L’economia del Seicento a Valenza
Un nuovo approfondimento storico del professor Maggiora
VALENZA – Il Seicento è un secolo di decadenza, di peste e di crisi economica. Nell’arco di pochi decenni, l’Italia smette di essere una potenza commerciale e industriale e diventa un paese depresso e in declino. Le cause principali della crisi sono la stagnazione demografica, dovuta ai lunghi conflitti armati, la diffusione di malattie e pestilenze, il calo della produttività agricola e la recessione economica, provocata dall’inflazione e dalla diminuzione dell’attività manifatturiera.
Questi problemi si manifestano anche a Valenza, che nel Seicento vive un periodo intriso di doppiezza e di ambiguità e ricco di eventi rilevanti, in particolare quelli di carattere bellico, a causa della posizione geografica della città. Da tempo la statura militare di Valenza è andata in continuo aumento: è un rilevante avamposto della Lombardia spagnola verso il Piemonte sabaudo e il Monferrato dei Gonzaga, una città continuamente guarnita e rafforzata, un po’ per necessità e un po’ per opportunismo.
Duomo, monasteri, conventi, confraternite e chiese provano una certa densità di popolazione nel Comune – forse 6.000 persone complessive all’inizio del secolo – ma saranno di nuovo le guerre, le miserie e le pestilenze a provocare altri vuoti demografici rilevanti nel Seicento. La peste manzoniana degli anni Trenta, la cui funzione di riequilibrio del rapporto popolazione-risorse sarà determinante, opera in maniera selettiva, accelerando alcune trasformazioni e rallentandone altre e accentuando l’insostenibilità di produzioni obsolete nel settore secondario. Dopo i primi lustri di difficoltà, l’economia che ne consegue avrà caratteri di minore fragilità rispetto al periodo precedente al 1630.
Anche dopo i miglioramenti spagnoli le fortificazioni sono ancora sproporzionate agli assalti a cui fare fronte, poiché sono un compromesso tra opere medioevali e opere moderne. Il tratto più protetto è quello compreso tra i bastioni di Caracena e quello dell’Annunziata. La principale fortificazione è il castello del Trecento, con fortificazioni e nutrita guarnigione spagnola, che fa da sentinella sul Po. Le difese naturali più efficaci sono i due valloni a ovest e a est, difesi con efficaci ridotte esterne. Da sud a nord persiste la Contrada Maestra, l’attuale corso Garibaldi, che va da Porta Astiliano, poi Alessandria, a Porta di Po; l’altra direttrice da est a ovest, attuali via Banda Lenti, via Garessio e via Cunietti, va da Porta Bedogno, poi Bassignana, a Porta Monasso, poi Casale.
Immaginando la parte est della città a quei tempi e giungendo dalla parte sud verso la contrada Maestra, ci si trova di fronte la Porta Astiliano, la più ampia e guarnita tra le fortificazioni cittadine. Svoltando a destra verso est, si rasentano le antiche mura e s’incontra un lungo strato troncato da due torrette circolari. Poi c’è il Bastione Caracena, seguito dal possente Bastione dell’Annunziata, inizio viale Vicenza, e quindi Porta Bassignana, attuale via Banda Lenti.
La relazione del delegato della Reale Camera del 1681 ci informa che Valenza città è composta da 480 famiglie e da circa 2.200 abitanti, che ci sono 15 grandi cascine e un numeroso presidio di soldati spagnoli. Tra la popolazione ci sono 150 soggetti molto benestanti, 4 medici, 6 barbieri, 4 macellai, 2 notai, 2 fanti di polizia urbana, 1 dottore fiscale per le imposte e 1 attuario criminale per giudicare i reati. Da un punto di vista religioso, ci sono 1 prevosto (Parrocchiale Collegiata del Duomo), 1 curato, 9 canonici, 20 cappellani, 3 conventi di frati (domenicani, francescani e cappuccini) e 2 di suore e un forte entusiasmo generale per il nuovo duomo, dinanzi al quale si stende la piazza principale dove si trovano il Palazzo Pretorio, il corpo di guardia e diverse botteghe. In città ci sono parecchie osterie e bettole dove gli uomini passano un po’ di tempo in compagnia di amici e concittadini, scambiandosi racconti e opinioni, accompagnati da vino e da cibo.
Prima dell’instaurarsi di una borghesia dinamica e intraprendente, diverse famiglie nobili esercitano il commercio, direttamente o indirettamente, anche se i risultati non sono molto brillanti in termini di ridistribuzione degli utili. Ci sono i cosiddetti “maestri” nelle famiglie Aribaldi, Schiffi e Salmazza, una qualifica che non si dà solo agli artisti, ma anche ai semplici commercianti e artigiani. Le famiglie che danno vita a quella che viene chiamata “nobiltà crescente” si arricchiscono con l’esercizio della mercatura, tanto lucroso e rispettato da indurre a mandare i propri figli a imparare la pratica del mercante a Milano; il paradigma finale, infatti, è sempre il profitto economico. Ma diversi giovani nobili locali dalle tenaci passioni non s’interessano alle attività economiche familiari tradizionali e, invece, preferiscono assicurarsi carriere militari ed ecclesiastiche, molte già stabilite fin dalla nascita.
