Musolino di Valenza
Affascinante ritratto su un famoso personaggio valenzano
VALENZA – Francesco Lingua (1883-1973), soprannominato Cichì, è stato un famoso personaggio locale di Valenza. Era un cacciatore e un pescatore, un uomo alto e robusto, dritto come un fuso, dal portamento distinto ed elegante, coi baffi e una lunga e folta barba bianca che con la brina crepitava come un cartoccio di paglia, l’immancabile pipa in bocca e gli stivali ai piedi. È stato il più famoso pescatore di Valenza del Novecento, consegnato all’immaginario popolare come una sorta di asceta. Dando prova di competenza, attraversava il fiume con il suo burcè, anche durante le piene e con la nebbia, facendo la gimcana tra gli alberi sommersi.
Era un uomo inchiodato ai suoi rituali. A chi lo incontrava nei boschi, col lo sguardo pungente, il suo cappello scuro e la sua doppietta dalle lunghe canne, più simile a un archibugio che a uno schioppo, suscitava una deferenza, che gli valse il soprannome di “Musolino”, per una presunta somiglianza al leggendario brigante calabrese. A dispetto della sua aria torva, era una persona dal carattere mite, riservato e arguto, che ha passato tutta la sua vita sul fiume, dimorata in una baracca, libera nell’incontaminato mondo della natura, un filosofo distaccato dalle cose del mondo che apostrofava gli inconsapevoli ficcanasi anche con epiteti poco rispettosi. Era solito osservare lo scorrere delle acque del Po con il cannocchiale dalla terrazza della baracca e ne sapeva cogliere i fremiti e il gorgoglio, premessa per la calata delle reti da pesca.
La devastante piena del Po del 15 maggio 1926 mutò profondamente il corso delle acque, così, nella primavera del 1930, Francesco Lingua e il fratello Carlo (1895-1961), detto Carló, entrambi pescatori esperti e conviventi, si trasferirono dalla sponda destra del Po a quella di sinistra, sul versante Frascarolo, in regione Oche.
La baracca dei fratelli si trovava al centro della concessione di pesca, di fronte al Rivārì, in una splendida zona fluviale, fra pioppi, olmi, salici e acacie. Lì Musolino trascorreva ogni giornata. La dimora era in legno con tetto di lamiera, si appoggiava su robusti pali d’acacia e aveva un terrazzo a cui si accedeva con la scala a pioli. Qua e là erano appesi peperoncini, zucche, aglio, cipolle, coltivati nell’arenoso orticello insieme a pomodori, prezzemolo, sedano, rosmarino, salvia e i pèrsi piꭍī, delle piccole pesche selvatiche. L’arredamento era essenziale: un tavolaccio con delle panche a lato, alcune sedie, una stufa in ghisa, un paio di giacigli e capi di vestiario appesi alle pareti. Nel cortile c’erano sette gatti, tre cani, una cornacchia e una gazza.
Alla baracca si arrivava lungo un sentiero che in primavera diventava una galleria bianca di grappoli di “pappa”. Era meta di persone di molteplice estrazione, perché Cichì, un ottimo cuoco, si prestava divertito a tutti, non faceva distinzioni tra ricchi e poveri o tra sapienti e profani e trasportava sia il nobile che il campagnolo da una sponda all’altra del fiume. Per gli ospiti abituali, pescatori o cacciatori, il richiamo per il pranzo o la cena era un lungo suono di tromba.
I due fratelli Lingua erano uno l’opposto dell’altro: tollerante Cichì, irruento e impulsivo Carló. Vivevano principalmente dei prodotti della pesca svolta sul ricco fiume. Di mattina le mogli portavano il pesce appena pescato e spesso ancora vivo al mercato coperto, dove la consorte di Musolino aveva un banco di vendita fisso. Il pesce più comune era l’alborella, bosco e sottobosco erano ricchi di funghi, come la prelibata spugnola.
Di sera Cichì Musolino attraversava il fiume con la sua barca e approdava in zona Oche, dove lo attendeva la bicicletta per tornare alla sua abitazione ufficiale in viale Vicenza, edificio che sarà poi la sede dell’Avis. L’uomo ebbe un momento di celebrità nazionale quando lo scrittore Mario Soldati lo intervistò per il suo “Viaggio nella valle del Po”, una trasmissione televisiva di successo risalente agli albori della tv, nel 1957-1958.
Dopo la fine improvvisa del fratello, avvenuta all’interno della baracca in un afoso pomeriggio di giugno del 1961, Cichì tirò i remi in barca: da quel momento solo di rado calò le reti e, per farlo, ricorreva a collaboratori occasionali.
Il vegliardo, logorato dal tempo, materialmente esaurito, mentre si accarezzava la barba lunga e bianca e si lisciava i mustacchi, raccontava la sua singolare vita trascorsa sul fiume ai suoi ospiti: storie macabre e storie allegre, amori segreti consumati all’ombra dei salici, complotti orditi al lume di una candela e dettagli piccanti su avvenimenti locali del passato. I suoi racconti erano abbelliti da qualche tocco personale e non mancavano, quantomeno per ragioni ideali, di brillante autoironia.
Musolino si è spento a novant’anni, portando con sé il mormorio dell’acqua del fiume e delle fronde mosse dal vento, il profumo dei fiori di bosco, il frinire delle cicale, il verso del cuculo, il canto melodioso e penetrante dell’usignolo e molto altro. Forse ha creato un sistema di vita e di valori originale, più reazionario che conservatore, un esempio virtuoso e romantico suo malgrado, di cui oggi restano solo ricordi sbiaditi.