Ciao, Pà!
Ciao, Renato, te ne sei andato via da poche ore, stringendo forte la mano alla mamma e smettendo di respirare di colpo, mentre lei ti parlava di un vecchio cuscino che avevo trovato in macchina nel pomeriggio, un cuscino di quelli pieghevoli, che usano i tifosi per sedersi sulle parterre senza rialzarsi due ore dopo con il fondoschiena martoriato. È un cuscino dei Grigi, la squadra di Alessandria, di cui eri tifosi sfegatato, la squadra in cui avevi giocato da giovane, prima che il nonno ti obbligasse ad andare a lavorare in ditta, e in memoria di quei tempi, anche recentemente, ancora ci facevi leggere quei ritagli di giornale di allora che avevi conservato in una vecchia cartellina in pelle, in cui il cronista lodava la tua tecnica e la tua velocità in campo.
Renato, che, anche se forse non te ne sei mai accorto, era un anagramma del nostro cognome, Straneo, con una S in meno. Un nome che ti diedero in onore di tua nonna Regina, morta di polmonite qualche anno prima della tua nascita, ingannandosi nel pensare che Renato ne fosse la versione maschile (perché in realtà non sta per un “re nato”, bensì per “rinato”, cioè risorto, eufemismo per indicare il Figlio del Dio cristiano, un po’ come Salvatore).
Te ne sei andato strizzando la mano di tua moglie, come ultimo segnale, come un addio o l’estremo tentativo di ancorarti ancora a questo mondo in cui ti è sempre piaciuto stare. È la donna che conoscesti ancora minorenne, a Casale, quando indossava i calzini bianchi e portava le treccine. Le offristi un gelato e sparisti, troppo giovane. La rincontrasti per caso qualche anno dopo, era destino!
È accanto a lei che hai sviluppato la ditta di famiglia, inventata dal nonno a partire dalla misera rivendita paesana di ortaggi di suo papà. Eri bravo nel tuo mestiere, facevi il rappresentante. I concorrenti ti avevano soprannominato “la Volpe”, tanto per dire. Hai girato mezzo mondo con i viaggi premio che ti offrivano i fornitori per l’alto numero di vendite dei loro prodotti, e ogni volta mi portavi a casa qualcosa di esotico, quando mi accompagnavano ad accoglierti all’aeroporto: la maschera di un demone tailandese, un fez marocchino, un’amaca brasiliana, una tunica subsahariana.
Sei stato una persona buona e un buon papà, ma la cosa più importante di tutte che mi hai saputo trasmettere è la bellezza del racconto. Ogni volta che tornavi dai giri di rappresentanza, alla sera snocciolavi aneddoti e curiosità di cui eri stato testimone o arrivati a te per sentito dire. Oltre a questo mi hai insegnato quant’è importante ridere. Ti piaceva prenderti gioco della vita, commentare in maniera ilare gli aspetti di questo mondo anche più incresciosi, come ti scompisciavi a vedere i film di Stanlio e Ollio, che tu chiamavi Cric e Croc, o le commedie con Alberto Sordi!
Un’altra cosa che ti è sempre piaciuta erano le donne, soprattutto quelle “con due belle ruote”, come dicevi tu, cioè con le gambe ben fatte. Ti complimentavi con me per le ragazze che ti portavo a casa per farvele conoscere, ci facevi sempre un po’ il cascamorto, seppure con educata vaghezza. Ancora l’ultima volta che la dottoressa è venuta a curarti a domicilio, hai passato tutta la visita con una mano distrattamente posata su una sua coscia, finché non ti ho chiesto: «Che fai, papà, la mano morta?» E tu mi hai risposto candidamente, con la voce già assottigliata dallo stato di salute: «Eh, ho visto una bella donna…».
Oggi pomeriggio, quando già avevi un respiro affannoso che mal prometteva e lo sguardo assente che ormai ti vedevo da qualche giorno, sono ancora riuscito a bisbigliarti nell’orecchio, piano piano, che sei stato un bravissimo papà, che ti volevo tanto bene, che mi dispiaceva se in questo ultimo mese a volte scazzavo quando dovevo prelevarti dal letto, imboccarti tre volte al giorno e riportarti a dormire a sera, non era colpa tua, ero io che delle volte ero più affaticato e sentivo il bisogno di un’assistenza più professionale di quella che potevo garantirti personalmente. È stato bello parlarti, ero certo che in fondo a quella bambagia che ormai ti ovattava i sensi, tu mi sentissi e afferrassi tutto. Avrei voluto dirti tante altre cose, sempre così, a bassa voce, in un orecchio, nei giorni a venire, ma la vita non me l’ha concesso, anzi la morte, che è sempre una cosa schifosa, e non mi permetterà mai più di farti capire quanto sei stato importante per me e per i tuoi nipoti. Ti ha strappato via, niente più cene a casa vostra tutti insieme, niente più capatine alla villetta di Valmadonna, niente più passeggiatine strascicate sotto casa. È stato tutto così orrendamente veloce… Ancora più veloce di quanto lo fossi tu a dribblare gli avversari sul campo del Moccagatta…
Domattina chiameremo le pompe funebri, ma almeno, prima che vengano a portarti in qualche camera mortuaria, avrò ancora il tempo di baciarti quell’alta fronte, che hai sempre cercato di nascondere con quel buffo taglio a riporto che prendevo in giro.
Ho scelto di salutarti, così, di getto, pubblicamente, con quello che so fare, che è scrivere. Tu sei l’unico che mi abbia sempre incoraggiato a farlo fino in fondo, perché anche se sei sempre stato un uomo molto concreto avevi un cuore tanto grande da riuscire a comprendere le più intime esigenze di un sognatore da quattro soldi come me.
Ciao, Pà!