Il secondo dopoguerra a Valenza
Un nuovo scritto dello storico Pier Giorgio Maggiora
VALENZA – Finito lo spaventoso secondo conflitto mondiale, dove gli angloamericani ci hanno liberato dal nazifascismo, l’Italia aderirà alla Nato in funzione anti Urss e incomincerà a sbocciare l’Europa unita. Oggi, con pericolose frizioni e azioni belliche destinate ad acuirsi, la Nato persiste ma con funzioni diverse dalle origini, l’Urss comunista non esiste più e l’Europa è diversa da quella immaginata dai padri fondatori.
Nel nostro paese, gli anni del secondo dopoguerra sono caratterizzati da un veloce sviluppo e da una profonda trasformazione strutturale. Un po’ grazie agli americani, un po’ grazie all’operosità degli italiani e un po’ grazie alla fortuna, da paese agricolo l’Italia si converte in paese industriale e l’economia da autarchica diviene aperta. Il reddito nazionale raddoppia e la televisione diventa l’elemento dirompente nel panorama culturale e ricreativo: essa realizza l’unità d’Italia, più di quanto l’abbiano potuta fare Cavour e Garibaldi – prime trasmissioni TV nel 1954. A Valenza l’economia corre un treno, come se il cielo fosse l’unico limite: lavoro e ancora lavoro.
Nelle elezioni comunali del 31 marzo 1946 l’iniziale compattezza di chi ha combattuto il fascismo è solo un ricordo. Valenza pensa a sinistra con clamore giacobino, molti credono che l’anticomunismo e il fascismo siano stretti parenti. Infatti, nelle elezioni del 1946, i suffragi dei valenzani – ora finalmente anche delle donne – vanno in netta prevalenza ai partiti socialcomunisti, che ottengono il 73% nelle comunali – 24 seggi a PCI-PSIUP e 6 seggi a DC + indipendenti – e il 72% nelle votazioni per la costituente. Nel referendum istituzionale il 20% dei votanti è per la monarchia e l’80% per la Repubblica. Nella Costituente viene eletto deputato una delle figure politico-istituzionali più illustri di questa città, il socialista Paolo De Michelis, giovane nello spirito ma non all’anagrafe.
Il sindaco è Guido Marchese, gli assessori sono Arobbio Athos, Annaratone Aldo, Ottone Mario, Rossi Pietro, Camurati Francesco, Capra Giacomo. Circondata da un’aura salvifica, la classe politica cresciuta con la resistenza sarà per anni il ceto politico prevalente in questa città.
I socialcomunisti valenzani – alcuni ancora convinti di un destino rivoluzionario che combattono con l’immaginazione – non hanno fatto bene i conti con i cattolici e con De Gasperi. Infatti, in piena guerra fredda tra le potenze occidentali e l’Unione Sovietica, con la conseguente ripresa febbrile del riarmo – ormai basato principalmente sulla creazione di armi atomiche – l’election day dell’aprile del 1948, che dà alla DC la maggioranza in parlamento, anche a Valenza determina un calo dei due partiti della sinistra, in questa occasione uniti nel Fronte Popolare, che qui mantiene lo stesso una netta preponderanza sulle altre forze politiche (FP 60%, DC 30%).
Anche la Chiesa è scesa in campo, promuovendo una violentissima campagna anticomunista e trascinando con sé tutto il mondo contadino. Le strategie politiche locali sono fondate soprattutto sui comizi e l’oratoria e ricalcano spesso le storie ironiche di Peppone e Don Camillo, con tutte le loro asperità.
In questi anni sia in Italia che a Valenza si consolida la spietata guerra di delegittimazione tra democristiani e comunisti. Intransigenti, frementi, incapaci di dialogare, nutrono un ostinato disprezzo gli uni per gli altri. Le donne vanno a messa e votano il biancofiore, mentre gli uomini restano all’osteria sognando il sol dell’avvenire. La parità dei diritti tra uomo e donna resta solo sulla carta, il femminismo è ancora lontano e in fondo è meglio che la donna resti accanto al focolare.
