Cinema orientale: da “Un affare di famiglia” a “Parasite”
CINEMA – Negli ultimi anni abbiamo assistito a una vera e propria esplosione di interesse da parte del pubblico e della critica internazionale verso il cinema asiatico, da quello cinese e giapponese a quello coreano, di Taiwan e Hong Kong. Mettiamo, quindi, a confronto due pellicole recenti – “Un affare di famiglia” e “Parasite” – come massimi esempi del periodo aureo dell’Oriente cinematografico.
Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo». Sembra nascere e crescere sotto questo assunto “Un affare di famiglia”, opera cinematografica – vincitrice della Palma d’oro al Festival di Cannes 2018 – del giapponese Kore’eda, indefesso e acuto esploratore della complessità dei legami familiari già nei suoi precedenti film, da “Little Sister” a “ Father and Son ” e “Ritratto di famiglia con tempesta”.
Dove vive e respira la felicità di Osamu e dei suoi familiari (della moglie Nobuyo, della nonna Hatsue e di sua nipote Aki, del piccolo Shota)? Ce lo spiega – o, per meglio dire – ce lo mostra Kore’eda a partire dall’incipit, con lo sguardo fugace e riflessivo della sua macchina da presa che vaga tra le provvisorie e povere pareti di un interno, una casupola raffazzonata con tante
suppellettili, abiti sparsi, frammenti di vite, entro cui regna sovrano il caos.
Eppure – si tratta di una condizione esistenziale che, come il racconto ci rivela amaramente nella sua seconda parte, si sconta a caro prezzo – in questa casa ciascuno può godere di una forma di felicità bizzarra, precaria ma condivisa, molto al di là delle esistenze zoppicanti dei singoli: Nobuyo lavora in una lavanderia il cui proprietario riesce a stento a retribuire le sue dipendenti, Osamu è un operaio edile saltuario, Aki una ragazza immagine e tutti sopravvivono anche grazie alla pensione
della vecchia Hatsue (meravigliosa, in questo ruolo, l’attrice nipponica Kirin Kiki, scomparsa qualche giorno fa) e a regolari furtarelli compiuti dallo stesso Osamu insieme a Shota.
La felicità è liricamente espressa, a livello estetico, dalle tonalità sature di una fotografia che sa cogliere i passaggi climatici e delle stagioni (gli alberi verdeggianti, il lucore della neve, l’azzurro ceruleo del mare) così come le luci e le ombre degli interni, i bruniti spenti dei desolanti parcheggi urbani, i grigi impersonali degli enormi supermarket zeppi di merci, il seppia delle piccole botteghe che resistono, in un Giappone sospeso fra modernità e tradizione.
La felicità piccola e fuggente è data dai pasti consumati insieme, in un ambiente sovraffollato ma protettivo, rassicurante a suo modo (il cibo è un elemento fondante e di spicco in questo film: si mangia spesso, traendo un evidente ed istintivo piacere dai ramen ingurgitati freddi nel calore dell’estate, dalle zuppe, dalle pannocchie di mais fatte bollire); dai fuochi d’artificio soltanto
intravisti, guardando in alto attraverso un pertugio; dal farsi bagnare dalle onde del mare, tenendosi per mano, in un’immagine che diventa, involontariamente, affresco e metafora.
Non è un quadro idilliaco, questo, come si è detto: dietro gli scherzi e le confidenze virili tra padre e figlio, dietro le confessioni amorose di Aki a sua nonna e Nobuyo (rilevante l’episodio dell’incontro, empatico e tenero, della ragazza con un suo giovane cliente), come dentro gli abbracci materni di quest’ultima a Yuri, bambina smarrita da due genito estreme, genitori inetti e violenti, figli abbandonati, perduti, soli, allo sbando. Una vita misera, di compromessi ed espedienti; una vita in fuga, dagli altri e da sé stessi.
