L’assedio di Valenza del 1656
Un nuovo approfondimento del professor Maggiora
VALENZA – La pace di Vestfalia del 1648 non ha placato la brama francese di sottrarre il ducato di Milano agli spagnoli e la piazzaforte valenzana, costantemente tra l’incudine e il martello, resta di fondamentale importanza nelle mire espansionistiche del cardinale Mazzarino, con il suo carico di interessi arretrati come il fallimento dell’assedio francese nel 1635: è la vampa bellicista dei tempi, guerre sempre fatte a casa degli altri.
Durante la solita fragile tregua dalle future previsioni nefaste, Valenza rischia sempre di soffocare nell’abbraccio mortale del nemico del momento. Nel 1650 il governo spagnolo, oltre a riparare i danni causati dalle ultime vicende belliche, presagendo il futuro e allo scopo di non farsi cogliere impreparato, cerca di rimodernare le fortificazioni della città con l’impresa di Giovanni Pietro Palestro, coadiuvato da Giuseppe Segna e Dionigi Annone. I lavori, presto sospesi, sono ripresi nel 1655 dall’impresario Domenico Ceriano, poi ispezionati e collaudati dall’ingegnere Gaspare Berretta, celebre nell’arte militare. Molte persone del contado per timore della guerra si ritirano entro le mura.
Essendo la rivincita uno degli effetti collaterali più temerari di queste guerre, nel 1656 (dal 25 giugno al 13 settembre), dopo quasi tre caldissimi e soffocanti mesi d’assedio dei franco-piemontesi con molti tentativi esterni di spezzare il blocco – sempre respinti, anche dopo ripetute manovre per entrare attraverso il Po da Frascarolo – Valenza, città isolata, disperata e in crisi alimentare, deve capitolare alle truppe di Francia, Savoia e Modena. Queste sono capitanate da Francesco d’Este duca di Modena e generale di Luigi XIV, che ha il suo quartiere generale in una cascina sulla strada per Casale, e da Luigi di Vendôme duca di Mercœur, che è sistemato verso Bassignana nel castello detto “degli Stanchi” (sarà poi dei Menada), dove, nell’assedio del 1635, era collocato il Duca di Parma.
Una delle ragioni principali degli assedianti è ottenere una nuova base lungo il Po per minacciare Casale, dove i gigli di Francia sono stati scacciati dagli spagnoli (1652), una tesi riproposta ogni volta dagli assalitori insieme a un’immane liturgia del terrore inflitta ai valenzani.
È quasi un’ovvietà dire che i combattenti sono tutti convinti di impugnare “le armi di Dio”, combattere è la loro ideologia, mentre i loro capi fanno gli eroi con la vita altrui, rischiando quasi nulla.
In questo furore d’estate, in un paesaggio quotidiano rigonfio di battaglie e di violenze, le forze sono impari e letali per i nostri, con effetti devastanti sulla città. Sono circa 10.000 gli assedianti francesi (riforniti attraverso il fiume), mentre la città è difesa coraggiosamente da 800 mercenari e 700 miliziani agli ordini del generale spagnolo, governatore della piazza, don Agostino Segnudo.
Pur in condizioni di inferiorità numerica, la guarnigione di Valenza alterna un efficace fuoco dalle mura a brillanti sortite; gli scontri sulle colline circostanti sono tra i più sanguinosi. Gli aggressori, più volte umiliati, realizzano trinceramenti e cunicoli sotterranei per avvicinarsi alle mura e, infine, fanno brillare varie mine che distruggono i bastioni Caracena e dell’Annunziata (tra Porta Alessandria e Porta Bassignana).
Intanto il cardinale Trivulzio, giunto in soccorso di Valenza, muore il 3 agosto durante il rientro a Milano, mentre il conte di Fuensaldana, che gli succede come governatore dello Stato di Milano, giunge con circa novemila uomini deciso a liberare la città dalla morsa degli assedianti. Il tentativo è vano e lui è costretto a fermarsi a Giarole, dando prova di ignavia e di inaffidabilità.