Non ci sono mezze misure: da una parte c’è il bene e dall’altra il male, o si è buoni o cattivi. Per i democristiani da una parte c’è Gesù, dall’altra il diavolo, chi va a messa è buono e i socialcomunisti sono i cattivi. Per i comunisti l’omosessualità è ancora un’indegnità morale. In Unione Sovietica gli omosessuali vengono mandati in Siberia per essere rieducati o in manicomio per essere curati.
Le elezioni amministrative del 1951 (PCI 35,56%, PSI 19,90%, Lista Cittadina 41,73%) testimoniano alcuni spostamenti dell’elettorato valenzano e dimostrano che la situazione, che aveva portato alla schiacciante vittoria dei socialcomunisti nelle elezioni del 1946 sia in parte superata e che non sia realistico attendersi il riprodursi dei risultati dell’immediato dopoguerra.
Dunque negli anni Cinquanta il PCI è il partito più forte, ma senza il subalterno PSI difficilmente in futuro riuscirà a ottenere la maggioranza assoluta in questa città. Nel 1951 il nuovo sindaco è Giovanni Dogliotti, un operaio perso nel sogno di antichi ideali comunisti; è stato tra i fondatori del PCI valenzano e tra i promotori del Comitato unitario antifascista. È un uomo di grande solidarietà sociale e molto popolare. La giunta comunale è formata dai comunisti Annaratone Aldo, Lenti Luciano, Emanuelli Aldo e dai socialisti Aviotti Massimo, Annaratone Angelo, Canepari Clemente.
A Valenza, nelle elezioni politiche del 1953 alla Camera, il PCI raggiunge il 41%, la DC il 27%, il PSI il 12% e il PSDI l’11%; nelle stesse elezioni del 1958, nonostante la crisi per i fatti dell’Ungheria e il XX Congresso del PCUS del 1956, il PC ottiene il 38%, la DC il 28% e il PSI il 19%.
Nelle comunali del 1956 si rinnova il successo del PSI, che sale al 22,16% e vede confermati sette rappresentanti in consiglio, mentre il PCI si mantiene sulle medesime posizioni delle precedenti comunali ma con un lieve calo (34,55% e 10 seggi). La DC è al 30,68% (10 seggi) e il PSDI al 12,61% (4 seggi). Dunque è riconfermata la guida del Comune al gruppo social comunista, Luciano Lenti è scelto sindaco della città – sarà riconfermato nel 1960 e sarà eletto alla Camera nelle liste del PCI nel 1963 – e in giunta ci sono i comunisti Gatti Pietro, Annaratone Aldo, Lombardi Renzo e i socialisti Rossi Ferruccio, Demartini Secondo, Rivalta Silvio.
Il fossato tra i governanti comunisti e gli antagonisti democristiani e socialdemocratici resta profondo nella vita di tutti i giorni. Insomma, è guerra fredda. Sono posizioni spesso molto forti e per molti versi discutibili.
L’industria delle calzature, che divide con l’oreficeria quasi tutta l’economia e l’occupazione locale, non ha subito alcun rallentamento nel periodo bellico, ma anzi alcuni colpi di fortuna grazie alle forniture per l’esercito. Con l’importazione delle macchine per l’elaborazione del fondo, ha preso vigore la lavorazione meccanica della calzatura. Alcune aziende sono riuscite a espandersi inserendosi efficacemente nel mercato nazionale. Nel 1949 si stima che ci siano circa 80 aziende di calzature e tomaie giunte e due depositi di concerie.
È diversa la situazione nel settore orafo, dove durante la guerra è stata proibita la lavorazione dell’oro e del platino. Alla rinfusa, spesso malamente e sfruttando i dollari americani, viene ricostruito ciò che la guerra ha distrutto. L’inflazione, che continua a influenzare la domanda di oggetti preziosi, e i timori provocati da un possibile cambio della moneta fanno crescere sempre di più la richiesta di gioielli. Esplode la produzione e le imprese in possesso di marchio raddoppiano tra il 1946 e il 1951.
Il 20 giugno 1945 nasce l’Associazione Orafa Valenzana, un’organizzazione datoriale composta inizialmente da circa 150 ditte, che si propone la tutela e lo sviluppo delle aziende orafe della città e che in futuro avrà una certa rilevanza per questo settore. Il primo presidente dell’associazione è Dante Fontani.
