Natale a casa Bellagioia
Una roba che ho deciso così, in un paio di giorni: cotta e mangiata, si può dire.
Era una mesata buona che stavo un po’ a corto di grana, almeno da quando, durante l’ultimo colpo, al momento di saltare da un balcone all’altro, avevo appoggiato male il piede ed ero volato giù come un fagiano impallinato, per una decina di metri, fratturandomi il perone a fine-corsa. Diagnosi: due mesi da trascorrere fermo ingessato. Gli ultimi liquidi che ancora mi erano rimasti me li ero bevuti così, a sflanellare steso dentro la roulotte dei miei, tra ciospe, Camparini, qualche festicciola tra amici e poco altro.
Avevo voglia di alzare qualche brecola dopo tutto quel tempo, tanto più che si stava sotto le feste e io non vedevo l’ora di sgranchirmi un po’. Alla fine della scorsa settimana per pura combinazione la mia famiglia giostraia arrivò a mettere le tende e inchiodare le assi del baraccone proprio da ’ste parti. Non appena, dal finestrino del caravan, smicciai la scritta d’ingresso della cittadina “Benvenuti a Mezzalora” associai automaticamente quel nome alla… Famiglia Bellagioia!
In tutti quei giorni trascorsi a rigirarmi i pollici steso su di una lettiga basculante per ammazzare un po’ il tempo mi sparavo qualche programma tv, ma più che altro mi appiccicavo a internet, grazie al padellone che torreggia sul tetto del bolide con cui scorrazziamo per mezza Europa. Mi ero appassionato in particolare a una serie ideata da dei gioviali Youtuber. Con mio nipotino Pepy non ci perdevamo una puntata di questa seguitissima famiglia. Padre, madre, figlio maggiore e sorellina. La tipica famigliola unita e serena. Sin dallo slogan che introduceva al loro canale, si autodefinivano: “La famiglia più zuzzurellona di Youtube!”.
Ci stavo ore, con Pepy in bilico sul ginocchio buono, a sciorinarmi tutto il santo giorno i loro video mattacchioni. Chiaro perciò che, appena occhieggiai il nome della cittadina mi si accese un interruttore. Mezzalora… Mezzalora… Ma certo! Mi balzò in mente che là stavano. Non che loro ci tenessero più di tanto a localizzare con troppa precisione il posto dove risiedevano. Ricordavo però di aver notato l’indicazione toponomastica su uno scatolone spedito, come al solito, per scopi pubblicitari da qualche fabbrica di giocattoli, durante un unboxing. Nello zoom, per evidenziare il mittente, si poteva anche leggere distintamente la destinazione. Mezzalora per l’appunto. Lo si leggeva anche qua e là di sfuggita quando i quattro partivano per qualche spedizione fuori-sede. Ero certo di essere nel posto giusto.
Mentre una parte di me si pigliava una piccola soddisfazione dalla coincidenza di infrociare proprio dove campavano quelli che avevano occupato i miei penosi pomeriggi e mattinate con la gamba in trazione, quasi nello stesso momento mi si appicciò la benedetta lampadina: un pensiero ben più alluzzante si impossessò del mio organismo prima ancora che del mio comprendonio, pervadendomi con una calda sensazione di benessere la cui ragione sulle prime stentavo ad afferrare appieno.
Finché non ci arrivai: Casa Bellagioia era il colpo perfetto. Conoscevo quella villetta a due piani come le mie tasche buche, dopo aver visionato quel mucchio di filmati per ore. Per deformazione professionale, non mi ero limitato a godermi le avventure casalinghe del simpatico nucleo famigliare. Al mio cervello da mariolo veniva automatico registrare ogni dettaglio della loro allegra dimora. Li avevo seguiti in ogni momento della giornata, dalla morning routine al bed time, avevo osservato ogni anfratto. Conoscevo a memoria casa loro, meglio di chi l’aveva costruita. Ci avrei potuto girare dentro a occhi bendati.
