Il ritorno di “Heimat 2” di Edgar Reitz
«E un giorno, il 12 ottobre 1985, mi è venuta l’idea di realizzare Heimat 2. Ho attaccato al muro un grande foglio con su scritto “Die Zweite Heimat”, mi sono seduto e ho iniziato a riscrivere tutto in ordine cronologico. Dopo due anni avevo il copione: duemila pagine». (Edgar Reitz)
È uscito da pochi giorni per le edizioni Ripley’s Home Video, in un’edizione dallo styling rinnovato comprendente sette dvd, “Heimat 2 – Cronaca di una giovinezza (“Die zweite Heimat. Chronik einer Jugend”, 1992), il capolavoro del regista tedesco Edgar Reitz che – nel contesto di un’affascinante trilogia della memoria – mette in scena i sogni, i desideri, le illusioni e il fervore creativo di un gruppo di giovani artisti nella Monaco degli anni Sessanta.
La storia del lungo e laborioso lavoro creativo che conduce Reitz – uno dei maggiori esponenti del Nuovo Cinema Tedesco nato dal celebre Manifesto di Oberhausen del 1962 – esprime appieno sia la bellezza che la complessità di quest’autentica ‘opera-mondo’, assimilabile alla grande letteratura romanzesca europea del primo Novecento.
Reduce dal successo mondiale di Heimat, nel 1984, Reitz si trova, finalmente, nella condizione di ottenere i finanziamenti necessari per portare avanti la cronaca-storia della famiglia Simon di Schabbach. Mentre si trovava ancora sul precedente set ha scritto un trattamento basato su di una raccolta di brevi racconti, dal titolo “Uomini e donne” (“Männer und Frauen”), che lo conduce a firmare, nel maggio del 1985, un contratto con la Westdeutscher Rundfunk Köln (WDR), l’emittente radiotelevisiva pubblica del Land tedesco della Renania Settentrionale-Vestfalia.
Nell’autunno dello stesso anno si trova il titolo del soggetto, da subito quello definitivo, a differenza di quanto accaduto con “Heimat”: “Die zweite Heimat” contiene l’evidente riferimento a una ‘seconda patria’ diversa da quella di nascita, intesa come meta ideale da perseguire, anche a livello simbolico.
Il casting e la scelta delle location, che si svolgono per buona parte del 1987, sembrano di complessità maggiore rispetto a ciò che si è reso necessario per le undici puntate di “Heimat”: a Monaco – che farà da sfondo alle vicende di “Heimat 2” – Reitz cerca di ritrovare le antiche vestigia della Tana della Volpe, la villa di fine Ottocento nel quartiere fin de siècle di Schwabing da lui frequentata negli anni Cinquanta insieme a un gruppo di giovani colleghi artisti (il cenacolo protagonista di questo secondo ciclo della saga), ma scopre che è stata demolita e ripiega sulla poco lontana cittadina di Gauting.
Il regista di Morbach modella, invece, la Monaco del decennio raccontato dal film (1960-1970) nella Monaco contemporanea, ricostruendo ogni elemento con maniacale precisione, dai luoghi ai negozi, dagli elementi d’arredo alle automobili, per arrivare addirittura ai vestiti indossati dai personaggi in scena.
La scelta degli interpreti è subordinata a un criterio di selezione molto severo: i candidati dovranno dimostrare di possedere, oltre alle doti attoriali, anche abilità artistiche analoghe a quelle dei loro personaggi, per la maggior parte musicisti.
Alla fine dei provini il regista scrittura, per i personaggi del pianista e compositore Volker Schimmelpfennig e del poliedrico artista e musicista cileno Juan Subercaseaux, rispettivamente Armin Fuchs e Daniel Smith, entrambi con vissuti musicali alle spalle, per i quali l’esperienza cinematografica di “Heimat 2” rimarrà isolata.
La figura della signorina Elizabeth Cerphal, l’ultima discendente di una ricca famiglia di editori monacensi e proprietaria della Tana della Volpe, viene rivestita da Hannelore Hoger, conosciuta in Germania perché già protagonista nel 1968 di “Artisti sotto la tenda del circo: perplessi”, pellicola con cui Alexander Kluge aveva vinto il Leone d’Oro alla trentatreesima Mostra del Cinema di Venezia.
Per i ruoli principali, invece, quelli della violoncellista Clarissa Lichtblau e del compositore Hermann Simon – quest’ultimo già presente in “Heimat” – Reitz sceglie Salome Kammer (attrice teatrale e autentica violoncellista, che incarnerà una delle figure femminili chiave dell’intera trilogia, divenendo in seguito, in base a quel magico rapporto arte-vita postulato dal film, anche la moglie del regista) e Henry Arnold, il cui reclutamento appare più laborioso.
