Valenza nel Risorgimento italiano
Un nuovo approfondimento sulla storia della città
VALENZA – Il Risorgimento Italiano è una storia luttuosa, gloriosa, coraggiosa, ma anche brutale, bizzarra e perfino spregevole. L’idea che tutto si potesse risolvere assemblando le varie realtà territoriali del paese si rivelerà, purtroppo, un’illusione pericolosa. Le masse rurali e, in genere, le plebi cittadine resteranno ai margini del moto risorgimentale e non saranno concretamente integrate nello stato unitario.
Quest’opera epica e ignobile – epica perché una minoranza valorosa realizzerà l’unità, ignobile perché fatta con abusi e violenze contro i cattolici e i meridionali – vede la partecipazione di orgogliosi patrioti valenzani pronti a sacrificare la vita per l’Italia non ancora nata.
Il 9 e 10 marzo del 1821 alcuni patrioti valenzani – i costituzionalisti rivoluzionari, una setta di sterili e impopolari intellettuali – partecipano alla sfortunata e improvvisa conquista della Cittadella di Alessandria, divenuta ormai il cuore della rivoluzione carbonara che, sconvolgendo il Regno Sabaudo, porta solo all’abdicazione di Vittorio Emanuele I in favore del fratello Carlo Felice, un reazionario ostile ai liberali.
Il gruppo valenzano è guidato dal comandante della Federazione di Valenza Giuseppe Gervino, un personaggio originale, un chirurgo, un uomo circonfuso di luce mistica, di volta in volta combattente e salottiero. In città c’è chi lo considera l’eroe di un’opera drammatica e chi un irriducibile agitatore, interlocutore privilegiato di gruppi eversivi.
Il Consiglio comunale di Valenza, che cade in uno stato di trance euforica, vuole partecipare all’evento sovversivo e a tale scopo nomina una commissione per la scelta della Guardia Nazionale, secondo le disposizioni ricevute dal comando rivoluzionario di Alessandria, agli ordini di Santorre di Santa Rosa. La commissione è composta da Giuseppe Gervino, Carlo Scapitta e Giovanni Menada, le personalità più autorevoli del liberalismo valenzano. La Guardia Nazionale creata è composta da tre compagnie di Valenza e una di Monte. Gli ufficiali sono i capitani Vincenzo Piacentini, Giuseppe Calvi e Giovanni Piazza; i tenenti Carlo Campora, Michelangelo Laffon e Carlo Meschini; i sottotenenti Giovanni Battista Zucchelli, Luigi Abbiati e Giovanni Calvi; l’aiutante maggiore è Cesare Ceriana. Gran parte del fallimento del moto rivoluzionario deriverà dalla cultura dell’irreale presente e dall’assoluta mancanza di un legame con il popolo.
Con i fatti di Novara dell’aprile del 1821, quando le truppe federate insurrezionali costituzionaliste sono messe in rotta dalla cavalleria austriaca, tutte le speranze svaniscono e gli austriaci ritornano a Valenza con il beneplacito di re Carlo Felice. I cittadini compromessi in quel colpo di testa o coraggioso atto patriottico cercano di salvarsi rifugiandosi da altre parti, assaggiando il dantesco e amaro sale, lasciando detriti e scorie pericolose (le delazioni e le perquisizioni a sproposito). Allo stesso tempo il Comune è obbligato ad accogliere i soldati austriaci del reggimento di Nassau – l’occupazione del corpo ausiliare austriaco dura fino al settembre del 1823 – e tutti i possessori di abitazioni sono costretti a dare alloggio agli ufficiali occupanti. Gervino è condannato alla forca il 24/09/1821, ma fortunatamente la somma punizione non è eseguita perché riesce a scappare. Ristabilito l’ordine, nel gennaio del 1822 il sindaco e i consiglieri di Valenza, frondisti e cortigiani flessibili, assistiti dal parroco Marchese, dal giudice Arcasio e dal comandante della città conte Tomaso Guasco di Bisio, prestano giuramento di fedeltà a re Carlo Felice e ai suoi successori, delegando il nobile Sebastiano Ferraris a presentarlo a Torino.