Mi diceva pure culo che nell’ultima puntata caricata sul loro canale, avevano annunciato che proprio quel pomeriggio si sarebbero assentati per lo shopping festivo, di cui si ripromettevano di dare ampia testimonianza nelle prossime puntate.
Sì, sì, lo capivo io per primo che era una mezza carognata approfittare della buona fede di gente che aveva avuto il potere di distrarmi un po’ in quei giorni di para dura, eppure, come si dice? Il lavoro è lavoro! Peggio mi sarei sentito a ignorarla, un’occasione come quella. Già mi veniva l’acquolina in bocca solo a immaginare la ghiotta refurtiva che ci avrei rimediato. Lì dentro, ci avrei jackpottato, me la sentivo.
Mentre il parentado era impegnato a tirare su giostre, chioschi, taboga e via dicendo, io, ancora convalescente, partii a fare il giro delle periferie in sella al motorino di mio cugino Brando tanto per vedere se riuscivo a sgamare dove stesse di casa quella manica di fresconi.
Le clip “in real life” girate intorno alla residenza abbondavano. C’era stata la volta in cui tutti insieme si erano messi a falciare il prato davanti casa con il tosaerba inviato nuovo di pacca da uno dei tanti sponsor, quello che gli copriva i video sul giardinaggio. Papà Bellagioia zigzagava tutto pimpante per il praticello, magnificando la maneggiabilità del macchinario, seguito dalla figlia e dalla moglie che, come un’accoppiata di Vispe Terese, gli salterellavano a fianco canticchiando giulive. Troppo impegnato ad autoinquadrarsi con lo smartphone, aveva finito per passare sopra i piedi del figlio, che in quel momento se ne stava un po’ in disparte, appoggiato a una sdraietta in bermuda e infradito a godersi i primi soli. Come al solito gli altri tre provarono a metterla in burla, nonostante il figlio salterellasse a destra e a manca gridando a squarciagola col piede in mano che sparava una fontanella di sangue sull’erba appena livellata, girandogli intorno col loro solito buonumore, mentre papà Bellagioia, con lo sguardo dritto nell’obiettivo e l’alluce del figlio stretto tra le dita, cavalcava la situazione: «Visto, amici? Wosh si riconferma il miglior tosaerba nel settore elettrico. Come trancia via lui ce n’è pochi… Se vi è piaciuto scrivetelo nei commenti!».
C’era il video di quando avevano messo la piscina gonfiabile su un lato della casa e ci si tuffavano dentro dal trampolino tra schiamazzi e battaglie a pistole d’acqua, sinché il vicinato non aveva fatto intervenire le forze dell’ordine per disturbo della quiete pubblica.
Quello nel retro di casa, intitolato “Bbq domenicale”. A un certo punto dell’abbuffata, era partita la gara. Papà Bellagioia aveva sfidato il figlio a chi si ingozzasse di più hamburger nel giro di tre minuti. Aveva stravinto il ragazzo, ventidue contro sedici. Al giubilo del vincitore, dopo qualche minuto che andava avanti umiliandolo con canzoncine del genere: «Perdente! Perdente! Perdente!», il capo-famiglia, senza mai spegnere il sorriso a trentadue denti, aveva risposto cospargendolo di liquido infiammabile per barbecue e spintonandolo verso la griglia. La questione era stata prontamente risolta dalle due donne, che avevano fatto in tempo a spegnere il consanguineo versandogli addosso le loro Caipirinhe con ombrellino. C’era anche il video di Halloween, se è per questo, quando avevano addobbato l’intera facciata con scheletri e pipistrelli di plastica, lugubri festoni, zucche illuminate dall’interno. Poi, verso sera, si erano appostati ridacchianti dietro l’entrata ad aspettare i pischelli. «Dolcetto o scherzetto?». Tanto per ridere, avevano riempito i sacchetti dei bambini di pastiglie di Guttalax fatte su nelle carte di caramella. Tempo mezzoretta, avevano girato casa per casa, nel loro quartiere, per riprendere dalle finestre dei bagni i poverini acquattati sui water a spingere come dannati. Ah, che burloni, quei quattro!