Nei primissimi anni del dopoguerra Valenza raggruppa circa 1.500 lavoratori iscritti al sindacato, appartenenti per la maggior parte alla categoria dei calzaturieri. Nella CGIL unitaria – la Camera del Lavoro valenzana è guidata inizialmente da Oscar Angeleri, poi da Luigi Buzio e dal 1949 al 1959 da Aldo Emanuelli – non vi è ancora una netta impronta ideologica né la somma di distinte traduzioni dottrinali che invece esploderanno dopo le elezioni del 1948. La CdL valenzana ha utilizzato la sua struttura per appoggiare la propaganda elettorale socialcomunista, provocando il distacco di moltissimi aderenti cattolici. Così, nel mese di dicembre del 1948, si forma il gruppo lavoratori cattolici, che fa capo alla Libera Confederazione Generale Italiana del Lavoratori (LCGIL, poi CISL) e che raggiunge in breve tempo il numero di 300 iscritti – sono principalmente lavoratori del pubblico impiego e dell’agricoltura – il cui principale rappresentante locale è Pio Bonzano.
Alla fine degli anni Quaranta ogni casa della città possiede almeno un laboratorio di oreficeria, per la maggior parte a conduzione familiare e con mediamente non più di 4 o 5 dipendenti. Ci sono opportunità per tutti. La modesta attrezzatura necessaria e lo scarso bisogno di un capitale fisso favoriscono la nascita e lo sviluppo di strutture operative di dimensioni modeste, quindi fragili. Le circa 300 aziende orafe che occupano quasi 2.000 persone e i molti lavoratori a domicilio, tutti armati di entusiasmo e di illusioni, aumentano progressivamente la quantità di manufatti prodotti. Questi non sono venduti direttamente ai consumatori, ma al “viaggiatore” che, visitando periodicamente i negozi al dettaglio, offre la merce prodotta da più imprese, con tutti i rischi dell’intermediazione.
Alla fine del 1945 Valenza ha 12.460 abitanti e il numero delle abitazioni è di circa 3.000. Nell’anno ci sono state 102 nascite e 184 morti (in Italia nel 1946 è boom della natalità, nascono più di un milione di bambini). Ci sono poche case con acqua interna ed elettricità. Il mezzo di trasporto è la bicicletta, le auto sono poche decine. Ci si riscalda con la stufa e le famiglie vivono per la maggior parte in due stanze.
Ma ben presto Valenza conosce all’interno della provincia il più intenso processo di sviluppo economico e della popolazione: passa dai 13.430 abitanti del 1951 (censimento) ai 18.441 del 1960, rendendo insignificante la differenza tra i nati e i morti. È significativo il movimento della popolazione: nel 1950 ci sono 562 immigrati e 195 emigrati, nel 1960 1.035 immigrati e 475 emigrati. Sono le aziende orafe a superare le previsioni economiche, aiutate anche dall’apertura dei mercati internazionali. Passano dalle 335 del 1951 alle 575 del 1961 con un saldo positivo di 240, pari al 71,64%; gli addetti aumentano dai 1.972 ai 4.068, con un saldo positivo di 2.096 unità, pari al 106,3%. Ormai poco valorizzato o sostenuto, negli anni ‘50 il ramo pelle, cuoio e calzature mantiene ancora un centinaio d’aziende e 2.000 occupati, che ben presto si dissolveranno.
Pur simile a quello di certe zone dell’area nord-occidentale, quest’andamento produttivo locale è profondamente difforme dalla provincia alessandrina, dove l’incremento demografico del decennio è solo dello 0,8%. Valenza è come l’America, diventa un polo d’attrazione in ambito provinciale, per le zone vicine della provincia di Pavia e soprattutto a livello nazionale (meridione e Veneto in particolare).
Il settore orafo genera un alto numero di posti di lavoro, incidendo in modo intenso sui rapporti sociali ed economici. La forte immigrazione crea profondi mutamenti nelle relazioni, nel costume e nelle tradizionali esigenze dei valenzani. Questa città dal brutto clima e senza nessuna particolare attrattiva, ma con un popolo quadrato di seri lavoratori, poco abituato a ricevere regali, è diventata la terra promessa a cui aspirano gli abitanti delle più lontane zone del Paese.