Ora che Valenza è retta dalle baionette austriache e dal governo assoluto piemontese, le vessazioni raggiungono estremi grotteschi: ad esempio, c’è un veto per barba e baffi, considerati segni di carboneria. Una buona porzione arrendevole di valenzani lascia da parte gli ideali politici o, per dirla in un altro modo, applica la tattica dello struzzo, sempre rimasta di moda: in altre parole, fanno e non dicono nulla. Comodo, ma non troppo dignitoso. In pochi altri, invece, la vocazione rivoluzionaria si riaccende e peggiora.
I sindaci del periodo, di nomina regia dal 1815, restano in carica per due anni, estesi a tre dal 1838, mentre i consiglieri scadono ogni sei mesi. I sindaci che si avvicendano sono i seguenti: Cordara Pellizzari dal 1814, Annibaldi dal 1816, Del Pero dal 1819, Menada dal 1821, Cassolo dal 1824, Annibaldi dal 1827, Taroni dal 1829, Mario dal 1831, Menada dal 1833, Annibaldi dal 1837, De Cardenas L. dal 1840 e Menada dal 1846. Sono per lo più abbarbicati a una visione conservatrice e patriarcale, dominata da poteri forti e pensieri deboli.
Nel momento storico in cui si svolgono queste vicende, i valenzani hanno una fame disperata di modelli positivi. È ancora troppo grande la distanza tra il raffinato formalismo culturale dei piani alti e il particolarismo dialettale dei piani bassi. La lingua italiana continua a essere patrimonio di pochi e i più continuano a parlare in dialetto, dunque la cultura fatica a uscire dalla cerchia chiusa dei dotti. È la religione che, con ansiogena potenza, accomuna ancora la stragrande maggioranza dei cittadini. I paternalistici e conservatori della tradizione apostolica parroci del Duomo del periodo sono: Francisco Marchese (dal 1798 al 1831), Giuseppe Pellati (dal 1831 al 1850) e Domenico Rossi (dal 1850 al 1895).
Il 29 maggio 1843 re Carlo Alberto, succeduto a Carlo Felice nel 1831, e il suo seguito reale sono ricevuti dal sindaco Lorenzo De Cardenas, in carica dal 1840 al 1845; in carrozza, facendo un bagno di folla, fiero, superbo e un po’ commediante, il re visita la città, l’Ospedale Mauriziano, quello degli Incurabili, l’Opera Pia Pellizzari e le fortificazioni demolite verso il Po. Il monarca tornerà nel 1847 per porre la prima pietra del Pont d’fer, realizzato in pietra e laterizio e ultimato nel 1850, sarà a uso esclusivo ferroviario fino al 1887.
Nel febbraio del 1848, quando il “Re Tentenna” Carlo Alberto preannuncia la Costituzione (Statuto), l’entusiasmo dei valenzani è forte: le persone scendono in strada con le coccarde tricolori, suonano le campane, cantano e festeggiano e una delegazione composta dal sindaco Menada e dai consiglieri Cassolo e Compiano si reca a Torino per la festa nazionale. Durante i festeggiamenti di Valenza per lo Statuto, giunge la notizia dell’insurrezione di Milano con la cacciata degli austriaci. Prontamente, toccando vette quasi surreali, il 30 marzo 1848, il Consiglio comunale costituisce una rappresentanza che andrà a esprimere la solidarietà della città al governo provvisorio di Milano insorta. La delegazione è composta dal sindaco Gerolamo Menada come guardia d’onore, dai consiglieri Alessandro Cassolo, dal conte Lorenzo De Cardenas e dall’avvocato Alessandro Scapitta, un gruppetto di fedeli allenati nella fucina valenzana di agitati costituzionalisti piuttosto ribelli. Queste vicende s’intrecciano con la rivoluzione più estesa che fa barcollare mezza Europa, il Quarantotto, e con la Prima Guerra d’Indipendenza che il Piemonte combatte e perde contro l’Austria.
Mentre infuria la tempesta, senza un criterio logico, localmente viene organizzato un corpo di volontari da mandare in Lombardia, che entra a Pavia salutato dal grido “Viva i valenzani”. La squadra è comandata da Giuseppe De Cardenas, dal sottocomandante Venanzio Marchese e dal sergente Agostino Galeazzo, pronti alla beatificazione. I militi sono i seguenti: Aloetti, Angeleri, Baiardi, Baiardino, Battaglieri, Bisone, Ferrari-Trecate, Gambero, Garberoglio, Gervaso, Maggi, Marchese, Merlani, Odino, Piazza, Poggio, Porta, Raselli, Repossi, Reverdy e Scorcione. Ma in questi anni la massa valenzana, che già ne ha viste di tutti i colori, è quasi incapace di comprendere ciò che sta accadendo.