Reitz mette alla prova dapprima un attore e pianista amburghese, poi un allievo dell’ultimo anno dell’Accademia di Arti drammatiche di Berlino: entrambi rinunciano ancor prima dell’inizio delle riprese. L’unica alternativa possibile rimane Henry Arnold, scritturato in origine per un ruolo secondario ma dotato della preparazione musicale richiesta al suo personaggio.
Le riprese hanno inizio nel gennaio del 1988, per concludersi il 7 novembre 1991: la fase di lavorazione di “Heimat 2” – in maniera diversa rispetto a “Heimat” – è attraversata da complessità e problematiche interne, che costringono Reitz a fermarsi per ben due volte.
A livello estetico Reitz ripropone l’alternanza bianco e nero/colore già presente in “Heimat”, strutturata, questa volta, sul criterio della scelta delle riprese in bianco e nero per le scene diurne, del colore per quelle notturne, più movimentate e dense di avvenimenti per il cenacolo di artisti della Tana della Volpe.
“Heimat 2” viene presentato al Pinzregententheater di Monaco in un’unica soluzione tra il 6 e il 9 settembre 1992; alla Mostra del Cinema di Venezia, invece, fra il 31 agosto e il 12 settembre di quell’anno. Nanni Moretti ne proporrà, in seguito, una proiezione settimanale nel suo cinema, il Nuovo Sacher di Roma, ottenendo una straordinaria affluenza di pubblico e il plauso dello stesso Reitz, che non aveva contemplato questa possibilità e da quel momento cercherà di riproporla anche in altri contesti: leggenda vuole che la visione seriale abbia favorito la nascita di amicizie e, addirittura, di storie d’amore, coagulate intorno all’attesa e allo scambio di impressioni sul progredire della storia.
Le diverse parti, pur collegate a livello di intreccio come le puntate di un serial, in realtà mantengono una propria autonomia, più affini agli episodi di una serie, dedicate ciascuna a un personaggio (con l’eccezione della tredicesima – “L’arte o la vita” – in cui protagonista è la coppia formata da Hermann e Clarissa, la cui complessa relazione amorosa percorre l’intero ciclo), che in genere commenta gli eventi come voce narrante.
“Heimat 2” frammenta lo spazio dell’azione in una molteplicità di luoghi (la provincia, dalla quale arrivano molti dei giovani artisti: Dülmen, Neuburg, Wasserburg; e le grandi città europee, da loro esplorate per mettersi alla prova: Parigi, Venezia, Berlino, Colonia e Amsterdam).
Lo sfondo principale rimane, tuttavia, Monaco di Baviera, città duale, ambigua, ammaliatrice e respingente al tempo stesso, con le cupole della Frauenkirche – l’antica cattedrale risalente alla fine del 1400 – che svettano come immagine ricorrente.
In “Heimat 2” Reitz rispecchia il proprio vissuto, l’incontro con il cinema, l’amicizia con il gruppo degli Oberhausener, le prime prove di regia.
È quasi inevitabile, poi, che – in un ciclo di film dall’impostazione fortemente letteraria, concepito come un romanzo di formazione di un gruppo di giovani artisti d’avanguardia alle soglie degli anni Sessanta – trovino posto riferimenti pittorici, musicali, cinematografici. “Heimat 2” è ‘tappezzato’ di locandine cinematografiche, omaggi commossi e affettuosi di Reitz al cinema mondiale, in particolare quello italiano, francese e tedesco.
Con le sue quasi 26 ore la saga – istituisce, dunque, una stupefacente riflessione sul cinema come durata, con il tempo della storia che si prolunga nel tempo della vita, avvicinando entro un’unica dimensione narrativa il regista, gli attori, i personaggi e il pubblico, come afferma Reitz stesso nel 1994 in un saggio a sua cura: «Le riprese di “Heimat 2” sono durate quasi quattro anni. Se oggi provo a richiamare alla memoria quel periodo, mi accorgo che qualcosa è cambiato: l’attenzione per le persone e le cose è tornata nella normalità, non vivo più in quello stato magico che mi permette di vedere attraverso le superfici, che agisce come un incantesimo dal quale le cose e le persone si lasciano trasformare. […] Erano i tempi felici nei quali riuscivamo a dimenticare il mondo attuale. Per mesi solo apparentemente abbiamo vissuto nel nostro presente, in questa banale realtà riprodotta quotidianamente da televisione e giornali. La storia delle nostre vite si era trasformata in quella dei personaggi del film. […] Tutto, la nostra vita intera era entrata in relazione con le necessità poetiche del film e anche il tempo aveva per noi un significato diverso dalla vita di tutti i giorni. Tempo significava per noi tempo filmico. […] Chissà che forse un destino diverso non riesca ancora a evadere dalla prigione cartacea e a raggiungere un giorno Hermann e Clarissa? Per quanto mi riguarda, tutto è possibile, perché nella mia memoria le cose non sono separabili: il possibile e il reale sono strettamente intrecciati» (Edgar Reitz, “Il mistero delle immagini cinematografiche”, 1994).