I detentori di Valenza nell’ultimo periodo dell’Alto Medioevo
Un nuovo approfondimento storico del professor Maggiora
VALENZA – Siamo nell’Alto Medioevo, un’epoca che ancora oggi suscita fascino e mistero, nell’anno 774 del passaggio di regime tra Longobardi e Franchi, evento che darà luogo a sconvolgimenti che assumeranno una particolare violenza nel nostro territorio in profondo degrado.
La zona valenzana, ai bordi della riserva Silva Urba, per lungo tempo è stata luogo di scorrerie di caccia dei Re Longobardi e Carolingi quali Teodolinda, Cuniperto, Liutprando e Lamberto II di Spoleto; quest’ultimo, nell’anno 898, perde la vita nel territorio, precisamente nella foresta della Fraschetta, cadendo da cavallo mentre insegue un cinghiale o forse assassinato da Ugo, lo spietato conte di Milano.
Da “Iudiciaria” longobarda, cioè sede di un giudice che era di solito un conte, verso la metà del secolo IX, in periodo carolingio agli albori del feudalesimo, queste contrade, dall’841 all’864, diventano il feudo di Liutardo dei Conti vescovo di Pavia nel Comitato di Lomello – contea istituita dai Franchi nell’ 847, dove risiede il graf o conte, e capoluogo del gau, contado. Una mappa dell’856 rileva con certezza che Valenza appartiene al Comitato di Lomello.
Nell’882 Carlo il Grosso, re dei Franchi orientali, conferisce al vescovo vercellese e cancelliere imperiale Liutvardo ampi poteri su numerose località del nostro territorio, tra cui l’intera “Silva Rovaxinda”, un’estesa foresta impenetrabile ricca di selvaggina che occupa gran parte del Piemonte orientale.
Dunque, nel secolo IX, la Contea di Lomello diviene un Comitato, assegnato in feudo a Manfredo dei Signori di Mosezzo, probabilmente discendente da Manfredo III “il cieco” conte in Longobardia. In quest’epoca non è facile stabilire confini precisi o periodi di possesso a causa dei vari cambiamenti e delle varie transizioni che si verificano, soprattutto nel sistema politico-organizzativo. Da poco è caduto il Sacro Romano Impero ideato da Carlo Magno, che è stato pressoché recuperato dagli imperatori germanici ma non è paragonabile all’impero del periodo carolingio a causa delle molte forze centrifughe e destabilizzanti.
Manfredo, di legge salica, nei documenti del 941 compare solo come figlio di un altro Manfredo de loco Moxicio, ma nel 953 è definito “e comes Laumellensis et filius bone memorie item Maginfredi de loco Moxicios”. Questi Manfredi farebbero parte di un gruppo parentale di Manfredingi, le cui origini risalgono al VI secolo.
Nel secolo X la scomposizione della marca d’Ivrea segna la disgregazione della nostra regione.
Alla fine del millennio nasce la società feudale e le terre di Valenza, chiamate “Nuova Valentiam olim Valentinum” dallo storico pavese del Cinquecento Bernardo Sacco, fanno parte del primo fondamento di Monferrato.
Per un secolo la zona valenzana non è stata più importunata dai barbari, vivendo in un vischioso letargo, ma, caduto l’impero franco-carolingio nell’anno 888 e dopo alterne vicende per la corona, si susseguono terrificanti invasioni di Ungari, primi anni del 900, e Saraceni, dal 950, che causano rovine in tutto il territorio e sono un potente acceleratore alla fortificazione del luogo. È in questo periodo di confusione, infatti, che le genti del luogo realizzano nuovi dispositivi difensivi, convertendo il borgo agricolo in una fortezza munita difesa dalla stessa popolazione inquadrata in milizia civica.
Le mura sono il simbolo più evidente della città e in futuro saranno sempre oggetto di mirabolanti lavori di fortificazione e di ampliamento. Queste opere sono necessarie sia per opportunità di ordine bellico, sia per fare posto ai numerosi fuggiaschi che, dalle campagne, si ritirano nel perimetro difensivo della città.
Momento chiave del processo di rifondazione fisica di Valenza è quando i cives locali, borghesia formata da negotiatores, si assumono in prima persona l’onere della sicurezza collettiva, mentre il vescovo si limita a fornire l’autorità morale e l’apparato di potere necessario al coordinamento di un’azione sempre più complessa.