Dopo la sconfitta di Custoza del 25/07/1848, Valenza accoglie i feriti, gli sbandati e gli infermi nel complesso degradato di San Francesco, dove oggi c’è piazza Verdi, mentre i feriti gravi sono ricoverati all’Ospedale Mauriziano in via Pellizzari. Reduce dalla disfatta di Custoza e dalla caduta di Milano, il 12/08/1848 re Carlo Alberto sosta a Valenza. L’accoglienza è calorosa, al contrario di ciò che ha lasciato nella patriottica e ora abbandonata Milano. Solo un deluso gruppo locale del Partito democratico si scaglia contro i generali che hanno condotto la guerra. Più che una guerra d’indipendenza, però, è apparso come un conflitto tra dinastie di sapore settecentesco, con troppi morti e un re piemontese un po’ fuori di testa, indeciso e preoccupato solo che Milano non si proclamasse repubblica e che la guerra non diventasse una rivoluzione.
Al termine delle ostilità, dopo la sconfitta di Novara del marzo del 1849 e l’abdicazione di Carlo Alberto in favore del figlio Vittorio Emanuele II, tra noncuranza e disordine, Valenza conosce nuovamente l’occupazione austriaca, in tutta la sua durezza, fino al mese di agosto del 1849, con un processo ineluttabile di degradazione di alcuni valori patriottici. È la fase più critica della storia risorgimentale valenzana.
I democratici locali, che vorrebbero cambiare tutto, credono di essere forti in mezzo al popolo, senza capire che i contadini hanno i due soliti idoli: il papa e il re. La locale destra reazionaria e clericale, che non vorrebbe cambiare nulla tranne abolire lo Statuto, fantastica il ritorno all’assolutismo o, in alternativa, il suffragio universale; per soli uomini, però, perché è impensabile che le donne votino. Nei prossimi anni l’estrema sinistra valenzana resterà repubblicana, pervasa di protosocialismo e di libero pensiero, arrendevole a metodi cospirativi e sovversivi; sembra essersi fermata alla prima fase della Rivoluzione Francese.
L’impianto elettorale dell’epoca porta al voto solo il 2% della popolazione residente, cosa che oggi ci stupirebbe. Contrariamente, il Senato del Regno non è elettivo, ma i suoi membri sono nominati dal re. Il valenzano De Cardenas conte Lorenzo, sgradito e conteso al tempo stesso, viene nominato senatore il 04/04/1848 e resterà fino alla morte, nel 1863. Il Consiglio comunale, invece, viene votato da elettori tra i maggiori contribuenti e dai cittadini più sapienti. Il sindaco è scelto dal re tra gli eletti. I primi cittadini che si sono avvicendati nel corso del tempo sono i seguenti: Gerolamo Menada, 1848; Alessandro Cassolo, 1848; Giovanni Terraggio, 1849; Alessandro Cassolo, 1850; Angelo Foresti, 1858; Pietro Paolo Camasio, 1860; Felice Cassolo, 1867.
Nel 1848 nel collegio elettorale di Valenza, costituito da circa 400 elettori, viene eletto deputato Bartolomeo Campora; nel 1849 Giacomo Pera; nel 1850, nel 1853 e nel 1857 Maurizio Farina; nel 1860 e nel 1861 Pier Carlo Boggio. Pur conculcando diritti e reprimendo dissensi, il Regno sabaudo è l’unico stato italiano che abbia un’autentica libertà di stampa: nel 1858-1859 a Valenza si stampa Bollente e Po, giornale settimanale letterario, agricola, industriale, ecc. dell’Alto Monferrato e Lomellina.
Valenza, che ha circa ottomila abitanti, vive con apprensione lo scenario del futuro, sa di aver sempre percorso una china pericolosa indipendentemente dalla sua volontà, di essere stata trasfigurata di continuo poiché coinvolta da secoli nella spartizione dei confini a causa della sua collocazione geografica. Il fiume è stato il suo vero riparo, il suo soffio vitale, un guscio che l’ha protetta sovente.