Se nel resto del paese il Seicento è espressione di una crisi generale, a Valenza l’attività economica s’incrementa, riuscendo a evitare pericolosi disquilibri. Dopo la liberalizzazione dell’esportazione nel 1595, grazie al governatore dello Stato di Milano, crescono le filande e l’industria di fustagni, che occupano grandi quantità di donne. La nuova preparazione della fibra, la filatura, lo sviluppo della tecnica, la nuova organizzazione produttiva e la specializzazione del lavoro si rivelano in pieno già in questo secolo, segnando il passaggio dall’economia medievale all’economia moderna. Rinomata è anche la fabbricazione di vasi atti a contenere il vino e sempre più dinamica è l’attività artigianale e il commercio attraverso i ponti di barche sul Po.
Molta nuova nobiltà, dunque, si arricchisce con l’esercizio della mercatura, ma il settore industriale-manifatturiero, in forte sviluppo, offre buone prospettive. In questo secolo si sviluppa l’estrazione e il commercio della terra bianca, ovvero delle cave di calce, che provocheranno avvallamenti nelle vicinanze della città, nello specifico fuori da Porta Astiliano o Astigliano, da sud ad ovest. Esercitano quest’attività molto lucrosa le famiglie Aribaldi, Belloni e Cagnoli, proprietarie di fondi ricchi di questo tipo di terra. È rilevante anche il commercio della concia delle pelli. Il commercio al minuto, tramite le botteghe, si sviluppa quasi esclusivamente in sorte Astiliano, sulla piazza del duomo e nelle sue vicinanze.
Il settore più rilevante da un punto di vista quantitativo è sempre quello agricolo, ma è singolare una crisi scaturita dal raffreddamento del clima, dall’instabilità dei prezzi agricoli e dalla diminuzione del potere d’acquisto della popolazione rurale. Per integrare il loro reddito nei tempi morti delle loro attività, molti contadini si dedicano a lavorazioni manifatturiere nella loro casa, sgradite e contese al tempo stesso.
Durante il secolo c’è un cambiamento dell’assetto generale del settore agricolo: l’allargamento della superficie agraria e la diffusione del mais garantiscono l’autosufficienza alimentare e arginano le fluttuazioni del mercato cerealicolo. Le conseguenze della peste del 1630-1631 sono maggiori nelle campagne che nelle città, poiché falcidiano tra il 30% e il 40% della popolazione rurale. Le guerre dei due decenni successivi causano l’abbandono delle terre e lo spopolamento delle campagne, riducendo le attività agricole; allo stesso tempo, aumenta il costo del lavoro e il prezzo delle derrate alimentari.
Sembrerebbe il colpo di grazia al già traballante equilibrio socioeconomico, ma non è così. Verso la fine del secolo, con l’impetuosa avanzata della gelsicoltura e della bachicoltura, si assiste a una profonda trasformazione dei regimi agrari e dell’economia rurale. Diminuisce il numero dei piccoli produttori e dei contadini dipendenti e aumentano i lavoratori salariati e quelli stagionali con innovative forme contrattuali e mercantili – agricoltore imprenditore, manodopera itinerante e contratti a termine.
Gli assedi e i fatti d’armi che coinvolgono la città in questo secolo fanno sviluppare l’artigianato militare locale. Dietro l’orrore, dunque, si nasconde il business del tempo. Le truppe necessitano di un apparato di sussistenza, che ingloba generi di vettovagliamento, attrezzature militari e il rifacimento di quello che viene perduto o deteriorato. Anche nei frangenti bellici Valenza è una città di grande importanza per fare fronte a queste esigenze. È proprio l’esame di quest’elemento artigiano-militare che ci fa sostenere la teoria di un’attitudine valenzana alla trattazione di manufatti metallici e artistici assai prima della nascita dell’oreficeria nel XIX secolo.
Le nuove rotte commerciali dirette ai porti di Genova e di Livorno, dove è forte la presenza di mercanti e di naviglio provenienti dall’Europa atlantica, fornisce una spinta all’apertura del percorso che, da Genova, via Valenza, mette in comunicazione il capoluogo ligure con Milano e il nord. Valenza mantiene un porto sul fiume Po e trae provento dal pedaggio pagato per le merci transitate. Qui da molto tempo funziona un traghetto, composto da due scafi abbinati che sorreggono un tavolato, che collega le rive con un impianto “a pendolo” collegato con un cavo.