Condensate in pochi mesi, avevo visionato le puntate di anni. Si può dire che conoscessi casa loro da ogni angolazione, insomma.
Infatti, dopo tanto gironzolare, alla fine la spuntai. Non fu facile, visto che stavano parecchio decentrati, in uno di quei quartieri-dormitorio oltre le periferie, con una serie di villette a schiera tutte uguali, con l’erba rasata tutta uguale, con i festoni natalizi e i babbi natali appesi alle finestre tutti uguali. Vista una viste tutte. E infatti mi bastò adocchiarne una qualsiasi per capire che avevo fatto bingo, che pure loro dovevano stare da quelle parti. Siccome non era una zona dal grande viavai, tutt’al più ci passava ogni morte di vescovo un residente sulla sua bella berlina lucida come uno specchio, a passo d’uomo, se avessi sgommato lì attorno qualcuno se la sarebbe potuta anche dare, perciò parcheggiai il motorino dietro un cartellone stradale e me la scarpinai quatto quatto, cercando di dare nell’occhio il meno possibile e riparandomi ogni tot dietro una di quelle grandi sculture in vetroresina retroilluminato a forma di abete o di angelo poste lungo la strada privata.
Capire quale fosse Casa Bellagioia fu un gioco da ragazzi: era l’unica con due grosse orecchie attaccate ai fianchi della costruzione e due occhioni in poliuretano appesi al sottotetto, rimasti da quel video in cui si erano inventati che la casa avesse preso vita e se li volesse mangiare. Se quello non fosse bastato, c’era un’asta in cima al tetto da cui penzolava la bandiera col logo fatto per il loro canale Youtube: le loro quattro caricature photoshoppate sul Monte Rushmore.
Eccotela lì, la caverna di Alì Babà, mi dissi, sfregandomi le mani.
Mi addentrai nelle incerte tenebre del crepuscolo, tra il caì caì dei cani da guardia delle varie villette ai lati e i faretti ad accensione automatica, che schivavo rotolandomi sui prati all’inglese sepolti sotto uno strato di neve alta un’unghia.
Tippi era schiattata da quattro anni tutti, ricordavo. Per cui ero certo che non mi sarei imbattuto in alcun ringhioso canide presso la loro abitazione. Le avevano anche dedicato un’intera puntata, durante la quale avevano seppellito la Chihuahua nel giardino con tutti gli onori, dentro una piccola bara fucsia. «Se la cerimonia vi ha commosso scrivetelo nei commenti!» aveva tenuto a chiudere il video la signora Bellagioia, con voce rotta dai singhiozzi.
Sgattaiolai nell’ombra della veranda. Rimasi un filino deluso quando scoprii che sul campanello non c’era scritto “La Famiglia Bellagioia”, con un’esplosione di glitter tutt’intorno magari, ma un più dozzinale “Mezzacapa”. Conoscevo pure l’“Apriti sesamo!”: avevo tenuto a mente quando la figlia si era dovuta fiondare in casa, inseguita da un follower in amore, mentre babbo riprendeva tutto sghignazzando. Ricordo ancora che, mentre tutta tremante cercava di digitare il codice, non faceva che ripetersi: «La data dell’assegnazione del Creator Award d’oro! La data dell’assegnazione del Creator Award d’oro!».
Mi è bastato andare a controllare: la data era il 12.08.15.
Digitai le sei cifre sul pannello di controllo avvitato un palmo sopra il campanello. Clanc! La porta mi si aprì davanti come le gambe della mulatta del tirassegno alla seconda bottiglia di lambrusco.
