Il cimitero di Valenza
Un nuovo approfondimento sulla storia della città del gioiello
VALENZA – Prima dell’Ottocento i morti si seppellivano in grandi fosse comuni o, se le spoglie erano di defunti facoltosi, all’interno delle chiese (per la vicinanza delle salme alle icone e alle reliquie dei santi e dei martiri). Anche a Valenza molti defunti di una certa importanza venivano principalmente tumulati all’interno della chiesa di San Francesco o nel Duomo, mentre i restanti trovavano sepoltura in piena terra e in piccoli cimiteri urbani. Un vecchio luogo di sepoltura utilizzato dai valenzani era attiguo al Duomo, tra la chiesetta di San Pietro e il Palazzo Pellizzari.
Il proprietario del terreno e del palazzo, Angelo Simone Cordara Pellizzari, che nel 1814 sarebbe diventato sindaco, chiedeva insistentemente lo spostamento di questo cimitero perché ammorbava l’aria nei mesi estivi e impediva l’ampliamento del suo imponente palazzo. Egli, franco e un po’ brutale, si dichiarava perfino disposto a sostenere il costo per l’acquisto della nuova area.
Come li conosciamo oggi, i cimiteri prendono forma dopo l’emanazione dell’editto napoleonico di Saint Cloud del 12 giugno 1804 – applicato in Italia dal 1806 e ben noto grazie ai Sepolcri di Foscolo – che ordinava tassativamente, per motivi igienici, che i morti fossero seppelliti in un luogo un po’ distante dalla città o dal borgo. Grazie ai governanti francesi, tentati più dall’oblio che dal ricordo e con la pretesa di correggere i sentimenti personali, nasce il camposanto lontano dalle abitazioni della gente, una nuova collocazione che non lo rende più un luogo pernicioso e solo moderatamente rispettoso del sacro culto dei morti.
La Valenza napoleonica in questi anni non è una grande città, ma neanche un piccolo centro. Finisce all’altezza di via Lega Lombarda – via Mazzini ed è chiusa tra due valloni a est e a ovest e dal Po a nord. Nel 1801 conta 5.432 abitanti, di cui 3.800 in città e il resto a Monte Valenza e nella campagna. Sono circa 300 le inumazioni o tumulazioni annuali.
La timorosa e mediocre municipalità valenzana del periodo – Ricchini dal 1801 e Del Pero dal 1806 sono i sindaci, maire alla francese, che hanno simpatie napoleoniche e non sono molto interessati al consenso della gente – è riluttante ad adeguarsi all’imposizione francese. La città è costretta nel 1806, previo accordo con il Pellizzari per il trasloco delle salme e con una delibera piena di perifrasi e distinguo, all’espropriazione di una adeguata area cimiteriale fuori porta Bassignana, ben separata dall’abitato dal vallone che conduce le acque verso il fiume; la proprietà è di Vincenzo Merlani.
Ben presto si procede al trasferimento delle salme dal precedente luogo prospiciente la chiesetta di San Pietro al nuovo cimitero consacrato che ha una recinzione in muratura dal robusto cancello di ferro e una forma d’insieme che ricorda la pianta di una chiesa. Le botole delle sepolture nelle chiese vengono sigillate e le confraternite laicali diffidate a non seppellire alcun cadavere.
Con la caduta del regime napoleonico emerge un risentimento generale già maturato nel vecchio clima e finisce il grottesco divieto di personalizzare tombe e lapidi e i pregiudizi al riguardo. L’emergente classe borghese valenzana, che non aveva cappelle gentilizie e che in buona parte è ammantata di finta e contraddittoria umiltà cristiana, spinge il potere locale a concederle la libertà di realizzare edicole funerarie. Alcuni nobili proprietari di cappelle gentilizie rurali o possessori di chiese o cappelle fuori dell’abitato cittadino hanno sempre seppellito i membri della propria famiglia in quei luoghi, contribuendo a incoraggiare certe insinuazioni e rancori popolari.
