L’esecuzione atroce del 25 aprile 1945 a Valenza
Pier Giorgio Maggiora racconta della morte dei tre antifascisti Nebbia, Tortrino e Valeriani
VALENZA – Mentre in un contesto ancora incerto Valenza festeggia la liberazione (avvenuta in parte nella notte del 24 aprile) e sulla zona volano aerei alleati che mitragliano le file nazifasciste in ritirata, inizia a circolare una tragica notizia: tre partigiani valenzani Mario Nebbia (26-6-1926), Giovanni Valeriani (7-9-1920) e Carlo Tortrino (11-7-1900) sono stati fucilati. Questa è la cronistoria di questa drammatica vicenda traboccante di disumanità che ha suscitato nei valenzani una profonda indignazione e che ha finito per acuire l’astio tra le parti. Il sapore intenso di quei giorni e del tragico episodio consegnerà a molti un gusto amaro della vita e dello stare al mondo. È anche giusto continuare a parlarne, per capire una volta di più come non dobbiamo essere e dove non dobbiamo mai più arrivare.
All’alba del 25 aprile 1945 i tre antifascisti, incaricati alla guardia di porta Po, rincorrono e catturano un repubblichino (Annaratone), attivamente ricercato per tutta la notte, mentre spogliato della sua dignità (degradata a pura apparenza) cerca di guadagnare la riva lombarda del Po. Nel frattempo al terzetto partigiano si è aggiunto Giuseppe Nebbia (fratello di Mario); mentre il gruppetto sta rientrando in città incappa in un reparto di militari tedeschi in ritirata (pattuglia di Kriegsmarine e aviatori) il quale rilascia il prigioniero repubblichino e ferma i quattro: pensare a una situazione peggiore per i partigiani è quasi impossibile. Risultano vane le loro lagnanze affinché si avverta la gendarmeria tedesca di Valenza perché questa assicuri l’osservanza delle condizioni di tregua pattuite nella notte. Dopo circa mezz’ora di fermo, i quattro partigiani vengono consegnati ad una sopravvenuta colonna della XXXI brigata nera “Generale Silvio Parodi” di Genova anch’essa in fuga, con camion e automezzi pieni di refurtiva e avviata verso il traghetto, comandata dal maggiore Bonavia. I brigatisti neri genovesi (sono un corpo ausiliario volontario delle Forze Armate della Repubblica Sociale Italiana) conducono su di un camion i quattro valenzani sulla riva del fiume e senza troppi preamboli, seguendo quell’impulso che è stato loro impresso e quasi incapaci di capire la gravità delle proprie azioni, si accordano sbrigativamente tra loro per l’immediata fucilazione.
Giovanni Valeriani
Spogliati di scarpe e vestiti e sottoposti a volgari derisioni e insulti, gli sventurati sono portati nel folto boschetto, disposti in fila e passati per le armi alla schiena da quattro uomini ebbri di sé della brigata nera: il capitano Purinan, il tenente Galno, il sottufficiale Ponzanelli e il militare Gargiulo. Dopo gli spari, Giuseppe Nebbia, che si trova miracolosamente illeso (è quindi ragionevole ipotizzare che qualcuno degli esecutori non lo abbia colpito volutamente), cade tra il fratello Mario e il compagno Giovanni Valeriani fingendosi morto e fortuna vuole che venga inspiegabilmente risparmiato dal colpo di grazia che i fascisti danno agli altri tre fucilati.
Mario Nebbia
Atteso che tutti si siano allontanati dal luogo dell’eccidio, Giuseppe Nebbia strisciando passa i reticolati del torrente Grana, si immerge e nuota sino alla sponda opposta da dove, di corsa tra gli alberi, raggiunge un cascinale contadino e la salvezza. Scampato alla morte per puro caso e in stato di choc, riceve quindi le cure immediate dal dott. Nilo Ottone suo compagno di formazione.
Carlo Tortrino
Nel frattempo arriva in ritardo sul luogo il capo partigiano Renzo Cavanna che, avvisato tempestivamente, aveva preso contatto con la Feldelgendarmerie (polizia militare tedesca) ottenendo una scorta per raggiungere i comandanti della colonna fascista onde avviare una trattativa di scambio. Forse improbabile, ma possibile.
Nel pomeriggio la situazione locale precipita nuovamente per l’arrivo di un’altra macabra colonna di brigate nere che distribuiscono raffiche di mitra contro gli edifici; alcuni ostaggi vengono messi al muro, il comando partigiano (a Pecetto) ricattato libera diversi prigionieri, ma i combattimenti più aspri avvengono sulla Colla finché “in sul calar del sole” gli implacabili camerati tolgono il disturbo attraversando il Po prima che sia per loro troppo tardi.
Nel dopoguerra ci sarà un’inchiesta penale per l’omicidio di Nebbia, Valeriani e Tortrino. Nel processo, svoltosi ad Alessandria nel novembre 1946, gli esecutori saranno condannati a morte ma nessuna delle condanne verrà però eseguita per decisione della Corte di Cassazione.
E per capire l’aberrante realtà vissuta in quei giorni, in un clima di insopportabile e spietata violenza, di rappresaglie, di utilizzo della forza in maniera anche gratuita alla faccia degli ideali, ecco un dettaglio agghiacciante: all’esecuzione sommaria descritta ha assistito una donna che con atroce e fiammeggiante spudoratezza, aggiungendo infamia alla barbarie, incoraggiava e incitava a fucilare i quattro partigiani.