Lumen Christi
“Jesus, don’t want me for a sunbeam.
Sunbeams are not made like me.
Don’t expect me to cry
for all the reasons you had to die.
Don’t ever ask your love of me”
– Kurt Cobain
“Cum solis lumina cumque
inserti fundunt radii per opaca domorum:
multa minuta modis multis per inane videbis
corpora misceri radiorum lumine in ipso
et velut aeterno certamine proelia pugnas
edere turmatim certantia”
– Tito Lucrezio Caro
Non riesce più a rintracciare la giusta dose di entusiasmo dentro di sé, poco da farci. Nel senso letterale del termine: ἐv + Θεόϛ, il Dio dentro, il Dio interiore, quello spiraglio di luce immateriale – non costituita da fotoni, bensì da puro, limpidissimo spirito – che si riveli capace di confortare e sorreggere l’animo del fedele, specie nei momenti di più pressante titubanza. E che viva un tale tentennamento il capofila dei devoti o che lo covi dentro il proprio petto l’ultimo dei reietti, nel lungo allineamento che conduce l’assemblea dei credenti sino al cospetto del loro Signore, in questi casi non riveste alcuna differenza.
La cittadella cattolica a quest’ora è buia: quella che pomposamente chiamano Città-stato, ma che è appena un minuscolo sobborgo scampato a suo tempo alla furia anticlericale del Garibaldi. Attraverso l’intelaiatura dell’ampio finestrone al centro della parete est se ne intravedono le forme stondate e svettanti che si inseguono nella pancia della notte, riaffermando la geometria sontuosa divisata e fatta eseguire dalle migliori menti di epoche lontane in cui si era creduto che l’umano fosse il centro del creato, prezzolate dai suoi lontani predecessori con una pioggia di pezzi d’argento ricavati da intrighi, battaglie sanguinarie, saccheggi in terre bollate quali nemiche del culto, blasfeme, eretiche. Tutti dormono, o almeno fingono di farlo, nella cittadella che sorge su un colle di Roma dove, già prima dell’avvento di Cristo, pagani etruschi e romani profetizzavano alle genti le sorti a venire. Mentre per lui, vicario secolare dell’onnipotenza che trascende gli spazi illimitati e che governa enti visibili ed invisibili, non è stata prevista alcun genere di preveggenza, né alcun altro tipo di facoltà soprannaturale. Non sa guarire gli infermi con il tocco delle sue dita ormai tremule, non sente voci né vede fenomeni superiori alla banale natura delle cose, non riconosce il santo dal peccatore a colpo d’occhio.
Per giunta, non gli è dato maneggiare neppure quel tanto di potere per decidere della rotta che ha da prendere l’immane imbarcazione petrina: quella gigantesca costruzione, di beni materiali e di credule folle, che gli hanno assestato sopra le spalle spioventi, quasi si trattasse del mitico Atlante. Si limita ad accondiscendere bonariamente alle scelte altrui, prese da alti prelati e cortigiani, più per timidezza, e per un’incapacità a ribellarsi intrinseca alla sua più intima natura, che per reale consenso. Oltre alla totale mancanza di abilità sovrumane, come di quelle di ordine più semplicemente politico e amministrativo, addirittura le forze fisiche più comuni gli vengono sottratte dall’incalzante avanzamento della senilità. Nulla in più ha ricevuto da quell’investitura, nulla in più gli è cambiato da quando gli infilarono quell’Anello del Pescatore che ora va rigirandosi nervosamente intorno all’anulare come se il metallo gli stesse arroventando le carni. Nulla in più, ma qualcosa in meno…
Tutti dormono, tranne lui, che si aggira a fatica, forzando le vecchie articolazioni e i loro reumi, per gli unici appartamenti che gli è stato concesso di percorrere a quell’ora tarda, proprio a lui che è re e simulacro del Dio rivelato, e che pure deve sottostare alle garbate imposizioni di un codazzo di sicofanti e ossequianti manovratori. Ha da poco comunicato Urbi et orbi la propria irrevocabile decisione di scrollarsi di dosso la gravità della veste pontificia, ma questo non gli ha alleggerito l’anima come confidava quando ancora andava ponderando le conseguenze di una tale deliberazione; anzi, la pena sembra essersi fatta ancor più sottile e ficcante. “Redde signum, Domine mii! Redde signum!”, non fa che masticare tra sé, a mezza bocca, fissando quel vasto nulla che si estende fuori dalla finestra, oltre le vetrate tirate a lucido, al di là dell’atmosfera terrestre, nella disperata parodia dello spiritista che, con tono diaframmatico, invochi: “Se qualche spirito è in ascolto, batta un colpo!” Ma anche questa volta quel fantasma oscuro e infinito, che deve ribollire oltre le spesse coltri celesti, tace.
