Fuga dai Baracconi
Quel che si va qui di seguito a narrare è un edificante esempio di integrazione sociale.
La storia risale parecchio nel tempo e prende le mosse in un angolo della città piuttosto fuorivia. Vale a dire, lo sterrato adiacente a quell’altro spiazzo polveroso, ovvero semipaludoso (a seconda di quel che gli elementi avessero al momento in capriccio), che qualche eufemista si spingeva allora a chiamare aeroporto, ma che si riduceva, in effetti, a niente più che una distesa di terra battuta adibita a pista di atterraggio e, a dio piacendo, ripartenze per pochi scorreggiosi monomotore.
Era appunto in quei pressi che tornava ad accamparsi di anno dopo in anno quella schiatta di ciarlatani di professione che prendono nome di giostrai, i quali vi scaricavano nottetempo, con rapidità febbrile, l’intero sollazzevole ambaradan delle loro attrazioni a buon mercato.
Su tutte dominava il Calcinculo, da cui talora capitava che, per colpa di una manutenzione condotta quel tantino a tirar via, uno (o più d’uno) dei sedili pencolanti dal fusto centrale della giostra si sganciasse dai rotismi, si dà il caso proprio sul più bello della potente torsione cardanica da essi compiuta, e, scapicollandosi all’indirizzo di un ignoto destino con una proiezione di qualche decina di metri voluta da quella stessa forza centrifuga sul cui principio si basava l’orripilante divertissement, una volta esauritosi il breve slancio si ritrovasse, in compagnia dello sventurato cristiano accovacciatoci sopra, in balia della più drastica legge di gravità (una legge ingiusta – va detto – che qualche spirito altamente civico dovrebbe prima o poi prendersi la briga di far abrogare) e… tutti giù per terra, in buona fine: con, a seguire, il catalogo completo di contusioni varie, scorticature fino alla carne viva e nasi rotti…
C’era il Toboga poi, a torreggiare sull’intero luna-park. Poco più in là il tirassegno, di fronte al quale mio nonno traeva spunto per immancabili lezioncine morali. «Vedi, Pierluigi», era solito istruirmi, «c’è chi, sperando nel premio finale, trascorre la vita a tentare di atterrare le tre file di barattoli, prendendo diligentemente la mira su un barattolo alla volta. Ecco, quello è un illuso… Se davvero vuoi la tigre di peluche, quella dalla taglia più grande, ascolta me: spara al giostraio!».
Eh, altri tempi quelli!… Ho saputo che attualmente nei bomboloni che sfrigolano uno via l’altro sopra le piastre bisunte dei venditori ambulanti, per qualche miope disposizione dell’ufficio di igiene, ormai non ci mettono più il grasso di cane. E dicono che abbiano anche smesso di sputare nelle bibite…
Tra i vari baracconi prediligevo soprattutto quello collocato un po’ di costa, ad un passo dalla Casa degli specchi, al cui interno si accedeva infilando tre o quattro scalini di alluminio. Una volta dentro ci si trovava immersi in un ambiente dall’aspetto dozzinale: composto di una serie di panche messe in fila secondo una disposizione ad anfiteatro che man mano digradavano fino ai piedi della scena, la quale a sua volta era quasi completamente occupata da una grossa gabbia da circo rivestita di uno strato di paglia che non sembrava conoscere un ricambio frequente. Ma quel che costituiva il vero spettacolo era la nuda azione che di lì a poco, di tra quelle povere cose, si sarebbe svolta e che, almeno agli occhi incantati di un bambino (ontogeneticamente ancora così prossimo alle istanze più ferine), aveva un che di morbosamente evocativo.
All’avvio del numero veniva introdotto nel recinto un prodigioso esemplare di primate maschio alto un paio di metri e largo all’incirca quanto un guardaroba due-stagioni, integralmente ricoperto di una fitta pelliccia scurissima che ne lasciava liberi solo quei due bottoni di un vivace colore castano che gli facevano da occhi, e il cui nome suonava come Maxilla il Gorilla (come del resto campeggiava in lettere a cubito sopra l’ingresso). Lo affiancava, nelle vesti di indispensabile deuteragonista, una donzella rubizza e ben pasciuta, stretta in pochi straccetti fulgidi di paillettes e i cui tratti, già di per sé non esattamente sbarazzini, ancor più rimarcava un generoso maquillage da cantante di liscio, tutto giocato su tinte squillanti quali il color prugna e il rosso acceso.
