Una rapina a un orafo e un fratricidio nella Valenza rinascimentale
Un nuovo approfondimento storico del professor Maggiora
VALENZA – Nel Quattrocento si registrano nella nostra zona numerose e pervasive attività drammatiche di banditismo; spesso sono persone che sono costrette per sopravvivere ad aggredire mercanti e viaggiatori, diventando così pericolosi malfattori. In questi tempi la condizione di pericolo è permanente, specialmente per chi porta beni di valore; di milizie locali e cittadine nei percorsi esterni non se ne vedono molte, i poteri non riescono a tutelare la sicurezza dei viaggiatori. Purtroppo le attenzioni usate da chi smercia gioielli per evitare le rapine saranno sempre insufficienti, continuamente costretto a guardarsi alle spalle; quasi una maledizione sino ai giorni nostri. Anche le tante avventure belliche della zona, affidate spesso a un pugno di esaltati del tempo, hanno inevitabilmente innalzato il livello di pericolo: in fondo sono pochi quelli che se la passano bene e non rischiano molto.
È alla luce di tale contesto che verso la metà di questo lontano secolo (il Quattrocento), dopo la scomparsa dell’autoritario e sanguinario condottiero, Signore di Valenza, Facino Cane (morto nel 1412), il passaggio della città dai Visconti ai Savoia e quindi agli Sforza, un importante orefice in attività a Milano (capitale del Ducato di cui fa parte Valenza) Antonio Vimercati, parente dei signori di Valenza, intraprende su di un cavallo il viaggio per partecipare con i suoi prodotti alle redditizie fiere e operazioni commerciali che si tengono a Valenza. Le fonti storiche non indicano una rilevante attività orafa locale, in città pare vi siano due botteghe in cui si possono acquistare oggetti in oro e argento, molto probabilmente forgiati dagli stessi negozianti; generalmente gli orefici esercitano presso committenti nelle ricche città e presso le corti, non certamente in piccole piazzeforti sempre al centro di guerre e ripetutamente sottoposte ad assedi.
Ovviamente il Vimercati porta con sé una rilevante quantità di preziosi ed è quindi un soggetto tra i più esposti. Il tragitto intrapreso non è dei più tranquilli, le strade da percorrere sono anche assai disagiate e soprattutto infestate, come già detto, dai briganti. Infatti, quando il milanese sta per avvicinarsi alla sua meta (Valenza), proveniente da Casale (pertanto dal Marchesato di Monferrato), viene fermato da due ceffi non troppo affidabili i quali, col pretesto di controllare se porta documenti pregiudizievoli contro lo Stato del Marchese, lo assalgono e lo rapinano di tutti i preziosi in suo possesso, minacciandolo pure di morte se avesse resistito, lasciandolo infine spogliato in mezzo alla strada, senza più la sua valigetta piena di gioielli e quasi morto di paura.
Una rapina veloce e ben organizzata con un bottino notevole, forse già allora pianificata da qualche improbo che conosceva bene le abitudini della vittima. Uno dei malviventi armato di spada è un certo Antonio Bichigneri di Voghera (poi individuato) mentre l’altro non identificato era armato di alabarda detta “partigiana”. Il malcapitato, ripulito e pure sbeffeggiato, andando su tutte le furie, a ragion veduta, chiederà più volte anche in modo poco decoroso una sacrosanta giustizia senza però ottenerla. La medaglia d’oro del disattendere e dello scaricabarile va certamente ai reggenti il Ducato di Milano che in questi anni è in piena anarchia.
Questa è forse la più antica rapina che conosciamo subita da un rappresentante o produttore orafo abbandonato ad arrangiarsi in questa preoccupata città la cui casistica potrebbe allargarsi a dismisura sino ai giorni nostri: un allarme perpetuo per Valenza.
Nella seconda metà del Cinquecento, nella casa in sorte Bedogno, ancora oggi esistente, all’incrocio di via Cavour (l’antica strada degli Stanchi) e via Pellizzari (la vecchia strada al Castello), di fronte all’attuale farmacia, appartenente all’epoca alla nobile e antica famiglia Guazzo, avviene un agghiacciante e insensato delitto.
Non corre buon sangue tra i fratelli Guazzo Giovanni Matteo e Giacomo Vincenzo per motivi che non possiamo sapere, o forse, da come è stato descritto, è un rapporto di amore fraterno che si è trasformato in odio per una ragione estremamente banale producendo l’evento più funesto e crudele per questa famiglia.
Si racconta che nella scomposizione di un cocomero i due fratelli giungano a litigare aspramente sino a mettere mano ai coltelli e Giacomo Vincenzo al culmine del raptus perde la testa e uccide il fratello.
La casa dove si è consumato il delitto
L’omicida, descritto da molti come tipo scontroso e di poche parole, ma ritenuto comunque incapace di fare del male a qualcuno, salito in fretta su di un cavallo, fugge spaventato verso la Porta Monasso (poi Porta Casale) espatriando nel Marchesato del Monferrato, con il dolore e la consapevolezza di aver compiuto un’atrocità delle peggiori, Tutti a Valenza sono molto sorpresi e rattristati per quanto accaduto e il caso suscita molta indignazione. In secondo luogo, nessuno se la poteva immaginare una cosa del genere.
In contumacia il Podestà di Valenza Tommaso Capanna, considerandolo anche vile per la latitanza, lo condanna alla pena capitale con una sentenza del 22 settembre 1576. Tuttavia, dopo due anni di renitenza, la madre Margherita Basti vedova di Antonio Maria Guazzo (padre di Giacomo Vincenzo), erede universale dell’ucciso, il 24 novembre 1578 concede il perdono al figlio fratricida il quale ottiene così, in una forma di misericordia, la farsesca grazia; il tutto in modo tortuoso, poco giustificabile e con ruffiana e opportunistica furbizia di pentito. Un gesto slegato da qualsiasi obbligo di legge o condanna morale, dove lo spazio di discrezionalità travalica ogni supremazia e logica di equità. Il provvedimento (una bestialità giuridica dei tempi) la dice lunga su un potere extra e sovra istituzionale posseduto dal Principe o da chi ha potestà. Dicevano i latini: “Est modus in rebus” (esiste una misura nelle cose).
Ma, in un tempo contaminato come questo, vale tutto; Valenza è retta ambiguamente, e spesso con disdoro, dagli spagnoli Don Diego di Cordova, Ventura de Alcolze, Giovanni Narbaez de Marchoa e dal feudatario Alessandro Lignana Gattinara (un demiurgo funesto, più di quanto non appaia).
Il palazzo, luogo della tragedia, che sarà acquistato nel 1609 dal famoso giureconsulto Bernardino Stanchi, in tempi più recenti era noto come casa Menada.