Accarezza, con la punta dei polpastrelli, il liscio dorso dello scrittoio, scostando con una punta di raccapriccio i fogli sparsi della sua ultima enciclica De Fide che vi giacciono a ridosso: rimarrà un’opera incompiuta. L’aveva arrestata a quella frase vergata in fretta, e con egual fretta cancellata con un segno spesso: “Nihil est, nisi supplicium vacuumque” Ha intenzione di incenerire l’intera pergamena prima di abbandonare il palazzo per sempre.
Ha cercato sin dall’inizio di spostare l’interesse dei propri seguaci verso un afflato divino che vedeva ormai da troppo tempo disatteso. Ma serve un’energia titanica per quel genere di imprese che lui non ha, che non ha mai avuto, ma che era certo di poter rintracciare nell’ausilio che necessariamente Domineddio non gli avrebbe fatto mancare. Sebbene, a conti fatti, quell’aiuto tanto richiesto non era mai venuto, non verrà mai, confessa a se stesso, scuotendo sconsolato il piccolo capo incanutito, mentre osserva distrattamente le iridescenti losanghe di marmo bardiglio su cui posa le soffici pantofole porporine.
Vanitas vanitatum et omnia vanitas! Il pessimismo del libro dell’Ecclesiaste non fallisce mai. Quel che muove le turbe, quel che davvero convince all’azione la comunità umana, che essa professi o meno una propria confessione di fede, resta il corpo. Questa prigione verminosa, entro cui il soffio di Dio agonizza invano, al pari di un ergastolano privo di mezzi di riscossione. Il giorno in cui lo elessero, avvertì nel proprio cuore, ma ancor prima nel centro del suo apparato razionale, che l’assistenza di quello stesso Santo Spirito che aveva supportato gli eserciti, che aveva fatto crescere il Salvatore in seno a una vergine e che, da ultimo, aveva segretamente provveduto a fargli conferire quella carica, avrebbe reso i suoi progetti infallibili. Così non fu mai. Per quanto abbia tentato di convincere quel gregge di lupi camuffati da pecorelle a più miti consigli, gli uomini hanno proseguito nella loro storia, lastricata di vizi e vergogne senza pentimento. E allora a che vale? Sembra anzi che ci provino un particolare gusto a smarrire la strada del saggio segnata a dito da Salomone per inventarsi mille nuovi modi di peccare e insultare i precetti ecclesiali, sotto i suoi piccoli occhi, sempre più sgranati da una desolata stupefazione.
Non c’è neanche nulla di diabolico in tutto questo, nulla di grandioso nella sua malignità. È semplice quotidianità. Piccineria animale. L’uomo che, alla stregua di qualunque altra bestia razzoli per la creazione, conduce i propri giorni all’insegna di un’angusta sopravvivenza. Senza bisogno di alcunché di esterno e superiore alla propria esistenza. Sono perfettamente appagati da se stessi, come un pugno di girini lì a sguazzare in una pozzanghera torbida e melmosa. Non è loro sufficiente sfiorare la mano del proprio assistente, come per caso, contentandosi di quell’unico sfuggente contatto per poi serbarlo come un momento prezioso nel profondo dell’animo.
