L’arte orafa valenzana prima dell’Ottocento
Un nuovo approfondimento storico del professor Pier Giorgio Maggiora
VALENZA – Valenza è stata una località di antichissimo insediamento umano, ligure, preromana, romana dal 158 a.C.; si evolse poi in Foro e fortezza permanente (Castrum) che, oltre ad essere un luogo di mercato e d’amministrazione, era soprattutto un importante punto di ritrovo guarnito e una straordinaria occasione di crescita economica. Quindi si può dedurre che quasi tutti i mestieri erano in questo luogo da tempo esercitati, tra questi anche quello dell’orafo che non passerà mai di moda e non uscirà mai dalla scena.
Plinio ci ricorda l’usanza che gli abitanti di questa città “avevano di recarsi” nei pressi del fiume Po per andare alla ricerca di piccole pagliuzze d’oro trascinate a valle dalla corrente; se questo lo si associa alla nutrita presenza di militari romani, si può credere all’esistenza di diversi artigiani che, oltre a provvedere alla riparazione o al rifacimento delle armi personali, lavorassero queste pagliuzze d’oro sul posto, producendo monili più o meno preziosi. Potrebbe essere la conferma di una lontanissima tradizione dell’arte orafa in Valenza e ricordiamoci anche che sul mercato valenzano venivano commerciati diversi articoli di lusso e che ove vi era l’esercito romano non mancavano le donne ornate con questi accessori preziosi.
Dopo il V secolo, durante le invasioni barbariche, nel centro abitato situato dove oggi c’è il rione Colombina, gli aggressori si limitano a ornarsi dei gioielli miseramente depredati, scompare totalmente la presenza di gioie preziose nella popolazione locale: quasi ferma la produzione scesa al punto più basso, ennesima prova del degrado generale e di un gorgo che ormai inghiotte tutto.
Invece, per quanto c’è dato sapere, con i Longobardi si sviluppa un periodo di particolare creazione zonale (Lomello, Mede, Bassignana, Rivarone) di una rinvigorita pratica orafa. I Longobardi e gli altri popoli giunti in questo territorio nell’Alto Medioevo, sono molto meno sviluppati dei Romani, ma sono invece molto abili nella fabbricazione di armi e gioielli: tipi di lavorazioni per loro ammantate di una certa sacralità. Gli orafi longobardi sono abilissimi nel lavorare i metalli; sulle composizioni più preziose (fibule, croci, anelli-sigillo, orecchini e guarnizioni) incastonano pietre e gemme di vari colori (granati, ambre, vetri, perle) accostandole abilmente, ottenendo eccezionali sensazioni coloristiche. Nella produzione e nella decorazione delle armi utilizzano le tecniche e gli stili dell’oreficeria; la zona valenzana è per lungo tempo luogo di scorrerie di caccia dei re longobardi e franchi, con le loro lussuose e agghindate corti di alta nobiltà feudale, quali Teodolinda, Cuniperto, Liutprando, Lamberto di Spoleto che perde la vita durante una battuta in questa zona nell’anno 898.
Dopo l’anno Mille il termine orafo comprende ormai la pratica raffinata nella lavorazione e decorazione di tutti i manufatti metallici (quali monete, medaglie, bolli e sigilli). Va però messo in evidenza che la moda del tempo, ispirata al confuso fanatismo religioso, vieta l’uso di beni voluttuari, posto che qualcuno abbia i denari per acquistarli: solo gioielli da abito, i bracciali e le collane da indossare su braccia nude e decolleté non hanno più alcun senso. È soprattutto il corredo liturgico a impegnare gli artigiani valenzani; essi hanno una certa versatilità verso la scultura e il cesello per esaltare il forte rilievo delle forme plastiche: una tecnica manuale che si sviluppa anche dal fabbro, dal calderaio o da similari artefici. Continua la ricerca di pagliuzze d’oro nel letto del Po da parte di gente valenzana spesso staccata dall’agricoltura; alcuni vivono permanentemente sul fiume. Possono recuperare tre o quattro grammi di oro al giorno, anche se ciò non avviene certamente tutti i giorni. Valenza pare abbia nel ‘300 una sua zecca, comprovata da monete trovate in provincia di Como (nel 1400 a Casargo) che portano nel dritto una piccola testa mitrata e nel rovescio la croce ornata con la scritta accorciata “Santi Antonius et Georgius Astiliani, tutores Comunitatis et loci Valentiae”.