In poco tempo il cimitero valenzano si trasforma in un guarnito parco sentimentale, in un’oasi di pace e tranquillità, in un nuovo spazio sacro della memoria familiare e collettiva, in un museo a cielo aperto pieno di ricordi intimi: la “corrispondenza d’amorosi sensi”. I valenzani lo visitano, portano fiori, accendono lumini sulle tombe, accarezzano furtivamente le lapidi, partecipano al rito di congedo dai loro cari, che siano parenti, conoscenti o personalità della città. Nel giorno della commemorazione dei defunti il cimitero si popola smisuratamente. Anche se siamo in un’epoca di liberalismo e l’anticlericalismo è entrato nel bagaglio culturale di una buona parte della classe dirigente locale post-unitaria, anche per loro il camposanto resta un luogo reverenziale di osservazione raccolta e sentimentale. Le inumazioni e le tumulazioni nel decennio 1830-1840 sono quasi tremila.
A fine Ottocento, tuttavia, l’area meno nobiliare e quella delle fosse comuni di questo cimitero, gestita in modo disordinato, è in buona parte in uno stato di abbandono e, a causa dell’eccedenza di salme, è ormai insufficiente al suo scopo. Per questo motivo nel 1893 la giunta comunale (sindaco Vincenzo Ceriana, 1892-1897) delibera l’ampliamento del cimitero con l’aggiunta di una superficie uguale al primo nucleo cimiteriale e, a cavallo del secolo, si svolgono i lavori di scavo e di trasporto della terra; la ditta Giuseppe Vaccario si è aggiudicata l’incarico per 50 centesimi al metro quadro. I lavori in corso svolti da imprese diverse (Visca, Cordara e altri), danno vita a certi contenziosi difficili da sbrogliare, che rallentano il cantiere più di una volta (sindaco Ferdinando Abbiati, 1897-1905).
Con una serie di regole, divieti e qualche insulsa e fastidiosa costrizione che sarà poco rispettata, viene stabilito che non si può collocare più di un cadavere nella medesima fossa, fatta eccezione per due gemelli o un bambino morto con la madre; che l’ingresso è vietato ai ragazzi non accompagnati dai genitori, agli animali e agli ubriachi. Le sepolture possono essere a cielo scoperto, isolate o contro il muro, oppure in forma di cappella; a inizio ‘900 ne sono già costruite una decina nel nuovo cimitero. L’acquisto è stabilito da un contratto con il Comune per un costo di 550 lire (circa 3.000 euro di oggi) ogni 11 metri quadri di superficie.
La morte diventa sempre di più un business redditizio che rinuncia alla dignità e all’umana pietà. Al custode spettano la pulizia dei campi e delle strada del cimitero, il controllo sull’operato del becchino o sotterratore e degli inservienti ed è il garante dell’applicazione del regolamento. Nel 1884 il custode del cimitero era un certo Francesco Ricci, che 40 anni dopo è stato sostituito per concorso dal figlio Vittorio (già secondo becchino), in modo controverso ma coerente.
Con conferme e disdette, nel Novecento ci saranno lavori di ogni genere; ampliamenti, ristrutturazioni, nuovi padiglioni con costruzioni a più piani di loculi fuori terra e imponenti costruzioni private, cappelle mortuarie osservate con sempre più disgusto da chi non se le può permettere: questo posto pubblico per il riposo eterno diventa sempre meno austero e meno sobrio.
È contro il muro di cinta del cimitero che il 12 settembre 1944 si è compiuto il tragico eccidio della Banda Lenti (in foto).
Di recente c’è stato anche un generale deterioramento dissacratorio di questo cimitero, occultato o sminuito con fatui discorsi opportunistici a tempi alterni. Ma ormai i valenzani, un tempo rigorosi, quasi non si stupiscono più; non sono mai riusciti a produrre una contestazione determinata e organica sul problema.
Occorre dire che negli ultimi tempi l’atteggiamento dell’uomo di fronte alla morte è cambiato in modo radicale; essa è diventata sempre più silenziosa e priva di ritualità – la diffusione della cremazione è emblematica in tal senso – e si è assistito a una svalorizzazione di questo impianto sepolcrale che per più di due secoli è stato il più importante punto di riferimento per ritrovare tracce del passato della città.
Nel nostro tempo potrebbe anche essere adeguato per misurare se il nostro amore dura finché l’altro ci è utile o se resta anche quando l’altro non c’è più.