La città è così rinchiusa entro rudimentali cinte murarie successive ed è posizionata su tre frazioni o terzieri: Astiliano, Bedogno e Monasso. La struttura, però, conserva ancora l’aspetto del borgo primario; il nuovo è sorto in buona parte sul vecchio. Astiliano, trapiantato alla costruzione di Valenza sul pianoro prospiciente il fiume Po, è il terziere più esteso; rappresenta la parte centrale rispetto a Monasso situato e a ovest, e a Bedogno, situato a est. Attorno alla piazza centrale che oggi corrisponde a piazza Statuto (Colombina), vero fulcro e luogo d’incontro, si è formata una fitta rete di stradine buie e cieche, talvolta più simili a cunicoli, con edifici sporgenti per difendersi dal vento e dalla pioggia. Sotto la spinta di incombenti necessità, nasce in questo modo la fortezza Valenza.
Nel corso dei secoli diventerà uno dei maggiori punti fortificati a difesa del Po, ma anche un insostituibile luogo di trasporto fluviale e anello d’unione per i molteplici scambi commerciali. Manufatti, tessuti e materie prime sono condotti sul fiume, specialmente dagli Angli e dai Sassoni, ma anche cavalli e schiavi. La Camera regia di Pavia controlla ogni attività, in particolare i pescatori, i barcaioli, i saponai e i cuoiai.
Le singole abitazioni di Valenza appaiono distribuite attorno a uno spazio interno occupato da cortile, orto e pozzo d’uso comune. In età ottoniana all’interno delle mura urbane esistono orti di rilevante superficie indipendenti dalle abitazioni. Accanto ai mulini che sorgono lungo il corso d’acqua vi sono aie, curticule e anche saluciole che formano piccoli agglomerati suburbani.
La parte a nord del Po appartiene al comitato Frassineto Po e Ticineto. Nei primi decenni del secolo X la pianura lomellina è descritta come “luogo ubertoso, ameno e fruttifero, tanto di legumi quanto di pesci”, ma, verso la meta del secolo, lo stesso territorio viene segnalato come infestato dai lupi “a causa della densità delle boscaglie e delle selve”. La presenza di folti boschi, rotti qua e là da aree coltivate, caratterizza la nostra zona, ma bosco e palude vanno infoltendosi mano a mano che ci si avvicina al corso del Po.
Sulle rive del Po sorgono alcuni “vada ad piscandum” concessioni regie date generalmente a enti ecclesiastici, luoghi in cui il corso d’acqua è accessibile e sufficientemente profondo per consentire un fruttuoso esercizio della pesca. Lungo il greto del fiume si vedono anche postazioni di cercatori d’oro che setacciavano le sabbie.
I monasteri e chiese extramurali sono circondati da orti. Il territorio della diocesi pavese comprende all’incirca quello dei due comitati contigui di Pavia e di Lomello.
Domina il cristianesimo e la sua cultura biblica subordinando tutto alla salvezza delle anime; anche da queste parti operano i monaci colombaniani della potente abbazia di San Colombano di Bobbio, attivissimo centro di evangelizzazione e di rinascita agricola. Dal tempo di Lotario I in poi I re carolingi usarono attribuire i monasteri pavesi alle mogli o alle figlie.
In questi tempi a Bassignana esiste un’importante pieve pavese, menzionata come diretto possesso vescovile in un diploma dell’849.
Durante l’età ottoniana, dal 962 al 1024, sono molto in auge le esperienze mistiche. È dunque un tempo di santi e di miracoli, ma i santi sono quasi tutti d’importazione: solo tedeschi e francesi operano prodigi per poi raccontarli nei loro scritti in modo irriducibile.
Nel 967 nasce il Marchesato del Monferrato, un feudo imperiale costruito su parte dei territori donati ad Aleramo Miagro, da cui traggono origine molte dinastie feudali del Piemonte e della Liguria Occidentale chiamate collettivamente col nome di Aleramici. Con la riorganizzazione di Berengario II, marchese d’Ivrea dal 928 al 950 e re d’Italia dal 950 al 961, ad Aleramo è attribuito potere marchionale sui Comitati di Acqui, Vado e parte del Comitato del Monferrato – forse per l’abilità dimostrata nella liberazione della regione dai saraceni. Il patrimonio aleramico è comunque incentrato sulle zone Casale-Vercellese, meridionale-Valenza e Acqui-Orba-Bormida. Dal figlio Ottone e dal nipote Guglielmo discendono i Marchesi del Monferrato, che dureranno fino a Giovanni I, il quale morirà senza eredi nell’anno 1305.