Negli anni 1853-1855 la città è in mano a una coalizione non molto entusiasta del governo anticlericale piemontese guidato da Cavour. Le due opposizioni più estreme sono la repubblicana a sinistra e la clericale a destra. Nel rondò moderato clericale, che ruota attorno a quell’ape regina che è il sindaco Alessandro Cassolo, capo dell’Amministrazione comunale e funzionario di Stato che, per quanto screditati, alcuni provvedimenti utili li ha presi, volteggiano il giudice Stanislao Annovazzi, un perfetto reazionario, il parroco Domenico Rossi, un esponente del clero liberale lungimirante difensore di principi etico-morali, il direttore dell’Ospedale Mauriziano Luigi Sassi, quello degli Incurabili Alessandro Pastore e l’avvocato Francesco Cagni, tutti permalosi e solo parzialmente seguaci del centro-sinistra di Rattazzi. Altri importanti e ondivaghi personaggi politici locali, per ora collocati nella sinistra democratica moderata, quasi un centrodestra, caratterizzati da una forte spinta ideale e indomito fervore politico di potere, ma che, come i generali, parlano con i punti esclamativi sono i seguenti: il conte Girolamo De Cardenas, il medico Felice Bocca, il consigliere Stefano Pastore e il segretario comunale avvocato Luigi Quaglia.
Valenza invia un attestato di patria benemerenza ai prodi soldati che combattono in Crimea contro la Russia (1855-1856), una dura campagna di guerra voluta dal primo ministro conte di Cavour per ottenere le grazie franco-inglesi e per potersi sedere a pieno titolo al tavolo della pace di Parigi. Questa guerra, che avrà conseguenze decisive, benché indirette, sul Risorgimento italiano, vede coinvolto un corpo di spedizione piemontese di 18.000 uomini, tra cui diversi valenzani, falcidiati più dal colera che dai fucili russi. Nella guerra di Crimea cadono i valenzani Gerolamo Chiesa, Gaspare Cavallero e Carlo Antonio Giordano.
La Seconda Guerra d’Indipendenza (29/04/1859-11/07/1859) inizia da queste parti, sul pont d’fer. Valenza è una delle linee strategiche difensive del Piemonte, la frontiera di guerra. Vengono costruite difese a protezione del ponte ferroviario, mentre il ponte stradale di barche, collocato nell’attuale regione Vecchio Porto, è difeso da pezzi di artiglieria. Tutta la riva destra del Po è occupata da 35mila soldati piemontesi, fronteggiati, sul lato sinistro, da circa 100mila austriaci, che tentano invano di passare il fiume. Gran parte della popolazione ha lasciato la città e si è accampata al di fuori delle mura. Gli edifici sono stati trasformati in caserme e le chiese in stalle e magazzini. Per fronteggiare il nemico, in attesa delle truppe francesi, sono dislocate in città la 16ª e la 18ª batteria di truppe sarde e il 12° reggimento fanteria Brigata Casale, mentre più a monte c’è l’8° reggimento bersaglieri.
Il 4 maggio 1859 gli austriaci bombardano la città con batterie piazzate sul ponte ferroviario del Po. I nostri bersaglieri e i nostri artiglieri contrattaccano e riprendono il ponte, scacciando gli austriaci che, prima di allontanarsi, rompono le porte, le finestre e i solai dei due casotti che si trovano all’estremità del ponte e fanno esplodere un pilone e le due arcate; in questa occasione perdono la vita il capitano d’artiglieria Roberto Roberti, colpito in fronte da un cecchino, e il caporale Albini. Seguono altri danneggiamenti a boschi, prati, al ponte di barche e ai mulini sul fiume. Il 15 maggio 1859 Napoleone III arriva a Valenza, dove si trova la Divisione del generale Bourbaki. Il quartier generale piemontese con Vittorio Emanuele II è a San Salvatore in villa Pona, in attesa dell’esercito francese, e poi, dall’11 maggio, a Occimiano.