Shota, trovato solo in un parcheggio da Osamu e Nobuyo, non sa pronunciare la parola ‘papà’, mentre Yuri si scusa in continuazione (ne capiremo le ragioni soltanto alla fine del film). Ma è questa – ce lo mostra chiaramente Kore’eda – l’unica felicità, l’unico modello di famiglia possibile; non soltanto e non più quella che nascita e ‘destino’ ci hanno assegnato, ma anche e soprattutto quella che abbiamo scelto.
La ‘Heimat’, la patria come dimora del cuore, dei sentimenti, del vivere quotidiano nel mondo, non è più dipendente dai legami di sangue, ma dai vincoli affettivi, gli stessi che cementano i rapporti tra i membri della composita famiglia messa in scena da Kore’eda, costantemente minacciata dalle brutture del reale, dall’indifferenza sociale, dalla burocrazia e dalle pastoie di una legge imparziale ma cieca.
«Ogni persona porta in sé la sua Schabbach» – afferma il grande regista tedesco Edgar Reitz – che sulle differenti sfumature di significato della parola ‘Heimat’ ha costruito in trent’anni una lunghissima saga cinematografica, non a caso attraverso il racconto delle vicende – dal 1919 in poi – di una famiglia abitante un immaginario villaggio della Germania meridionale. «A volte è meglio scegliersela la propria famiglia», sostiene Nobuyo; e si domanda: «Si è madri solo perché si partorisce?». È intorno a queste riflessioni-domande che si aggrega e si dipana “Affari di famiglia”, con quel suo procedere sghembo, a tratti, in situazioni e inquadrature, tra scorci, primi piani potenti e fughe prospettiche, in un Giappone riconoscibile ma, allo stesso tempo al di fuori di ogni precisa connotazione geografica.
Un luogo reale ma dai risvolti interiori, in cui Hirokazu Kore’eda immerge il suo apologo morale sul
conflitto tra legge dello Stato e legge di natura, tra ragione e sentimenti, tra sprazzi di felicità vissuta a spizzichi e a morsi e lampi di tristezza (vedi la chiusa emblematica, con lo sguardo trasparente della piccola Yuri rivolto all’esterno della terrazza in cui la sua ‘vera’ famiglia ha circoscritto la sua infanzia).
Nella fase di messa in opera del suo ultimo film, “Parasite” (Gisaengchung) – Palma d’Oro a Cannes nel 2019 (la prima regia sud-coreana a vincere il prestigioso riconoscimento) e vincitore di quattro premi Oscar nel 2020 – il sud coreano Bong Joon-ho ha avuto modo di ripensare intensamente ai precedenti suoi lavori; dal pluripremiato mistery “Memories of Murder”, suo
esordio nel 2003, al monster movie “The Host”, campione d’incassi nel 2006, passando attraverso il thriller “Mother” (2009), il fantascientifico “Snowpiercer” (2013, suo debutto in lingua inglese) e, infine, il fantasy “Okja” (2017).
Queste pellicole, tutte attraversate dall’interesse del regista – esponente del nuovo cinema coreano che ha iniziato a far sentire la sua voce a livello internazionale a partire dalla fine degli anni Novanta – per la rappresentazione e la critica sociale applicate spesso agli sfondi familiari (al pari del conterraneo Kim Ki-duk, con la medesima incisività narrativa; e del giapponese Kore’eda, ma con maggior rigore geometrico), confluiscono, in qualche misura, in questo “Parasite”, come ha ammesso Bong Joon-ho stesso nel corso di un’intervista a Rolling Stone: «Volevo continuare a esplorare la questione del conflitto di classe. Ma dovevo fare una pausa dai grandi film di genere e da Hollywood e concentrarmi su una storia più realistica ambientata in Corea. […] Ho lavorato come tutor per una famiglia molto ricca al college. Sono stato licenziato dopo due mesi, ma ho
sempre avuto la sensazione di infiltrarmi segretamente nella vita di uno sconosciuto».