Spesso Aleramo Miagro è definito erroneamente primo marchese di Monferrato (958?), mentre lui è solo il capostipite dell’intera dinastia che si è frammentata in parecchie casate. Il titolo sarebbe forse da attribuire al nipote Guglielmo, denominato III anziché I. Storicamente non si ha alcuna traccia di marchesi di Monferrato fino al 1111, quando è indicato Ranieri nella sua qualifica di marchese di Monferrato.
Si può pertanto affermare che il Marchesato di Monferrato si sia costituito alla fine del secolo X, o al principio del secolo XI, in seguito allo smembramento della Marca di Aleramo, ma soltanto a cominciare dalla metà del secolo XII la sua storia è largamente documentata.
Il primo Monferrato è riconducibile a un’area che, dalla confluenza tra il Po e il Tanaro, nei pressi di Valenza, si è lentamente allargata verso occidente risalendo i corsi divergenti dei due fiumi, fino a raggiungere, sul finire del secolo XI, la regione collinare compresa tra il Po e il torrente Versa.
Di Valenza come terra monferrina si hanno scarse notizie; anzi, sembra che fino all’anno mille il territorio valenzano non sia stato governato dagli aleramici. Nella nostra zona si susseguono acquisti e donazioni del territorio tra imperatori, vassalli, vescovi e signori, con la conseguente suddivisione dei diritti feudali a numerosi consignori, che hanno quasi il diritto di eliminare a piacere l’umanità inferiore.
I passaggi da signoria a signoria, e sovente dalla padella alla brace, si verificheranno improvvisi e con un crescendo continuo. La cartina dell’area diventerà un azzardo, con vescovi e nobiluomini autoritari, ma spesso con una buona dose d’ignoranza, aggrappati al proprio pezzo di terra.
I capitanei emersi alla fine del secolo X come feudatari ereditari sono dei milites maiores investiti di benefici e di feudi che sono diventati ereditari nelle loro famiglie (non che prima fossero elettivi). Forse inizialmente erano gli esattori servili del crudele fisco regio che sembravano reduci dalle guerre puniche. L’origine del termine è indiscutibilmente giuridica e designa quanti ottengono i loro possedimenti dall’imperatore e, per estensione, da un vescovo o da un principe territoriale. Per meglio dire, si è capitanei di qualcuno: quasi un ossimoro.
Tracce di possedimenti terrieri e corti nel valenzano si trovano già all’inizio del secolo IX, come la Contea del Monferrato il cui Signore, alla fine del secolo IX, è il visconte Roberto. Dunque nel 900 la nostra zona è sotto il dominio del marchese Berengario II – sarà re d’Italia e vassallo di Germani – e poi sotto l’autorità imperiale degli Ottone.
Nel 990, per disposizione imperiale, la marca d’Ivrea, che comprende la Lomellina e Valenza, viene passata ad Arduino, incoronato re d’Italia nel 1002; ciò avviene quasi sicuramente per merito dei buoni rapporti che legano il padre Dadone all’imperatore germanico Ottone I il Grande (912-973). Dunque Arduino succede all’ultimo anscarico, Corrado Conone.
All’inizio del nuovo millennio, in epoca postcarolingia, le terre di Valenza, facente parte del primo Monferrato, sono governate da Oberto d’Astiliano, derivante da Aimone di Mosezzo – conte feudatario di Vercelli dal 950 al 966, discendente da Manfredo IX conte di Lomello, ricco vassallo regio fedele all’effimero imperatore, appartenente alla famiglia franca dei Manfredingi – che nel 965 le ha avute dal vescovo filoimperiale Ingone di Vercelli, a seguito della concessione della signoria di Astiliano e di Lazzarone del 30 dicembre 962 – documento del 29 gennaio 963 – dell’imperatore Ottone I, il grande restauratore del Sacro Romano Impero.
Cercando di tracciare un percorso genealogico con molti lati oscuri o sconvenienti, ecco lo scenario più probabile.