L’abitazione era sepolta nel buio più pesto, ma anche così, dopo la sfilza di room tour che mi ero sorbito, potevo girarmela a tastoni. Scivolando lungo il tappetone di peluche dell’entrata, a destra del portaombrelli di SpongeBob, stascai una torcia elettrica schermata con un pezzo di carta velina e mi diressi a colpo sicuro verso la cucina, al piano terra, svoltando subito dopo lo sgabuzzino sulla sinistra, dove senza troppe lungagnate mi avventai su quel frigo e quella dispensa rimirati le mille volte in cui la signora Bellagioia veniva immortalata a preparare qualche sana merendina senza conservanti per i cari figlioli. Inzeppai a tappo uno dei sacchi che mi ero portato dietro con tutto il ben di dio recapitato agli youtubers da un plotone di industrie alimentari in occasione dei tradizionali raduni famigliari per il Santo Natale: alte pile di scatolette di paté d’anatra, panettoni artigianali, tartufi bianchi grossi quanto il pugno di un uomo adulto, vaschette colme di caviale Beluga, capponi ripieni e, per concludere, un rosario di cotechini e zamponi soffici e paffuti come il culetto di un bebè. Già prevedevo le moine che mi avrebbero fatto i miei al cenone nello slumare quella ricca imbandigione, loro che, bene che andasse, gli anni scorsi se la sfangavano con un portapasta ripieno di noodle da 50 centesimi la confezione conditi con quello che c’era ancora di commestibile dentro il bidone dell’umido più vicino.
Prima il dovere poi il piacere: una volta che avevo risolto le prime necessità, potevo tranquillamente passare al superfluo, raccattando per tutta casa le strenne destinate ai miei cari, tra la montagna di gadget arrivati dalle ditte affinché i Bellagioia ne facessero da testimonial… Conoscevo meglio io la disposizione delle stanze del geometra che le aveva disegnate: il corridoio dove i figli si esercitavano con i waveboard nuovi nuovi nella puntata sponsorizzata, in maniera subliminale, da una marca di skate, la prima porta a destra con la cameretta dei ragazzi dove si testavano in diretta i giocattoli nuovi, la terza porta con la camera matrimoniale dove si rodavano i giocattoli di mà e pà Bellagioia (però soltanto da una certa ora in poi), e così via. Tutto pinzo di pacchi regalo ancora da scartare, freschi di catena di montaggio.
Allora… il drone bimotore per zio Dragan, che ci fa i sopralluoghi sopra le villette prima di entrare in azione, la termo-coperta per nonna che tiene i reumi, per mio nipotino Pepy il MacIntosh, che gli piace Tik Tok e a smicciarselo tutto il giorno dall’i-Phone che ho barbato apposta per lui dalle vetrinette dell’Esselunga a pasqua scorsa si rovina la vista, per mia morosa una parure tempestata di brillocchi, che non sbagli mai.
Sono uscito da là dentro che stavo più carico di Papà Natale in persona. Mi sarei scippato pure tutto l’abete addobbato che, con i suoi tre metri di altezza, dominava il salone centrale, ma sarebbe stata una bella impresa montarlo sulla motoretta che avevo cavalcato sino a lì.
Giusto in tempo: mentre già entravo in coppia, sfrecciando via dai paraggi con la mia slitta improvvisata, occhieggiai la trionfale entrata nel vialetto di casa da parte del ben noto Land Rover dei Bellagioia, sul quale si erano filmati così di frequente mentre cantavano tutti trullini “Quel mazzolin di fiori” col fischio e il bum sulla strada per qualche convention da cosplay per esempio, come quella volta che il conducente, distratto dalle riprese, si era schiantato contro un palo della luce e ne erano usciti con i costumi da Peppa Pig tutti insanguinati.
La sera, con un misto tra orgoglio e senso di colpa, mi godetti lo streaming in cui i quattro giravano a smartphone in mano con gli occhi affranti e la bocca tremolante per mostrare la casa appena svaligiata.
Non resistetti: siccome mi era piaciuto parecchio rifornirmi aggràtis di tutto quello sbrilluccicante ambaradan, glielo scrissi nei commenti. Fu così che mi pizzicò la Madama, mannaggia a internet…