Comunisti tra gli anni ‘50 e ‘60 a Valenza
Il professor Maggiora in uno spaccato della vita politica cittadina
VALENZA – Nel 1956, mentre al XX congresso del partito comunista sovietico (febbraio) Nikita Kruscev elenca i crimini della dittatura staliniana di fronte ai delegati annichiliti, a Valenza “l’uomo d’acciaio” è ancora un oracolo e qualcuno lo vorrebbe santo. Poi, a stretto giro di posta, nell’autunno 1956, i carri armati sovietici arrivano a Budapest e ben presto si accendono le polemiche.
All’improvviso sconcertanti verità si mostrano davanti agli occhi di molti: se fino ad ora nella dirigenza comunista valenzana c’è stata indulgenza e quasi connivenza con l’ideologia totalitaria sovietica, tanto da diventarne inconsapevolmente propagandisti, ora sorgono molti dubbi e problemi di linearità. Indignati e quasi con vergogna, alcuni esponenti locali del partito esprimono giudizi di condanna anche severa verso quel regime dispotico, facendo discutere parecchio anche su un altro tema caldo: le scosse della Guerra fredda in corso.
In Comune il PCI è di gran lunga il partito più forte e cementato, ma in futuro senza il PSI non riuscirà a ottenere la maggioranza assoluta in questa città. Nelle comunali del 1956 il PCI ottiene il 34,55% e in Consiglio comunale manda questi 10 consiglieri: Lenti Luciano, Annaratone Aldo, Emanuelli Aldo, Fusco Rocco, Lombardi Renzo, Rossi Pietro, Gatti Pietro, Carnevale Giovanni, Favero Luigi, Morosetti Ferdinando. Luciano Lenti è eletto sindaco della città e a lui tocca il compito più difficile.
È un compatto e rigoroso partitone novecentesco in cui c’è una scala gerarchica e quelli idonei sono scelti dall’alto, non attraverso le primarie. Gli altri, dominati dalla propria fede, sono privi di spirito critico, hanno una sorta di indifferenza e considerano il partito come l’Assoluto, seguendone pedissequamente la linea. Allo stesso tempo il partito ha però difficoltà a reclutare giovani, gli iscritti alla FGCI si sono dimezzati in pochi anni e i “pionieri” del dopoguerra faticano a entrare fra quelli che contano.
Nel 1957 inizia la costruzione della Casa del Popolo che poi sarà battezzata “Circolo Ricreativo Valentia” o semplicemente “Valentia”. Sorta al posto di una fabbrica di calzature, l’opera viene realizzata nel tempo libero da volontari comunisti che si improvvisano nelle varie specializzazioni di lavoro. Oltre a essere luogo di ballo, sarà sede del partito in cui si formeranno molti protagonisti politici e sociali della città.
In questi tempi i comunisti locali sono convinti che i pericoli per la loro indipendenza e per l’Italia vengano da più direzioni: un intervento americano, i trattati europei, le interferenze della Chiesa. Anche in politica estera è tipico di questa sinistra manichea sbagliare alcune scelte di fondo nel momento in cui si presentano e solo molto più tardi riconoscere l’errore (CEE, NATO, dittature comuniste).
Si sentono sempre nel giusto, non si fanno mancare odio e disprezzo per gli avversari politici. Intransigenti e frementi, sono incapaci di dialogare con gli antagonisti democristiani e socialdemocratici; molti valenzani nutrono per gli altri un odio politico e culturale antropologico quasi incontrollabile. Gli esponenti di tutti i partiti sono cantori inossidabili di una superiorità morale e considerano gli avversari politici nemici da abbattere, indegni di governare, in base all’idea che tutti i buoni siano da una parte e i cattivi dall’altra; solo molto più avanti fingeranno in modo contradditorio di essersi sempre rispettati.
Dopo la conferma social comunista nelle elezioni comunali del 1960, il carismatico Lenti viene riconfermato primo cittadino. In queste consultazioni si palesa una buona avanzata comunista — 42,97% con 13 seggi su 30 — dovuta alla forte influenza che il partito ha avuto sui numerosi immigrati giunti a Valenza in questi anni, al voto delle consistenti nuove generazioni e alle molte iniziative popolari (petizioni, cortei, scioperi, ecc.) promosse su problemi d’interesse pubblico immediato (scuola, sanità, casa), oltre al travaso di ex voti socialisti. Verso la classe operaia, però, l’attenzione continua a essere scarsa; il partito delega alla sola Camera del Lavoro la gestione di questo movimento tanto importante, quanto poco considerato nella realtà valenzana.
