L’industria calzaturiera a Valenza
Un nuovo approfondimento sulla storia della città del gioiello
VALENZA – A Valenza, a fine Ottocento, l’importante industria delle tomaie giunte, ausiliaria a quella della calzatura, si affianca all’affermata industria orafa e alla degradata industria della filanda. I primi rischiosi passi li compie nel 1890 il tomaificio Giovanni Biglieri, seguito da Bonafede e Ceva nel 1893; queste attività impegnano una ventina di signorine, ma, ben presto, con il progredire della meccanizzazione, si svilupperà anche una certa produzione di calzature che entrerà in concorrenza con i noti produttori di Vigevano e Varese.
All’inizio del Novecento il tomaificio-calzaturificio Bonafede-Ceva, sotto l’insegna “La Valletta”, conta un centinaio di operai a Valenza e una trentina nella filiale di Bassignana, mentre la Manifattura Calzature Giunte Ballario e Mantelli, fondata nel 1899, con il marchio “La Stella”, ha una sessantina di operai.
Nel 1911 a Valenza ci sono ben 15 tomaifici, dove abili tagliatori e capaci orlatrici preparano tomaie per importanti calzaturifici del paese: Ballario e Mantelli (63 occupati), Bonafede Massimo (44 occupati), Cellerino Edoardo (10 occupati), Ceva Salvatore (23 occupati) Ferrario Pasquale (8 occupati), Illario e Ricci (45 occupati), Marchese Ernesto (10 occupati), Marchese Giacomo (19 occupati), Mensi Carlo (7 occupati), Montanara Francesco (19 occupati), Pavese Ettore (27 occupati), F.lli Ponzone (30 occupati). Provera Lorenzo (10 occupati), Società Anonima Cooperativa (61 occupati). Il calzaturificio Melgara e C. ha 38 lavoratori.
Durante la Grande Guerra, grazie alle commesse militari, la produzione e i profitti dell’attività calzaturiera crescono sensibilmente: nascono due nuove industrie produttrici di scarpe e le due precedenti devono allargare gli impianti, che vanno a sommarsi a quelli delle aziende che producono le tomaie giunte. Queste fabbriche sono in grado di accogliere una numerosa manodopera femminile non specializzata e di renderla produttiva in tempi brevi, sostituendo gli uomini chiamati al fronte con facilità.
Nel maggio del 1917, quando si produce un inasprimento dei rapporti tra i lavoratori e i datori di lavoro valenzani, la prima categoria coinvolta è quella dei lavoratori delle calzature, i più frustrati.
Terminato il conflitto, la produzione orafa conosce un super boom, ma lo sviluppo dell’industria locale della calzatura non è da meno. Dopo la grande produzione bellica che ha permesso a questa industria di prosperare anche in tempi di guerra, nel 1921, a conferma della buona salute del comparto, i tomaifici e i calzaturifici iscritti al registro aziende sono ben 19 e gli occupati nel settore circa 700. Nelle tomaie giunte spiccano le aziende Baggio Gennaro, Ghiglione Paolo, Ballario e Mantelli, Carnevale e Guidetti, Felice Chiesa & C., Fr. Cravera e la Società Anonima Cooperativa. Due anni dopo, nel 1923, il numero dei tomaifici e dei calzaturifici è cresciuto considerevolmente, fino a quasi una trentina di aziende in concorrenza tra di loro.
Nella statistica industriale del 1925, a Valenza risultano 14 tomaifici con 202 addetti e 9 calzaturifici con 516 addetti.
Nel 1927 Virginio Protto entra nella Mantelli & Gota e questa diventa la ditta pantofoleria La Stella che crescerà enormemente fino a occupare 120 lavoratori. Nel 1933 nasce un’altra azienda che avrà un longevo avvenire, il Calzaturificio Attica dei fratelli Re, Vittorio e Oreste – nel 1926, agli inizi, era Motta & Re – che nel 1936 occupa 155 operai. Gli stipendi degli operai calzaturieri oscillano tra le 2 e le 4 lire all’ora – 10 lire del 1933 corrispondono a circa 11 euro di oggi. Tre quarti del personale impiegato nei vari laboratori è costituito da donne, ma ci sono anche molti cottimisti che lavorano al proprio desco, a casa, con moglie e figli. Nelle aziende le donne possono svolgere quasi tutti i tipi di lavoro, dal finissaggio all’inscatolamento, dall’orlatura all’incollatura, è escluso soltanto il ruolo di tagliatore delle tomaie, riservato di solito all’uomo.