L’attuale piazza 31 Martiri è il centro di tutte le attività commerciali e artigianali; la città è divisa in tre rioni denominati di Astiliano, Bedogno e Monasso. Il perimetro di Valenza si estende a quello più o meno contraddistinto dall’attuale centro storico, dove sono aperte anche botteghe laddove si producono e si vendono gioielli. I principali acquirenti di oggetti preziosi sono il feudatario con famiglia e connessi, la nobiltà e i governanti locali, i grossi proprietari terrieri, il comandante della fortezza e della Rocca, ufficiali e sergenti che hanno la possibilità di far erigere altari e chiese.
Gli assedi e i fatti d’arme che coinvolgono questa città nel XV, XVI e XVII secolo sviluppano notevolmente la fabbricazione manuale militare locale. Dietro l’orrore della guerra si nasconde anche il business del tempo. Ed è appunto l’esame di quest’elemento artigiano-militare che fa sostenere la teoria di una ormai indiscussa attitudine valenzana alla trattazione di manufatti metallici, uno dei punti cardine dell’artigianato valenzano. Sono numerose le botteghe e i laboratori costantemente impegnati al rifacimento o alla costruzione dell’abbigliamento e armamentario bellico. Tra i metalli non preziosi utilizzati nelle decorazioni è molto trattato il rame con le sue leghe.
Altro aspetto non trascurabile è l’estesa presenza spagnola che in questi secoli influenza decisamente la produzione orafa locale, arricchita profondamente di contenuti simbolici come parte imprescindibile dei preziosi monili indossati dalle nobildonne per esprimere fasto e ricchezza o, come costume, in gran parte donati per grazia ricevuta a Santi e Madonne. L’oreficeria, già dal XIV secolo, ha perduto il suo carattere prettamente decorativo per trasformarsi in un’arte vera e propria. Nel secolo XV è diventata un po’ come la reggente di tutte le arti, e quasi tutti gli artisti passano, nella loro giovane età, giorni e giorni seduti al piccolo desco dell’orafo per creare manufatti preziosi.
Le chiese valenzane fanno a gara per avere nel proprio corredo sacro oggetti religiosi fregiati in oro e argento, generalmente sbalzati con ricchi motivi architettonici, quali: crocefissi, calici, pastorali, turiboli, reliquiari, ecc. L’unico colore più ricercato e più desiderato che nessuno è in grado di riprodurre è quello dell’oro. Per riuscire ad ottenere le lamine dello spessore adatto alle esigenze dell’epoca questi artigiani martellano le monete d’oro fino a ottenere vere e proprie “foglie” sottili come un velo che vengono poi applicate sulle tavole utilizzate anche all’interno delle Chiese.
La popolazione valenzana nel Quattrocento è composta di circa un migliaio di famiglie (3.500-4.000 abitanti). Oltre al Duomo l’elenco delle chiese e abazie cosparse di oggetti preziosi religiosi è rilevante: San Francesco, Sant’Antonio, San Bartolomeo, Santo Spirito, Santa Croce, San Giacomo, SS. Nicola e Paolo, San Giovanni, San Giorgio.
La statura militare di Valenza è in continuo aumento; è un importante avamposto della Lombardia spagnola verso il Piemonte sabaudo e il Monferrato dei Gonzaga (Marchesato e poi Ducato dal 1575, solo formalmente indipendente). Una città continuamente guarnita e rafforzata, sia per necessità che per opportunismo. Le truppe presenti necessitano di un apparato di sussistenza, che congloba generi di vettovagliamento come le attrezzature militari e il rifacimento di quanto è andato perduto o deteriorato. Addobbi e ornamenti su armi da difesa e offesa, armature intere, armi da fuoco, spade, scudi, elmetti e balestre sono solo alcuni dei lavori richiesti agli orefici locali. La peculiarità delle armature è la decorazione delle superfici con la tecnica del bulino e dell’incisione; interessanti risultano anche le armature sbalzate, con tutti i loro apparati iconografici comprendenti figure alate e allegoriche, ghirlande e decorazioni floreali, mascheroni e figure mitologiche. Valenza è perciò, anche nei frangenti bellici, una città di notevolissima importanza per fare fronte a queste richieste.