Il capostipite di Oberto Visconte o Visconti d’Astiliano – Visconte o Visconti è un nome cognominale o un titolo di gerarchia feudale? – è un certo Manfredo III detto il cieco, conte di Longobardia nell’VIII secolo. L’uomo ha tre figli: Frodoino, abate di Novalesa, Manfredo IV, camerlengo di Carlo Magno, e Guagenfrido, conte di Verdun. Da quest’ultimo discende Manfredo V, conte di Orlèans tra l’800 e l’834, che, con il duca di Spoleto Lamberto I, appoggia re Lotario I nella guerra contro il padre – l’imperatore Ludovico il Pio, figlio di Carlo Magno, 778-840 – e per i suoi servigi, dopo il Trattato di Verdun, riceve alcuni feudi da Lotario I.
Il nipote di Manfredo V, Manfredo VII conte di Lodi e Milano nel secolo IX, troppo traboccante di ambizioni ed escluso con un colpo di mano, nell’869 viene condannato a morte dall’imperatore e re d’Italia Lamberto I, e suo figlio Manfredo VIII, che ha preso parte alla rivolta assieme al padre, viene fatto accecare dall’imperatore e muore nel 914.
Da lui deriva Manfredo IX, fedele vassallo regio e conte di Lomello, i cui discendenti sono i conti di Lomello e l’alter ego Aimone conte di Vercelli, che il 30/12/962 riceve la terra di Astiliano (Valenza) da Ottone I imperatore, che soggiorna a Pavia e bazzica nella nostra zona negli anni 962-963, dopo una terribile epidemia che dal 952 ha fatto una strage nel valenzano.
Da Aimone, morto nel 978, derivano Ariberto, Manfredo di Brosolo, il visconte Ottone di Monferrato e, infine, Anselmo IV e Oberto Visconti di Astiliano (il Pericle di Valenza dell’epoca), da considerarsi il male minore.
Nel diploma del 7 maggio 999, anche Ottone III (980-1002), imperatore re d’Italia a soli tre anni, tramite la chiesa di Vercelli, affida a Manfredo XI, figlio dell’influente conte Aimone, il possesso delle località della nostra zona.
Sono il braccio armato, Grandi Madri avide e iraconde, tutti capitanei legati da vassallaggio al sacrale vescovo di Vercelli, a cui hanno giurato eterno amore, e alleati a Milano per contrastare le ambizioni dei marchesi di Monferrato, che guardano come il diavolo guarderebbe l’acqua santa. Raccolgono più insuccessi che successi, mentre non esistono gli interessi popolari.
A Valenza e a Lazzarone si consolidano così i signorili Visconti, ormai vicini ai monferrini con le loro intangibili parentele – famiglie Cane, Consorti, Colombo e Cellamonte. Sono tutti di una razza auto referenziale, poco virtuosa per quanto riguarda la libertà, sempre in lotta per la supremazia, decisa a resistere e sempre pronta a scontrarsi, lasciando spesso il re nudo.
Come affiora dalla descrizione fatta, le divisioni e il caos regnano sovrani e sono i vescovi, sovente non troppo misericordiosi, a dominare le città, mentre i nobili, chiusi nella loro arroganza e incapaci di darsi un vero ordine, signoreggiano sui loro domini feudali dai castelli e dalle rocche che punteggiano il nostro panorama collinare o dagli acrocori da cui si dominano gli accessi e i transiti di pellegrini e di mercanzie.
Nella “curtis” valenzana – unità produttiva rurale che rappresenta lo sviluppo ulteriore della “villa” romana, uno spazio territorialmente circoscritto – le principali famiglie privilegiate di quest’epoca poco conosciuta, con esistenze favorite dalla sorte, sono dunque i Visconti, i Ferrari, i Cane e i Colombo, tutti derivanti dai Visconti di Monferrato (capitanei) e chiusi verso l’esterno, pur detestandosi a vicenda.
Gravata dalla minaccia dei barbari, in questo ultimo secolo del primo millennio d.C. Valenza si è trasformata in un luogo fortificato di rilevante importanza nel futuro. Ma ci vorrebbe ben altro per gli obbedienti sudditi valenzani che sprecano fatalisticamente la loro breve vita nell’indigenza e nell’asservimento più totale.
Poi il tumultuoso evolversi e il tempo che sbriciola imperi e civiltà, figurarsi se lasciavano intatta questa città immutata da troppi secoli.