Negli anni 1945-1948 la popolazione attiva è circa la metà, nel settore agricolo è occupato più del 10% dei residenti e nel commercio meno del 10%.
Tra il 1946 e il 1961 la rapida crescita demografica e l’aumento del reddito, producono un forte sviluppo edile, con relativa speculazione: le abitazioni aumentano del 50%, mentre il mercato della locazione è quasi bloccato per la ridotta dimensione dell’offerta e il crescente aumento della popolazione.
Il grado d’istruzione è poco sviluppato: nel 1945 ci sono quasi 600 analfabeti e 2.200 alfabeti privi di titolo di studio. Meno di un migliaio di valenzani possiede la licenza di scuola media e poco più di 300 ha un diploma superiore, i laureati sono pochissimi. Nel 1951 i gradi di istruzione possono essere ripartiti in questo modo: il 69% (9.423 abitanti) è in possesso della licenza elementare, il 7,6% (1.046 abitanti) della licenza di scuola media inferiore, il 3% (419 abitanti) del diploma superiore e lo 0,5% (71 abitanti) della laurea. Gli analfabeti sono 325 e gli alfabeti privi di titolo di studio 1.522 – in Italia più del 10% della popolazione non sa né leggere né scrivere.
Dieci anni dopo, nel 1961, gli analfabeti saranno 387, gli alfabeti privi di titolo di studio 1.627, quelli con licenza elementare 12.594, quelli con licenza media 1.942, quelli con diploma superiore 566 e quelli con laurea 128.
Nel 1950 nasce l’Istituto Professionale di Oreficeria Benvenuto Cellini. Nel 1958 l’I.T.C. per ragionieri diventa autonomo e assume la denominazione di “C. Noè”. Anche a Valenza la scuola sembra indifferente ai cambiamenti che stanno avvenendo; con la crescente domanda di scolarizzazione, si andrà verso l’appiattimento.
Nel dopoguerra la voglia di divertirsi è grande: si balla all’Enal, alla DC (Sala Faro) e più avanti al Valentia. In città i cinema sono tre: il Teatro Sociale – con spettacoli teatrali – il Politeama Gervaso – d’estate si trasferisce all’aperto – e l’Italia – cinema dell’Oratorio, poi traslocato nel Nuovo Cinema Italia. I caffè-bar sono circa una decina: Mazzini, Garibaldi, Achille, Sport, Roma, Moro, Verdi, Teatro, Torti, Politeama. Ci sono ancora gli alberghi e i ristoranti: Croce di Malta, Italia, Roma, Stazione, Stella Polare, Verdi, Fonte di Monte. La tintarella estiva si prende sul greto del Po (giarò). Al mattino ci si cura andando a bere acqua solforosa alla cosiddetta fontana marcia (libera e gratuita) o alle fonti di Monte (un impianto termale vero e proprio).
Nel 1954 l’ospedale cittadino si trasferisce da via Pellizzari a viale Santuario e nel maggio del 1957 è posata la prima pietra della Casa del Popolo, poi denominata Circolo Culturale Ricreativo Valentia o solamente Valentia (nome della fabbrica calzaturiera situata precedentemente nella struttura). Alla costruzione del Valentia lavorano incessantemente per più di un anno molti volontari.
La generosità dei valenzani risulta determinante nell’opera d’altruismo e benemerenza verso le istituzioni benefiche e assistenziali. Tipico è il caso dell’Ospedale degli Incurabili, poi Casa di Riposo, ristrutturato nel 1951, ampliato nel 1958 e sopraelevato negli anni ’60, sempre con contributi privati. Nel 1957, per volontà di 10 donatori valenzani iscritti ad Alessandria, nasce la sezione Avis di Valenza, che nel 1962 sarà intitolata alla memoria di un medico valenzano del Rizzoli di Bologna, Carlo Camurati.
Alla fine degli anni Cinquanta, in un referendum indetto da un settimanale locale, il valenzano più popolare è Luigi Illario (670 voti), il secondo il sindaco Luciano Lenti (573 voti), il terzo il cantante-compositore Ginetto Prandi e il quarto il primario dell’Ospedale Mauriziano Virgilio Benedetto.