Non gli basta godere di un pasto frugale né racimolare il giusto per vivere sereni, loro e i loro cari. No, sono una massa vorace, ingorda. Vogliono tutto. Devono continuare a nutrire quei loro corpi insaziabili, sino allo scoppio. Le loro seti sono incolmabili. Non si dissetano nel sorseggiare appena dal calice transustanziato che riceve il sangue che il Messia versò in remissione dei loro peccati. Ma poi del resto, a che sarai mai servito che si immolasse, se dopo quel sacrificio il già gonfio catalogo delle mondane meschinità, lungi dall’esserne emendato, si è rimpolpato ulteriormente, si è ispessito, si è fatto enciclopedico. E del resto Colui a cui questi figli dispersi dovrebbero anelare non si fa sentire, non si fa scorgere, non dà segni né presagi, nemmeno a lui, che a rigor di logica dovrebbe essere il prescelto. E invece è solo! Così si sente, ancor più di tutti gli altri. Abbandonato! Gettato sulla nuda terra a cercare un filo di luce, come un cieco verme che speri di incontrare a tentoni il tepore trasmesso da un raggio di sole.
Nella Cina imperiale si riteneva che l’universo mondo fosse sorretto da un colossale elefante, che a sua volta poggiava le proprie zampe sopra il carapace di una tartaruga. E sin qui tutto bene. Ma alla fine, su chi si appoggia il sottostante rettile? Senza fondamenta tutto crolla, frana, patatracca tristemente. E allora – si era chiesto in una giornata più cogitabonda di altre – a che serve perseverare, con una tiara d’oro calzata sopra le orecchie, folle ploranti davanti a sé le cui preghiere resteranno inesaudite, torciglioni barocchi dattorno, gli insulti e gli sberleffi da parte di un neo-paganesimo che lo prende a facile mira? A che serve continuare quando ormai ogni cerimonia, ogni popoloso raduno, ogni plauso ufficiale si tingono di farsa? A che serve credere? Com’è possibile credere ancora?
“Redde signum!”, mormora ancora una volta, nel chiuso della stanzetta; ma niente. Vox clamantis in deserto.
“Redde signum!”, ripete, stavolta a voce sufficientemente alta da provocare un piccolo rimbombo contro le mura arcuate dello studiolo, tanto che, già pentito, con le mani corre a coprirsi la bocca, nel timore che lo abbiano udito, che entro breve spunti da dietro la porta d’ingresso la testolina di una suora a rimproverarlo per le ore che toglie al riposo. Ma non è qualcosa che sopraggiunga dal corridoio a catturare la sua attenzione: proprio in quel momento, infatti, il segno, in cui ormai disperava, giunge! Un cono di luce penetra con violenza attraverso la finestra, inondando la stanza e rischiarandola a giorno.
Non c’è nessuno a poterne osservare i tratti in quell’attimo di completo rapimento, altrimenti vedrebbe su quel minuto volto smagrito la stessa identica espressione che si era dipinta sul faccino del giovane Joseph quando, in piena estasi, era stato accompagnato per la prima volta dal padre di fronte al tabernacolo dell’altare maggiore, interno alla cattedrale di Colonia, e, una volta posto in faccia all’ostensorio d’oro lavorato a formare un circuito di saette centrifughe che circondavano la fragranza del Corpus Christi, tra cantilene e turiboli fumiganti era stato colto dal senso di vertigine che si prova nell’arrendersi ad un ente, la cui persuasività surclassi ogni ragionevole dubbio.
Gli occhi lucidi e spalancati, la bocca dischiusa in un sorriso incontenibile, le braccia aperte a crocefisso, o in attesa di un abbraccio. Disprezza se stesso per aver dubitato. A piccoli passi si dispone davanti al quadro della finestra, mentre la luce che lo investe è talmente potente da renderlo cieco, da sfumare i contorni della sua figura dentro una bianchezza squillante e purissima. Tutto tace. Tutto è fermo. Giusto un lieve ronzio metallico raggiunge le sue piccole orecchie. Apre i battenti della finestra. Avanza sul ristretto ballatoio, senza neanche accorgersi dell’aria frizzante di quelle giornate nevose, così rare nella capitale dei cesari e dei papi, che gioca coi suoi candidi ricci, che stropiccia la sua sottoveste di seta.
“Totus tuus, Domine!”, strilla con tutti i polmoni che gli rimangono, ormai totalmente avvolto dall’abbagliante radiazione.