Dopo “Snowpiercer”, adattamento della graphic novel francese “Le Transperceneige” (1982) – ambientato all’interno di un treno che diviene metafora delle differenze e ingiustizie sociali – Bong si rende conto di voler approfondire l’esplorazione di questo tema. Inizia, dunque, a scrivere le scene, alcuni dialoghi, a pensare alle possibili posizioni della macchina da presa per una storia per la massima parte girata in interni, in cui a fare da sfondo sono due case: una ricca e un’altra poverissima, accomunate – tuttavia – dalla presenza (fondamentale sia a livello simbolico che estetico) di un teorema di scale, fulcri narrativi e insieme fughe prospettiche. «Volevo trovare qualcosa di adatto per il teatro,» ha sottolineato il regista. «Visto che lo spazio su un palco è limitato, ho iniziato a pensare a qualcosa che avrebbe funzionato con una o due location. Ho avuto l’idea di una storia che si sarebbe sviluppata in due case, una ricca e una povera».
Intanto, Bong Joon-ho gira “Okja”, e la scrittura di “Parasite” slitta ulteriormente, sino all’autunno 2017, quando viene ripresa e portata a conclusione nell’arco di circa quattro mesi. Nasce, quindi, l’architettura geometricamente spietata del film, che ha suscitato non poche polemiche alla sua uscita nelle sale della Corea del Sud: commedia nera e, insieme, corrosiva satira sociale e melodramma farsesco, nel quale i personaggi salgono e scendono alternativamente scale su scale, compressi entro un doppio movimento che molto presto svela il suo retroterra tragico e grottesco. «Per me, il cuore della storia sono sempre stati questi personaggi, che non sono mostri ma gente che vedresti per strada, i tuoi amici e i tuoi vicini. E quando mantieni quel nucleo, anche se il film cambia mood e stile – dalla commedia nera al caper movie all’horror – è grazie ai personaggi che ti sembra ancora che tutto faccia parte di un’unità coerente. La mia direzione per il cast è stata: la trama sei tu. Sto semplicemente registrando il comportamento umano», ha ribadito Bong.
Il cast è eccezionale nella sua semplice, scarna messinscena: Song Kang Ho, attore prediletto di Bong Joon-ho), veste i dimessi panni di Ki-taek, capofamiglia privo – come la moglie Chung-sook (Chang Hyae Jin), ex campionessa olimpionica di lancio del peso – di qualsivoglia risorsa economica, la cui conquista è affidata alla sola inventiva dei due figli adolescenti, Ki-woo (Choi
Woo Shik) e Ki-jung (Park So Dam). La famiglia, costretta a vivere in uno squallido seminterrato con vista su di un angolo di quartiere ricettacolo di varia e poverissima umanità, si ingegna a raggranellare qualche soldo piegando i cartoni alimentari per la pizza. L’occasione, imprevista quanto – come si vedrà nel corso del film – beffarda, di migliorare la propria posizione sociale si presenterà a Ki-woo sotto forma di un amico studente universitario, che lo proporrà al posto suo come insegnante d’inglese presso una famiglia benestante.
Film sul contrasto di classe, ma anche sulla ricerca dell’identità, sulla lotta senza esclusione di colpi fra alto e basso, fra mondi condannati a percepirsi come estranei, senza alcun punto di contatto, “Parasite” è un’opera spiazzante, quasi brutale nella sua descrizione della realtà.
Resta, alla fine, la domanda relativa al titolo scelto da Bong Joon-ho: sull’effettiva natura del termine ‘parasite’ (parassita), applicato alle figure che popolano la storia.
«Risponderò a questa domanda se dovesse arrivare durante un incontro con il pubblico, ma ho spiegato al marketing che non cercherò di definire il significato che avrà il titolo per il pubblico. Lasciate che ognuno si faccia un’idea sua», è stata la lapidaria conclusione del regista.