«Anni di lavoro al Pronto soccorso che è un ospedale nell’ospedale»
Il racconto di Angela Luparia: «Non c?è un giorno uguale a un altro. Mi capitò un ragazzo, aveva l?età di mio figlio. Mi disse: ?Non voglio morire?»
Un giorno di gennaio del 1977, il professor Giuseppe Veronesi convocò la caposala Angela Luparia e le chiese se le sarebbe piaciuto andare a lavorare al Pronto soccorso. «Io risposi che non sapevo se sarei stata all’altezza del compito. Lui mi rincuorò e, ben presto, mi trovai in una realtà tutta nuova, ben diversa dal reparto di Chirurgia generale o dalla sala operatoria, sempre di Chirurgia, dove ero stata impegnata fino ad allora… Il Pronto soccorso è un ospedale nell’ospedale. È una definizione abusata, ma credo che rispecchi fedelmente la realtà».
Da quel gennaio e fino al 31 dicembre 2008, Angela Luparia è stata referente di un’équipe di una quarantina tra infermieri e oss. Turni diurni e notturni, un viavai continuo, «anche se adesso, e soprattutto dopo il Covid, mi dicono che sia molto peggio» mormora.
Serve preparazione
«Però – aggiunge – è un lavoro che dà molte soddisfazioni. Se, in ambito sanitario, piace l’attività dinamica, il Pronto soccorso è il posto giusto. Nessun giorno è uguale al precedente. Però bisogna essere preparati per affrontare qualunque tipo di evenienza, compresa naturalmente la gestione dei pazienti in ‘codice rosso’, per i quali non bisogna indugiare».
Non si può improvvisare: la formazione include il triage, l’assistenza in caso di politrauma, la rianimazione cardiopolmonare. «Ma occorre essere pronti anche ad affrontare i casi psichiatrici, che necessitano di trattamenti particolari».
Pazienti e famigliari
Infiniti i ricordi. «Mi sono capitate in Pronto soccorso persone che conoscevo. In quei casi, il problema è cercare di non farsi condizionare emotivamente».
Tra i momenti topici, ne spicca uno. «Dal 118 ci avevano informato che sarebbe arrivato in ospedale un ragazzo vittima di un infortunio sul lavoro: era stato colpito, alla base del collo, da una lastra di ferro. Ci eravamo preparati ad accoglierlo. Io ero solita assistere l’équipe medica, ma stando in disparte. A quel giovane tenni la mano, per dagli forza. Aveva 25 anni, come mio figlio. Lui mi guardò e mi disse: ‘Non voglio morire’. Fu l’unica volta che, il giorno successivo, telefonai al reparto di Rianimazione per sapere come stava. Per fortuna andò tutto bene».
L’alluvione e il Duemila
Poi bisogna mettere in conto anche il rapporto con i famigliari dei pazienti, «perché non sempre riescono ad accettare la realtà». È importante essere anche un po’ psicologi, allora. Angela Luparia, classe 1950, prese servizio nell’ottobre del 1968. Lavorò coi professori Maconi e Tomassini, prima dell’esperienza in Pronto soccorso dove, dal 1997 al 2008, ha svolto l’attività sotto la direzione del dottor Casagranda.
L’alluvione resta un momento clou («il settore emergenza venne trasferito momentaneamente in Ortopedia»), ma memorabile fu anche l’arrivo del 2000. «C’era incertezza per il famoso ‘baco’ che poteva mettere a repentaglio i sistemi informatici. Mi chiesero di prestare servizio la notte di quel Capodanno. Per fortuna, passammo da un millennio all’altro senza traumi…».
Erano altri tempi
La Luparia ha vissuto i tempi in cui al Pronto soccorso c’era il posto di Polizia («adesso che sarebbe più utile di allora, il presidio non c’è più»), ma soprattutto c’erano situazioni meno complesse, dal punto di vista gestionale e di organico.
«Chi vuole un’esperienza totalizzante, però, deve lavorare lì: io non mi sono mai pentita di averlo fatto» dice. Tant’è che per un anno, benché in pensione, ha svolto attività di volontariato, che poi ha proseguito all’Aism, a Bios e ad Anteas per la quale, ancor oggi, si occupa dell’ambulatorio allestito in via Tripoli e di quello di Bergamasco.
«Sono cambiati i tempi – conclude – ma il mantra dell’infermiere resta sempre valido: bisogna sapere, saper fare e saper essere».