Questa, una volta entrata in scena sopra quel suo paio di piedi dolci che a malapena si provavano a star dietro ad un motivetto orientaleggiante fischiato fuori da un flauto mezzo rauco, si appropinquava alla gabbia con le movenze più provocanti che le riuscissero e là dunque, dinanzi alla sesquipedale bestia che, da par suo, la fissava da dietro le sbarre con sguardo vagamente erotizzato, mentre andava cercando un appoggio alternativamente ora sull’una ora sull’altra fila di nocche delle enormi zampacce e soffiava a intermittenza dalle grosse narici dilatate sbuffi di alito torrido, la donzella – dicevo – prendeva allora a sgrullare, a una spanna appena da quel muso prognato, tutto lo sgrullabile di quel cascame di ciccia che le scappava un po’ da tutte le parti attraverso gli spazi lasciati scoperti dallo striminzito vestituccio, prima da giù a su poi da destra a sinistra, e così via, fino allo sfinimento, tanto per allungare il brodo o, a dirla meglio, accrescere la suspense… Fin quando il padrone di tutto il cucuzzaro non metteva piede lui pure sopra il palco, ampollosamente abbardato con frac rosso e alamari cuciti su bavero e spalline, un paio di baffoni a manubrio che gli spiovevano giù dal grosso naso.
Rullo di tamburi (preregistrato)! Attaccava dunque il grand’uomo invitando chiunque volesse, tra il pubblico pagante, a raggiungerlo in scena. Il compito del buontempone che avesse accettato di salire si rivelava quello di simulare molestie alla suindicata donzella dimodoché lo scimmione se ne avesse quanto meno a male. Andava così che Maxilla, oltre misura infurentito alla vista di quelle attenzioni, di quei complimenti che da un’iniziale galanteria trascendevano poi subito ad un più materiale tentativo di persuasione, dei cento palpa-palpa che lo spettatore non si peritava di elargire a piene mani a favore delle atticciate grazie della tizia messa su in stile baiadera, attaccava con tutta l’assortita fenomenologia della collera più bruta, esagitando strepitante per tutto il perimetro dell’angusto abitacolo quella tonnellata di atletico corpaccione che arrestava di quando in quando solo per tentare di piegare il titanio delle sbarre con la prepotenza dei colossali bicipiti intesiti o, allorché lo sforzo risultasse vano, bombardare gli astanti con lanci di segatura, ed altre nequizie ad essa commiste, che pescava a giumelle dal fondo della gabbia. Questo i primi anni almeno, perché le ultime volte che corsi a vederlo sembrava sempre più disamorato del proprio lavoro.
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Gli si era ormai fatta grigia la schiena, che contraeva solo più per stiracchiarsi annoiato, mentre si ritirava in un angolino della gabbia a spulciarsi intorno alle parti intime. E per quanto il baffuto domatore cercasse di risvegliare in lui l’antico richiamo della giungla, con schiocchi di frustino ed alte grida, niente: alla compagna di scena poi (sempre più arrotondata) non riservava che qualche fugace occhiatina che si sarebbe detta di commiserazione…
Fu così che una notte, non si sa come, se approfittando della porta della gabbia mal accostata, se di una distrazione del domatore, per farla breve Maxilla scomparve.
Da principio ci si diede da fare nel tentativo di rintracciarlo. Battute di caccia a largo raggio, intervento della forestale. Tutti dietro le sue orme a pianta larga.
Un vivo di volata troppo zelante finì pure per abbattere una figura sospetta, dai contorni scimmieschi, che sbraitava nell’oscurità. Solo una volta accorsi presso il corpo ormai esanime si scoprì trattarsi di un noto etilista del posto, detto Pepi il Bestione, che, con passi stenti, tentava di rincasare intonando sguaiatamente: «E si son ciucc portèmi cà…».
Poi, come sempre accade, nel volgere di breve tempo i più si disinteressarono alle sorti del gorilla, temendone ormai il peggio.
Ma… tenetevi!… gira voce che Maxilla sia vivo!
La notte del fugone dicono infatti che si fosse inoltrato, complice il buio, tra i padiglioni deserti del vicino ricovero Santo Cuore Immacolato della Vergine Amorevole, laddove, dopo un bel pezzo che vi vagava a tentoni, era infine riuscito a trovar ricetto presso la stanza di una suorina, la quale, se a tutta prima non aveva saputo nascondere lo sgomento per quella precipitosa intrusione, aveva da ultimo contraccambiato l’inattesa visita con la più aperta misericordia… Dopo una medio-lunga degenza, una volta giudicato sufficientemente incivilito, fu quindi dimesso e lasciato libero per la città.
Sembra se la sia cavata!
Qualcuno lo chiama il Bermagasco ora, scambiando quei suoi cavernosi grugniti con la tipica cadenza altopadana di antica origine camuna.
Si dice che stia con una ballerina di lap-dance approcciata nel periodo in cui faceva il buttafuori di un night.
Insieme ad alcuni amici ha anche aperto un club politico, piazzandosi niente male alle regionali.
Per di più figura tra gli ultrà della squadra locale di fùtbol. Lo si riconosce perché è quello che tra tutti ostenta meno rabbia repressa.
Certe notti lo puoi scovare abbandonato su di un divanetto dell’ultimo bar notturno che, con sguardo assente, regge con una zampa una media allungata col Jack Daniel’s, mentre con l’indice dell’altra con gesto automatico scava dentro una frogia.
Unico fio, al fine di mantenere inalterata questa perfetta integrazione nella società degli uomini, è la necessità di depilarsi full-body come minimo due volte al giorno.