Grazie all’impiego di scarpe sempre più comode e pratiche – per le donne diverse a seconda del bisogno e dell’occasione – l’industria locale della calzatura, quasi interamente collaborazionista con il regime, non cala e, nel periodo 1931-1935, le cose vanno ancora meglio, grazie alle commesse militari per la preparazione della guerra d’Etiopia. Varie imprese riescono a estendersi su nuovi mercati, così Valenza, grazie all’introduzione di nuove tecnologie e al sapiente utilizzo di materiali innovativi, diventa un centro all’avanguardia nella produzione calzaturiera, con articoli di alta qualità e ricavi consistenti. Detto in altre parole, diversi operai scappano dall’oro verso le scarpe.
La ditta Lenti Carlo (La Dominante) è la prima a produrre in Italia la scarpa di gomma vulcanizzata, occupando sino alla seconda guerra mondiale il primo posto in questo campo nel mercato nazionale, e pare che abbia avuto alle dipendenze più di 300 lavoratori. I sandali della Ettore Pavesi sono espressioni produttive di altissima qualità, che stanno al vertice della valutazione e della considerazione nazionale ed estera. Altra produzione sviluppatasi con successo è la pantofola di lusso prodotta dalla ditta “La Stella” e quella delle calzature per donna della F.lli Re.
Dunque nel periodo fascista l’industria della calzatura, che divide quasi tutta l’economia e l’occupazione locale con l’oreficeria, non subisce alcun rallentamento; al contrario, conosce un nuovo periodo di fortuna grazie alle fornitura dell’esercito.
Con l’importazione delle macchine per l’elaborazione del fondo, la lavorazione meccanica della calzatura prende ancor più vigore.
Durante la seconda guerra mondiale, sempre grazie alle commesse militari, l’industria calzaturiera continua a essere dinamica. In queste industrie, come in molte altre del paese al servizio dell’esercito, molti giovani lavoratori chiedono di lavorare per scansare la chiamata alle armi con l’esonero “necessarie per il lavoro”.
Anche dopo il conflitto il numero delle fabbriche, piccole e grandi, aumenta considerevolmente, tanto da occupare alcune migliaia di lavoratori provenienti da tutta la zona. Per diversi anni la produzione valenzana, soprattutto quella femminile, permeata di tradizioni e competenza, ha ampio successo in tutto il paese.
Nei primi anni del secondo dopoguerra, a Valenza ci sono circa 1.500 lavoratori iscritti al sindacato, appartenenti per la maggior parte alla categoria dei calzaturieri. Nel maggio del 1946, all’elezione della commissione interna della Lega CGIL valenzana per le calzature, Aldo Emanuelli è il più votato, così diventa segretario della Lega; altri eletti sono Ferraris, Amisano, Colombo, Balossino, Visconti, Pulcrano e Merlani.
Pur in assenza di difficoltà occupazionali, tra il settembre e il dicembre del 1946 i calzaturieri valenzani sostengono una serie di scioperi per avere aumenti salariali e miglioramenti delle condizioni di lavoro. È decisivo il sostegno fornito dal sindacato locale, capace di coinvolgere la quasi totalità dei lavoratori nell’agitazione.
All’inizio degli anni Cinquanta, i laboratori e le fabbriche di calzature sono un centinaio, con due depositi di concerie. La maggior consistenza occupazionale è così distribuita: 3 aziende con più di 100 occupati ognuna, 6 aziende con un numero di occupati tra 50 e 100 e 12 aziende da 20 a 50 occupati. Si manifesta in poco tempo una discontinuità nell’attività produttiva, in alcune ditte si lavora ormai per soli 8-9 mesi l’anno. Due grosse aziende calzaturiere locali cessano quasi del tutto la loro attività: la ditta Annaratone e Porta che occupava circa 100 operai e la ditta Di Mauro che licenzia ben 110 lavoratori.
Nel maggio del 1957 è posata la prima pietra della Casa del Popolo, poi denominata Circolo Culturale Ricreativo Valentia o solamente Valentia, denominazione che ricorda quella della fabbrica calzaturiera situata nella struttura precedentemente.