Ma ciò che egli presume essere l’emanazione luminosa del Signore, è invece un raggio traente, emesso da un mezzo aeromobile per trasporto intercosmico in funzione super-stealth, non radarizzabile né distinguibile a occhio nudo, che in quel mentre sta galleggiano a mezz’aria proprio davanti al finestrone centrale della sua stanzetta. Gli occhi gli si chiudono sopra le pupille offese. Il cuore sembra cessare di battere. Le gambe si piegano. I sensi lo abbandonano tutti insieme. Eppure… non cede al pavimento, ma inizia a fluttuare, risucchiato verso il punto d’origine di quel fascio di luce.
Quando riapre gli occhi è madido di sudore. La veste da camera gli si è agglutinata addosso come una seconda pelle. Si risveglia in una scomoda posizione orizzontale, costretto su un pianale da delle barre costruite in un materiale elastico e appiccicoso. Prova a guardarsi intorno, ma l’intensità della luce puntatagli in faccia gli impedisce di rendersi conto di dove si trovi, anche se stavolta la fonte di essa è il fac-simile di una lampada da camera operatoria, dentro cui brillano tre potenti fari alogeni messi a triangolo. Finalmente una forma di vita intercetta il suo campo visivo, sorgendo dal basso e interponendosi tra lui e i faretti.
All’inizio non ne vede che la forma del cranio, tanto sproporzionata e svasata verso la sommità che sulle prime ha l’impressione di trovarsi di fronte il cardinal Bertone. Ma lo spavento passa subito, non appena la figura si avvicina ancora un po’, mostrandosi in tutta la sua eccentricità: la testa dell’interlocutore si presenta come una sorta di enorme pera rivoltata, bucata da un paio di fessure albuginee che ne dovrebbero costituire l’apparato visivo, mentre al suo apice quella specie di cranio si apre, lasciando emergere quello che ha tutto l’aspetto di un grosso cervello, rosa e palpitante.
Lui, steso sul tavolo, cerca di allungare il collo per vederlo meglio. È esterrefatto. Non appena riesce a recuperare l’uso della parola, gli domanda, a fil di voce: “Tune angelus es?”.
L’essere vivente, che lo sta osservando a sua volta, a sentire un tale quesito, emette uno squittio acuto e prolungato, che dà l’idea di valere come una risatina. Siccome è sprovvisto di organi di fonazione, comunica all’ospite per via diretta, attraverso le onde cerebrali.
, è la risposta che il Santo Padre si sente risuonare, ben scandita, in testa.
L’uomo, il Prescelto, attaccato al pianale, sente che sta ricominciando a trasudare copiosamente.
riprende a comunicargli il malaakiano per mezzo dei propri poteri psionici, “Vogliamo sincerarci di quale sia la causa organica che permette a un solo, piccolo uomo di dirigere e convincere masse intere verso argomentazioni e comportamenti onestamente irrazionali, ma supinamente benaccetti. In altre parole, il traguardo che si è prefissa la scelta equipe malaakiana che la circonda, e che io ho l’onore di capeggiare, è quello di scoprire in corpore vili in cosa precisamente consista ciò che voi terrestri definite carisma, onde poi, una volta appuratolo, riprodurne la ghiandola o l’organo periferico che lo secerne in un apposito laboratorio e istallarlo di conseguenza nel rappresentante del nostro popolo che invieremo come vostro nuovo leader. Da quel poco che sappiamo dai nostri studi, presumiamo che la ghiandola del carisma si nasconda nell’apparato genitale, atteso che quasi tutte le funzioni, le diverse forme di relazione e le motivazioni che spingono il genere umano, da noi lungamente osservate, sono generalmente riconducibili a quella circoscritta zona fisica” >
Quella frase non ha ancora finito di riecheggiare nella sua testa, che già un secondo alieno gli si avvicina, reggendo tra le tre lunghe dita della mano uno strumento dall’aspetto minaccioso, composto da un sottile manico e da un seghetto circolare che di lì a breve entra in funzione.
Con le poche forze rimaste, il pover’uomo tenta di divincolarsi. Urla qualcosa come: “Pietas! Pietas!” Agita le spalle contro le barre che le trattengono. Scalcia. Infine non può che arrendersi.
, fa ancora in tempo a informarlo il capo-equipe telepate, prima che il collega metta all’opera il proprio strumento, coprendo ogni altro rumore o voce con lo stridio della rotazione metallica,
*Racconto scritto intorno al 2013 per un’antologia della casa ed. Gorilla Sapiens