Nel 1960 gli eletti in Comune sono: Lenti Luciano, Fusco Rocco, Lombardi Renzo, Minguzzi Tullio, Gatti Pietro, Carnevale Giovanni, Legnani Paolo, Bosco Giovanni, Giordano Francesca, Guidi Luigi, Ravarino Renzo, Meli Michele ed Emanuelli Giovanni.
Nel pieno dell’ascesa, nel 1960 il Partito ha 1.200 iscritti, di cui 550 operai e 300 artigiani. La percentuale di operai orafi, circa 200, è bassa confrontata ad altre categorie di lavoratori, mentre è alta la percentuale di imprenditori-artigiani e il consenso che il partito riceve dalla cittadinanza non militante.
A Valenza il comunismo “immaginario” non attinge forza dal serbatoio della protesta popolare e dal malcontento degli strati più oppressi, ma coinvolge soprattutto una piccola e media borghesia di artigiani e commercianti le cui attività prosperano. È una strana situazione, in contrasto con quella nazionale, che si manterrà costante per lungo tempo.
Alla guida del partito — che da 15 anni conduce e gestisce abilmente le sorti del Comune, seppur in un clima di scontro permanente — ci sono i principali esponenti dell’amministrazione comunale, pragmatici e infaticabili: Lenti, Bosco, Ravarino, Fusco, Carnevale, Gatti, Lombardi, Quarta e altri. Giuseppe Gatti è il segretario sezionale e Renzo Lombardi l’amministratore: adeguati al ruolo, sono custodi inossidabili del comunismo sociale e impeccabili signori di sinistra antica dal fiuto fine.
Se a livello nazionale la rottura con i socialisti — formazione del centro-sinistra nel 1963 — ha accresciuto l’isolamento del partito, a Valenza il PCI è penetrato a fondo nella cultura e nell’economia della città e mantiene il prestigio dell’essere stato la forza leader dello schieramento antifascista. Come in molte altre parti del Paese, anche qui si sta confermando l’egemonia culturale della sinistra, un gruppo intellettuale snob dal pensiero unico che spesso disdegna chi è meno erudito, anche se limitata a una ristretta minoranza.
La festa annuale estiva dell’Unità non è solo un evento ricreativo, ma anche di cultura, dibattiti e finalizzato a raccogliere sussidi consistenti; la complessa attuazione è nelle mani dei volontari del partito, che non è poca cosa, e la partecipazione è sempre ampia e generalizzata.
Nelle elezioni politiche del 1963, per la seconda volta dal dopoguerra, un valenzano entra in Parlamento: è l’autorevole sindaco della città Luciano Lenti, che, esercitando tutto il suo carisma, è eletto alla Camera nelle liste del PCI con ben 16.080 voti di preferenza.
Alla fine del 1963, in città i tesserati al partito sono circa 1.300, di cui 574 operai (nei quali ci sono 212 orafi, 220 calzaturieri e molti edili), quasi 400 del ceto medio (di cui 307 artigiani orafi e 31 calzaturieri), 52 commercianti, 18 contadini, 21 impiegati e 278 altri (158 pensionati e 120 casalinghe). La media dell’età degli iscritti valenzani è di 45 anni. Gli iscritti alla federazione giovanile locale sono 170, con pochi studenti.
La Federazione Zonale del PCI, che ha il compito di coordinare la gestione e gli indirizzi del partito, comprende 11 comuni: Valenza, Bassignana, Bozzole, Frassineto, Giarole, Mirabello, Pecetto, Pomaro, San Salvatore, Ticineto e Valmacca per un totale di circa 35.000 abitanti. Le sezioni sono 14 di cui 3 a Valenza.
Nel 1964 la Federazione Zonale ha circa 1.900 iscritti, di cui 450 donne: gli operai iscritti al partito sono quasi un migliaio, gli artigiani, esercenti, piccoli imprenditori circa 300, i coltivatori diretti un centinaio, i braccianti e mezzadri una cinquantina, le casalinghe 70, i pensionati 350; gli iscritti alla FGCI sono 200, di cui 80 studenti.