Lo scenario a Valenza è lugubre e disperato, sembra impossibile scorgere una luce. Il 16 settembre 1656 – 84° giorno d’assedio e secondo dopo la capitolazione – il duca di Modena Francesco I d’Este riceve nel Duomo l’omaggio degli assuefatti e supini valenzani, novelli sudditi del re di Francia. Pochi giorni dopo, il 19 settembre, il Po straripa allagando parte di Valenza distruggendo i due ponti di barche costruiti dai nemici durante l’assedio: un evento che con qualche giorno di anticipo avrebbe ribaltato le sorti dello scontro, forse mutando il corso della storia di Valenza e non solo. Ma è una costante che siano i belligeranti più energici e fortunati, spesso anche i peggiori, a vincere.
Questa città trascorrerà più di tre anni in crisi depressiva permanente, sotto la dominazione dell’ambizioso e potente Re Sole; tuttavia, grazie ai patti della resa, in questo periodo di occupazione i cittadini godranno anche di alcune esenzioni e agevolazioni, una concessione non irrilevante dal punto di vista pratico. Ma la colonizzazione francese ha come effetti collaterali rovinose e continue contese e spogliazioni nelle chiese locali.
La Pace dei Pirenei del 7 novembre 1659 pone fine alla guerra tra Francia e Spagna, durata 23 anni; Valenza, dopo essersi leccata le profonde ferite, ritorna agli spagnoli, indi allo Stato di Milano, che restituiscono Vercelli ai piemontesi.
Dal 1657 al 1663 il governatore della città è il marchese François-Auguste de Valavoire, un generale della fanteria francese. L’uomo è un ossimoro tra democrazia e autocrazia, ma è meglio non contraddirlo, ed è bravissimo a tutelare l’interesse della Francia o della Spagna, spesso a discapito dei nostri, sempre più sgomenti.
Il governatore e capitano generale dello Stato di Milano è sempre il forte e astuto Alonso Pérez de Vivero conte di Fuensaldaña (dal 1656 al 1660), a cui i valenzani, indecisi se prenderlo a sassate o proporne la beatificazione, dedicheranno paradossalmente il bastione tra Porta Alessandria e Porta Casale. Per Valenza non ne ha indovinata una, ma ora è diventato un fenomeno da altarino compatibile con l’epoca.
In questi anni le famiglie valenzane si dividono in due categorie; quelle ricche, colte e serene poiché sono altri a combattere – Annibaldi, Aribaldi, Belingero, Cagno, Campi, Capriata, Chiesa, de Cardenas, Forno, Fracchia, Lana, Richiochi, Salvatico, Stanchi, Tremoli e altre – che versano consistenti tasse prediali al Comune, e quelle che non ne pagano o ne liquidano talmente poche da non potersi considerare ricche. Per questo, sono state suddivise in quelle del “maggior estimo” e in quelle del “minor estimo”. È quasi scontato che quelli del maggior estimo abbiano una preponderanza nel governo comunale e siano uniti per conservarla o farla lievitare. Per le innumerevoli dissidenze, nel 1654 si sono istituite due amministrazioni – due corpi consiliari, uno del maggior e uno del minor estimo – e, come spesso succede, il rimedio si mostrerà peggiore del male.
I podestà dei tempi, sempre più irrilevanti, sono: Gabriele Mantelli nel 1656, Grassi Polati nel 1658, Giuseppe Tremoli nel 1660 e Antonio Medici nel 1662. I governatori sono: Agostino Segnudo nel 1656, François Auguste de Valavoire nel 1657, Agostino Segnudo nel 1663. Dal 1632 al 1684 il parroco è Marc’Antonio Cattaneo. Dal 1633 il conte feudatario è Gabrio (o Gabriele) Gattinara Lignana, figlio primogenito di Mercurino III, una casata in disgregazione e in dispersione che si estinguerà nel 1681.
Molte prerogative del potere locale, però, verranno sempre più ridimensionate e accentrate sulla imprescindibile autorità centrale: ecco un motivo per cui il Seicento è considerato un secolo di transizione verso la modernità.