Mentre l’oreficeria continua a espandersi, i calzaturieri risentono ormai di una certa crisi occupazionale. Il settore ha perso in questi anni molti lavoratori. Nel luglio del 1959, dopo alcuni scioperi, si concludono le trattative per il rinnovo del contratto di lavoro. Le aziende iscritte nel settore, che comprende anche cuoio e pelli, sono circa 130 con 2.300 lavoratori, mentre le fabbriche di calzature sono meno della metà.
Nel 1961 sorge l’Associazione Calzaturifici Valenzani e, l’anno successivo, viene inaugurata la mostra permanente della calzatura, due tentativi meritori per favorire un settore sempre più frammentato, ma carenti di efficacia. La mostra è la prima del genere in Italia e richiama in ogni modo l’attenzione e le lodi di diversi operatori nazionali ed esteri. Il presidente dell’associazione è Mario Ponzone, mentre i membri sono Dante Porta, Vittorio Re, Piero Protto, Pietro Campese, Carlo Zucchelli, Giovanni Boccaccio, Pasquale Annaratone, Giovanni Patriccio, Adelio Grossi, Pietro Terzano, Pietro Annaratone; il collegio sindacale è composto da Marco Bertolini, Giovanni Visconti e Pietro Perrone. Il comitato della Mostra è presieduto da Piero Protto.
Questi i dipendenti dei principali calzaturifici: F.lli Re 169, F.lli Porta 74, Condoral 180, Stella 139, Preferita 30, Provera 45.
Dopo decenni in cui l’economia della città è stata imperniata su due settori, l’oreficeria e la calzatura, quest’ultima, al contrario della prima, cammina in netta regressione rispetto al passato: ci sono troppe difficoltà, sia economiche che negli approvvigionamenti di materie prime, che pesano sul mercato della scarpa da diverse stagioni, soprattutto sul prevalente settore valenzano delle scarpe da donna.
Nei primi anni Settanta i livelli occupazionali del settore si stabilizzano su circa un migliaio d’addetti: sono ancora vivaci, ma con una netta tendenza alla diminuzione. Nel 1971 l’Associazione Calzaturieri è così composta: presidente Franco Accatino, segretario Pietro Sarzano, cassiere Gianni Boccaccio; consiglieri Re, Merlano,Guerci; sindaci Visconti, Boriolo, Annaratone.
Purtroppo, questa lavorazione è legata alle stagioni e alla moda, ragion per cui la certezza del lavoro non dura mai più di sei mesi: due volte all’anno si ricomincia da zero, fidando su una capacità creativa infinita. Per stare sul mercato, a ogni fine stagione l’azienda calzaturiera deve cambiare completamente quasi tutti i modelli, cosa che implica spesso una diversa impostazione della produzione. È un gioco pericoloso: se in una stagione non s’incontra il gusto del pubblico, l’azienda va in estrema difficoltà, anche per le modeste percentuali di profitto che ormai questa lavorazione comporta. C’è qualche progetto per sostenere questo settore locale, ma finisce nel solito acquitrino politico e si preferisce indietreggiare, qualcuno non vede l’ora di andarsene.
A Valenza, da qualche tempo la maggior parte degli ambienti di produzione è in stato di degradazione progressiva, quindi si pone il problema di una urgente ristrutturazione al fine di gettare le basi per un rilancio. Pochissimi hanno reinvestito capitale sufficiente nell’azienda per permetterle un adeguato sviluppo industriale.
Per superare la situazione in deterioramento, oltre a un cospicuo investimento servirebbero anche quelle agevolazioni che il comune non ha dato, ma che potrebbe ancora dare, come il reperimento di aree d’insediamento con possibili facilitazioni; di questi progetti resteranno solo parole surreali e promesse mai mantenute, poiché non si sceglierà questa strada e solo pochi avranno la capacità di proseguire.
In una rilevazione del Comune, nell’anno 1975 risultano nel settore 30 imprese industriali e 66 artigiane con 1.000 + 100 dipendenti. In questi anni, un altro grosso handicap del comparto è il reclutamento della manodopera, che in città è impossibile: nessun giovane valenzano vuol fare il calzaturiere perché questa professione è ormai percepita come una specie di lavoro umile, per le classi più deboli e subalterne di gramsciana memoria. Il salario per un calzaturiero si aggira sulle 70.000 lire al mese, mentre per un orafo è di circa 90.000 lire.
