi.
Da aprile a giugno un altro svago serale era recarsi nei vicini paesi della Lomellina per conoscere e divertirsi con le schiere di ragazze mondariso, provenienti dal mantovano e dal bresciano, dopo il loro duro lavoro nelle risaie. Al ritorno da queste avventure, qualche fanfarone raccontava di audaci azioni amorose che quasi sempre non corrispondevano alla verità.
Alla fine dell’estate un momento di incontro sulle aie delle cascine intorno a Valenza era la sfogliatura del granoturco. Di sera, nelle cascine, si riunivano parenti e amici del contadino per liberare le pannocchie dal ruvido fogliame, fujachī, che le avvolgeva e prepararle, così, per la macinazione e la farina. Questa era un’occasione per unire il lavoro all’allegria, con canti e cori piacevoli accompagnati spesso da un fisarmonicista, mentre i giovani maschi tentavano i primi magici approcci con le ragazze. Contavano di più le chiacchiere di contorno che il lavoro vero e proprio. Alla fine di tutto, il contadino non dimenticava mai di ricompensare chi l’aveva aiutato a “sfulunā la méjla” con farina da polenta.
In autunno anche la vendemmia diventava uno spasso. In quei giorni quasi tutti si trasformavano in vendemmiatori ed erano compensati con una cesta di uva e di fichi a fine giornata. Faticavano assai, accovacciati per tagliare i grappoli del frutto gustoso, procurandosi spesso fastidiosi mal di schiena, soprattutto coloro che portavano la brenta, al brentaró, che dovevano trasportare l’uva nella bigoncia, l’ārbi. Tanta fatica, ma anche tanta allegria: si scherzava, si cantava e si beveva. Per fortuna o per disgrazia, in quei tempi non si controllavano ancora la pressione arteriosa e la glicemia in modo ossessivo.
Per muovere le gambe rimaste ferme tutta la giornata sotto a un banco da orefice, accanto a una macchina calzaturiera o a una scrivania, durante le afose serate estive, molti valenzani placavano la loro sete al raʃinó, il Resinone, dove un’acqua freschissima, leggera e gratuita sgorgava da un grosso rubinetto. Al mattino, invece, in ogni stagione, si curava l’apparato digerente bevendo e imbottigliando acqua da un’altra fonte, la funtān-na mārsa, da dove scaturiva un’acqua solforosa che, se bevuta al mattino, regolava l’intestino. Oggi l’acqua solforosa si può bere solo alle fonti di Monte Valenza.
Tutti questi sono ricordi di metà Novecento, un’epoca che non c’è più, in cui ci si accontentava del poco che si aveva e si poteva essere se stessi senza provare ad apparire diversi. Erano anni in cui ci si divertiva con poco e spesso si univa l’utile al dilettevole, in questa ricca e produttiva terra valenzana che, dalle rive del Po fino alle colline, ora, al riparo del tempo, custodisce tanti episodi piacevoli di vita sociale da ricordare.