Nella zona esistono 32 cellule territoriali, 5 cellule di fabbrica, 3 circoli della FGCI e solo un comune è privo di organizzazione di partito. In via Melgara (Valentia), centro zona, funziona un ufficio di segreteria dove sono permanentemente occupati due funzionari e due impiegate.
Nominato nel luglio del 1964, l’eloquente comitato di zona è composto da: Lenti, Ghersi, Quarta, Bosco, Lombardi, Gatti G., Pistillo, Pelizzari, Mazza, Gabba, Minguzzi, Ferraris, Molinelli, Legnani, Lombardi, Carlevaro, Lenti, Ricaldone, Braggione, Bighi, Marchelli, Rigari, Pellottieri. Nella FGIC, non sempre allineati, ci sono: Ronza, Pellottieri, Fusco, Pampirio e Ravenni. Il segretario del comitato di zona è il giovane Enrico Pistillo.
Da anni l’Unità è venduta a domicilio nei giorni festivi (500 copie distribuite dagli attivisti di partito e 400 nelle edicole). Dal 1961 il periodico locale Valentia offre spunti sulla situazione politica locale e nazionale; efficace e consolatorio è il sostegno al partito di CGIL, ANPI, UDI e Alleanza Contadina.
Ciononostante, nel movimento operaio vi è una scarsa volontà di intraprendere un’effettiva lotta di classe, a causa della realtà vissuta nelle aziende, per la maggior parte a conduzione semi-familiare, e della possibilità per ogni soggetto di travasare da una classe all’altra. Neanche la differenziazione sociale è molto rilevante: quasi tutti gli imprenditori sono stati al loro tempo lavoratori dipendenti. Questa realtà blocca il movimento operaio sia nella lotta sindacale che nel partito operaio comunista, che annovera tra i suoi iscritti, in particolare nella dirigenza, un alto numero di imprenditori orafi generalmente amanti del conformismo economico: un connubio tra sinistra e capitale.
Qui l’elaborazione togliattiana della “via italiana al socialismo” è poco considerata, come se solo in piccola parte si guardasse al futuro e per il resto ci si rivolgesse orgogliosamente alle certezze arrugginite del passato. La forza posseduta viene spesa perlopiù sui temi internazionali, in una martellante propaganda contro l’imperialismo americano, la NATO, l’europeismo del governo e in favore dell’URSS e di Cuba — soprattutto dopo la ridicola e fallimentare invasione organizzata dalla CIA nel 1961. È sempre difficile decidere cosa sia buono e cosa no, entrano in gioco passioni e sentimenti, ma se non esiste un impero del male ancor meno esiste un impero del bene.
È lo stile dei tempi, sono irriducibili posizioni che solo più avanti si riveleranno in gran parte velleitarie, con una perdita generazionale di memoria. La maledizione di questo partito non è avere alcune idee sbagliate — sarà contrario anche alla TV a colori, al part-time delle donne, ecc. — ma il tempo infinito che impiega ogni volta a liberarsene: chissà se per quel certo sentimento di superiorità morale.
Una buona parte del ceto medio valenzano è vicina alla sinistra, pur conservando valori e mentalità piccolo borghesi. In questo periodo molti imprenditori comunisti di casa nostra convivono con l’ingombrante paradosso di poter essere comunisti e ispirarsi con certi principi teorici all’ideologia marxiana e alle sue derive collettiviste leniniste o maoiste, ammettendo al tempo stesso le azioni della società capital-borghese da loro tanto disprezzata e criticando pure l’occidente che li ha resi facoltosi. Questi sono malevolmente chiamati capitalcomunisti o proletari a ostriche e champagne dagli avversari (Il Popolo di Valenza giornale della DC), ma avendo una genuina passione ideale di provenienza forse sono meglio dei loro eredi veteromarxisti. Dopotutto anche Engels era capitalista.
Come al solito, ora che sono passati svariati decenni e che nessuno più si dice comunista, socialista o democratico cristiano, tutto questo appare strambo o come una sorta di reato d’opinione. Tuttavia, la nostra società capitalistica pare abbia ottenuto le principali promesse del marxismo: nella globalizzazione ha realizzato il livellamento universale e l’internazionalismo, nell’irreligione l’ateismo pratico.