Nel periodo che segue, questa guerra fatta di sangue e di bugie si allontana dalla zona e gli austriaci sono sconfitti a Magenta e a Solferino. Ma le speranze di Vittorio Emanuele II e del conte Benso di cacciare definitivamente gli austriaci dall’Italia sono vanificate dall’alleato Napoleone III, che, con trasformismo furbesco, pone uno stop ai combattimenti. Con l’armistizio di Villafranca del 12 giugno 1859 l’Austria cede ai piemontesi solo la Lombardia e conserva il Veneto: un sogno che si stava per realizzare svanisce con una velocità singolare.
da “Illustrated Times” – June 11, 1859, traduzione
Valenza è una piccola città circa a 7 miglia a nord di Alessandria con una popolazione di circa 9000 abitanti. E circondata da mura attraversate da 4 porte ed è particolarmente importante per la manifattura di tessuti di lana, pellami e saponi. Il territorio circostante è molto produttivo ed i suoi immediati dintorni hanno consentito agli eserciti alleati l’approvvigionamento di grandi quantità di foraggio e grano. La città è ben tracciata, è pulita e salubre, ma la periferia è costituita unicamente da baracche intersecate da fossati che ricevono i liquami fognari della città. La cosa è stata proficuamente sfruttata dai contadini che li usano per concimare i campi. Gran parte della popolazione ha lasciato la città e si è accampata al di fuori delle mura con le cose di maggior valore “evidentemente perché pensano” dichiara il nostro corrispondente, “che gli austriaci, attestati sull’altra sponda del Po, siano sul punto di attaccare la città. Tutti gli edifici pubblici sono trasformati in caserme e le Chiese in stalle e magazzini. Per un certo tratto lungo gli argini del fiume, ai due lati del ponte della ferrovia per Mortara, vengono attuate continue imboscate da parte dei francesi, che sostengono un continuo fuoco di fucileria contro il nemico appostato dall’altro lato del fiume”.
Valenza è, o era fino a poco fa, il Quartier Generale della Divisione del Generale Renaud, composta quasi interamente da uomini che erano stati straordinari combattenti in Algeria.
Nella feroce battaglia di San Martino (Solferino) cadono i valenzani Massimo Barbero, Pietro Ferraris, il capitano Luigi Mario, Giuseppe Annaratone, Luigi Garavelli e Giovanni Baudagni. In quella di Magenta Giovanni Cavalli e a Palestro Giovanni Francesco Beccaria. Questi uomini hanno offerto se stessi per la patria e per la libertà, un martirio che merita onore, che è un valore assoluto.
L’unificazione d’Italia, sotto la dinastia dei Savoia, viene raggiunta un anno dopo con l’impresa garibaldina dei Mille (ben presto invitati a togliere il disturbo, un aspetto singolare e quasi grottesco, davvero un bel riconoscimento) nel meridione, contro un re bigotto, Ferdinando II, di uno stato arretrato che ha una burocrazia corrotta e negligente, nell’occasione mollato dagli inglesi. È un’annessione frettolosa che, in modo paradossale, alimenterà rivolte e brigantaggio, regalandoci un revanscismo antirisorgimentale con un lamento permanente e la meridionalizzazione dell’apparato statale italiano negli anni a venire.
Nelle file garibaldine hanno militato il diciassettenne valenzano Giuseppe Camasio e il ventunenne Angelo Clerici. Ottengono la medaglia d’argento al valor militare risorgimentale i seguenti valenzani: Gaspare Menada, il luogotenente Persighini, Massimo Giovanni Bonzano, Giovanni Ferraris, Stefano Lingua, Giuseppe Zeme e Carlo Calvi.
Il nostro Risorgimento si conclude nel 1866 con la Terza Guerra d’Indipendenza, in cui, pur avendo fatto una magra figura a Custoza e a Lissa, la vittoria dei prussiani sugli austriaci ci permette di ottenere il Veneto a indennizzo. Il deputato di Valenza Pier Carlo Boggio, ufficiale della Guardia Nazionale, e il caporale valenzano Carlo Bonzano cadono gloriosamente durante la famosa battaglia navale di Lissa. I valenzani Carlo Cavallero, Giuseppe Mazza e Filippo Torra ottengono la medaglia d’argento al valor militare per la campagna del 1866.
Se sul percorso del passionale ma gentiluomo Vittorio Emanuele II, dell’ardimentoso Garibaldi, che desiderava un’autocrazia monarchica o fare il dittatore, o del demonio opportunista Gran Conte Cavour, che comprendeva solo le logiche di proprietà per lui sacre, fosse apparso qualche funambolo d’oggi, non ci sarebbe stata l’Unità d’Italia. Nessuno di loro, incluso Mazzini, aveva la minima inclinazione sociale. Oltre a fare l’Italia, qualcuno ha saputo badare bene anche agli affari propri e ben presto il patriottismo risorgimentale, che non era solo esaltazione e subordinazione, sarà snaturato dalla retorica sabauda.