I produttori orafi-argentieri, durante questo periodo rinascimentale, per l’esecuzione di certi monili si ispirano all’antichità, utilizzano oro e argento, con rame, perle ed avorio. Le gemme più usate sono diamanti, smeraldi e rubini. Per i lavori religiosi armonizzano con maestria nuovi motivi, distribuendo ghirlande, fiori, cherubini, nastri e volute. Hanno generalmente una completa autonomia decisionale sul manufatto, tutelata spesso dal loro possesso della materia prima. A Valenza vi sono alcune botteghe-negozi di genere vario in cui si possono acquistare anche oggetti in oro e argento; sono spesso condotte direttamente da “maestri” congiunti delle famiglie possidenti (Schiffi, Salmazza, Aribaldi, ecc.).
In questa piazzaforte artisti come il pittore fiammingo Gozzero e il Moncalvo, abili costruttori come De Marziani e i Gamberana fanno conoscere la vera arte che finalmente incoraggia le ambizioni frivole e superficiali dei signorotti valenzani, sinora orientate a un’accuratezza di tipo squisitamente locale fatta di somiglianze, imitazioni e plagi.
Nell’ultimo periodo storico prima dell’Ottocento (finora considerato il secolo di nascita dell’oreficeria valenzana), l’attività economica generale locale si incrementa considerevolmente; crescono diverse filande e un’industria di fustagni (tessuti) che occupano grandi quantità di donne; rinomata è altresì la fabbricazione di vasi atti a contenere il vino e sempre più dinamico è il commercio attraverso i ponti di barche sul Po. Anche le poche botteghe orafe di Valenza dei secoli XVI e XVII e specialmente, in un ambito molto più ampio, le molte della vicina Alessandria (Aloisio de Oliva, Domenico e Filippo de Sarachis, Grillo, ecc.) non cessano di produrre manufatti e gioielli, spesso con l’aggiunta di pietre preziose. L’arte dell’oreficeria profana alessandrina sfoggia le sue artistiche applicazioni anche nelle suppellettili da tavola e nel costume. In tutto ciò, l’artista orafo o argentiere di questo territorio esibisce la sua creatività nelle ornamentazioni di figure, animali, fregi e composizioni classiche nelle fruttiere, candelieri, saliere, piatti, vasi, coppe, nei manici delle posate; ognuno di questi oggetti in argento o oro, generalmente basso a 14 carati, sono ragione sufficiente per cui l’esecutore mostri tutta la sua capacità creativa e la sua abilità. Il nuovo Duomo di Valenza, aperto nel 1622, con i suoi ornamenti e decorazioni impegnerà per lungo tempo, con fervore e con profitto, orafi e artigiani locali.
In questi secoli (‘600 e ‘700) lo stesso artigiano spesso esercita sia da fabbricante autonomo sia da dipendente. Il giovane praticante generalmente partecipa nell’attività quotidiana svolta dal suo maestro: la bottega perciò è, al tempo stesso, il luogo del produrre e dell’apprendere. Quello dell’orafo è un mestiere che si è quasi sempre tramandato di padre in figlio e che si è avvalso, fino ad oggi, di strumenti semplici pressoché medesimi e delle grandi abilità manuali degli esecutori, poiché possono variare le mode e i costumi ma cambia poco la tecnica di produzione.
Alessandria che da tempo (secoli XVI-XVII-XVIII) spadroneggia in questa produzione, ha diverse botteghe e laboratori di oreficeria e argenteria (Ceresa, Guidetti, Vittale, Pugliese, Parasole, De Lorenzi, Perotti, ecc.) che, con meriti e capacità, già nel Settecento fornisce qualche qualificato orefice a Valenza imprimendo in seguito un contributo concreto e sovente decisivo all’originale sviluppo e all’estensione della produzione orafa valenzana nell’Ottocento (Bigatti, Zacchetti, ecc.). Verosimilmente, quindi, un artigianato trapiantato che con pochi dubbi si può considerare il padre dell’arte orafa valenzana successiva, anche se apertamente mai asserito.
Forse un giorno emergeranno prove tangibili che i ritenuti capostipiti degli orafi valenzani (Caramona, Morosetti, Melchiorre, ecc.) avevano avuto lontani predecessori anche tra la popolazione ligure locale della preistoria.