Per l’ingresso nella città, anche gli stranieri devono versare un dazio di pedaggio al Comune, sempre oberato dai debiti. Il tributo comunale più importante colpisce il vino che si produce, poi viene esteso anche alle granaglie. Il vino, prodotto principale del territorio che non conosce flessioni nei livelli di consumo, è colpito in diversi modi e quello importato ha anche un dazio di protezione affinché non arrechi danno alla produzione locale. Già da tempo gli appaltatori del dazio della brenta, un oggetto di produzione artigianale usato per la misurazione, il travaso e il trasporto di vino e di mosto portato a spalla tramite bretelle, vengono chiamati “i brentatori”. Si paga un dazio anche per le importazioni di merci e di bestiame, dalla scannatura degli animali, sui diritti di pesca, sull’imbottato, ecc. Si è esenti dal dazio durante le due fiere annuali di San Marco e San Giorgio. I beneficiari di queste tasse sono il Comune, il feudatario e altri, che spesso riscuotono a ragione di servizi o di crediti. Nel 1681, morto l’ultimo feudatario conte Gabrio Gattinara Lignana, la Regia Camera di Milano evoca a sé i redditi e le prerogative un tempo appartenenti al feudatario.
Verso la fine del Seicento viene a cessare gradualmente la supremazia delle casate nobiliari valenzane con i loro intoccabili e storici privilegi, un circuito serrato al cui interno e fuori mercato, tra chierici e aristocratici acciaccati e malmessi, si è troppo consumato lo smercio di vantaggi e favori.
Nel popolo spremuto ed esacerbato, anche dai troppi assedi bellici, si agitano aspirazioni e manovre ancora confuse e contraddittorie tra di loro, soprattutto sotto il profilo economico-finanziario, fino all’autolesionismo. Spira un forte vento di malcontento, mercanti contro compratori, imprenditori agricoli contro membri delle arti, negozianti rurali contro produttori cittadini.
Per le innumerevoli dissidenze, nel 1654 vengono istituite due amministrazioni comunali: dell’estimo fiscale maggiore (i proprietari più ricchi) e dell’estimo minore (quelli meno ricchi, ma non poveri).
Saranno i nuclei familiari di tardo insediamento, giunti da località diverse e in tempi differenti, a costituire il tessuto di una nuova compagine sociale più benestante, che soppianterà le antiche casate in via di estinzione. Varie casate della vecchia nobiltà accettano di mischiarsi sia con oriundi ispanici sia con le famiglie emergenti di origine finanziaria-mercantile. Per loro non c’è scampo, una china discendente senza possibilità di ritorno, insomma.
Tra le famiglie più influenti e facoltose del tempo, per le attività svolte e i personaggi di rilievo al loro interno, ci sono gli Annibaldi o Aribaldi, Baiardi, Basti, Battaglieri, Belloni, Bezzera, Biscossa, Bocca, Bombelli, Cagnoli, Chiesa, Campi, Capriata, Ceriana, Da Ponte, De Cardenas, Del Pero, Dina, Fracchia, Guazzo, Lunati, Maggi, Porta, Salmazza, Sannazzaro, Schiffi, Stanchi e Zuffi.
Nella redditizia classe degli speziali troviamo Giovanni Luca Tizzone, Giovanni Scarpa, Giovanni Francesco Fracchia, Massimiliano Stanchi, Gerardo Fracchia, Vincenzo Salmazza e Gerolamo Lana. Nei primi anni del secolo esercitano la professione medica Remigio Ruginento, Giacomo Luigi Bontempi, Michele Ferrari, Roberto Aribaldi, Francesco Biscossi.
I governatori di Valenza nel Seicento, tutti di derivazione spagnola, sono: 1594, Alonso Bezzerra – 1611, Michele della Fora – 1635, Martino Galliano – 1635, Don Alonso de Cordova – 1635, Francesco de Cardenas – 1636, Gabriele de Cardenas – 1650, Antonio de Leon – 1656 Agostino Segnudo – 1657 Francesco Augusto Villevoire – 1663, Agostino Segnudo – 1676, Michele de Cordova y Alagon – 1691, Francesco Colmenero.
I podestà sono: 1600, G.B. Oliati – 1602, Ercole Rosignoli – 1604, Giovanni Maria Olgiati – 1606, Gerolamo Torelli – 1608, Pirro Gattinara – 1610, Giovanni Tosi – 1612, Giovanni Andrea Torti – 1616, Carlo Boidi – 1622, Cesare Ferrari – 1626, Sinibaldo Boidi – 1628, Antonio Luigi Bianchi – 1630, Giovanni Luigi Buzzone – 1632, Antonio Luigi Bianchi – 1634, Virginio Rocci – 1638, Pietro Gamondio – 1648, Lodovico Gambarano – 1650, Francesco Burgario – 1652 Carlo Francesco Uzardi – 1656 Gabriele Mantelli – 1658, Grassi Polati – 1660, Giuseppe Tremoli – 1662, Antonio Medici – 1670, Francesco Villegas – 1674, Canefri – 1676, Bartolomeo Forti – 1682, Orazio Pernigotti – 1690, Biagio Aulari – 1693, Gaspare Giuseppe Annibaldi – 1697, Claro Antonio Calvino – 1698, Giovanni Francesco Ribrocchi – 1700, Molo Bassano.
Le trasformazioni seicentesche contribuiranno a strutturare in modo più profondo una serie di rapporti economici gerarchici interni alla società valenzana, finora dominata dalla tradizione. In seguito, come sempre, bisognerà fare i conti con l’imperfezione umana e i voltafaccia della storia.