Al comparto calzaturiero, oltre gli anziani, rimane la manodopera generalmente non qualificata che le aziende devono addestrare con aggravio dei già alti costi di produzione. Inoltre, i prezzi dei prodotti valenzani non sono più competitivi, anche come conseguenza del dinamismo perverso della scala mobile e dell’inflazione. Quella calzaturiera è un’attività la cui particolare struttura aziendale e produttiva permette un facile controllo fiscale, che non da luogo a quell’evasione tipica dell’oreficeria.
A Valenza nel 1982, le aziende di produzione calzaturiera sono soltanto 27 e gli addetti 550. Affamato, il Terzo mondo s’è gettato su questo settore, ha acquistato i nostri macchinari e ha messo fuori gioco le nostre confuse maestranze. Nella guerra contro i poveri, Valenza è perdente: ha perso il mercato americano, che l’ha seguita per un po’ nella salita dei prezzi, ma poi ha fatto la scelta del Terzo mondo. Nonostante i ripetuti richiami da parte degli interessati al settore, l’amministrazione comunale valenzana non ha mai valutato i pericoli della monocultura economica orafa, sulla quale, anzi, ha sempre riversato le sue preferenze. Questa lacuna è una delle principali cause del declino di questa produzione locale alternativa. Assomiglia quasi a un’eutanasia con smisurata ipocrisia.
Il calzaturiero valenzano sembra ormai in un coma irreversibile ed è difficile da difendere, un vero e proprio crollo verticale che ha generato rabbia e delusione. Anche alcune ditte che in passato erano prospere, ridotti a ombre fragili e fluttuanti, hanno cessato la loro attività, naufragate sugli scogli di infinite antinomie. Esse hanno dovuto pure fare i conti con le gravose imposizioni fiscali, quelle sulla prevenzione in azienda e quelle sui rapporti di lavoro.
Dopo aver accompagnato Valenza nel corso del Novecento, a fine secolo i calzaturifici valenzani sono messi all’angolo tra molte orecchie da mercante e lacrime da coccodrillo. Ormai sono ridotti a una decina che scompariranno negli anni successivi, quando la gente acquisterà sempre di più calzature pratiche e poco accattivanti, spesso molto economiche, non certo di qualità e made in China. Per la qualità le persone saranno in gran parte ammaliate dalla potenza comunicativa di super marchi leader nella comunicazione e nel marketing a livello globale.
Nei censimenti, i dati ufficiali del settore cuoio, pelli, calzature sono questi: 139 unità locali con 2.306 addetti nel 1961, 96 unità locali con 1.059 addetti nel 1971, 71 unità locali con 827 addetti – di cui 53 artigiane con 160 addetti – nel ramo calzature, abbigliamento, biancheria di casa nel 1981.
Concludendo, ricordiamo alcune ditte locali di calzature di un tempo, quando tutti a Valenza avevano un appellativo dialettale: Colombino (Culumbì), del titolare il torinese Remo Colombino, ubicata tra via Cavallotti e via Cunietti; La Stella, di Protto e Gota, da Corso Matteotti a via Valeriani; Fratelli Re – Attica, di Oreste e Vittorio Re, poi degli eredi Gian Carlo e Pier Giorgio (figli di Vittorio) e Carlo (figlio di Oreste), da viale Dante a via Astigliano (ora viale Santuario) e infine ad Alessandria nel 1994; Accatino – Calzaturificio Eva (Accatì), di Ernesto Accatino, in seguito dei figli Gian Franco e Angelo, vecchio laboratorio in via Carducci, poi via Faiteria; La Valentia – Calzaturificio Melgara, situato nella stessa via; Frascarolo Mario (Udì), poi Il Gioiello di Sarzana Pietro, in via Melgara; Provera (i Pruvèra), dei fratelli Remo e Bruno, in viale Dante. Diversi calzaturifici erano situati in viale Repubblica: i F.lli Porta, di Angelo e Felice Porta e poi degli eredi Cesare e Andrea, Lenti Carlo (Bargnò), Ettore Pavese (Paveis) e Di Mauro Giuseppe.