«Aghimahijd!»
Ben Trullo faceva il commesso viaggiatore. Lo faceva da quando ne aveva memoria.
Aveva iniziato spostandosi da una regione all’altra, all’interno della propria nazione, come una pallina da ping-pong, con una mano attaccata alla valigia e con l’altra appesa alla maniglia di un treno preso al volo o al portello di un torpedone lanciato verso la superstrada.
Aveva venduto di tutto negli anni: collant, vestiti doubleface, pomate, scherzi di carnevale, giochi erotici, gadget vari. L’aveva sempre sfangata.
Era bravino nel suo lavoro, aveva modi affabili e sapeva come imbonire l’interlocutore, senza essere di quelli che ti ficcano il piede in mezzo alla porta, mentre gliela stai richiudendo in faccia.
A coronamento di una carriera più che decente, qualche anno prima del pensionamento era stato convocato da una ditta di preziosi per piazzare costose pataccone a facoltosi clienti dei paesi mediorientali. Non più corriere scalcinate e pensioncine di fortuna, ma voli in business class, appuntamenti prefissati e alberghi a cinque stelle.
Mai stato a Burmashav prima di allora, ma quando gli annunciarono la nuova destinazione, si preparò di buon grado.
Il volo fu tranquillo: nessuna turbolenza. Appena messo fuori il naso dall’aeroporto, gli venne incontro un solerte tassista, che gli strappò con dolcezza i bagagli di mano, mentre lo invitava a salire sul suo mezzo tirato a lucido: «Aghimahijd!» esclamava frattanto, facendogli un sorridente gesto con la testa. Ben Trullo non conosceva la lingua. La prese come una amichevole sollecitazione.
Prima tappa: il suo hotel. Ben Trullo si diresse verso il concierge, che lo accolse con un festoso: «Aghimahijd!». Lui rispose con un cenno compiacente.
Era presto per l’incontro con i clienti, trascorse quindi il pomeriggio a passeggiare in centro. Un gruppo di signorine, di cui riusciva a vedere giusto gli occhi attraverso gli strati di veli sotto cui erano sepolte, lo salutarono con un altisonante «Aghimahijd!» pronunciato in coro. Ben Trullo si scappellò davanti a tanta presumibile simpatia.
Un venditore di datteri, dall’altro ciglio della strada, gli gridò: «Aghimahijd!». Lui salutò con bonomia.
Incrociò una scolaresca in gita. Ne ricevette una ventina di «Aghimahijd!» in leggera differita l’uno dall’altro. Che accoglienza!, pensava tra sé, e che bell’espressione squillante posseggono nel loro vocabolario per dare il benvenuto ai forestieri!
Quando, avvertendo i morsi della fame, mise piede nel primo ristorante in cui si era imbattuto, manco a dirlo, la sua entrata fu segnalata da un allegro «Aghimahijd!» emesso dal cameriere con tanto di tovagliolo intorno all’avambraccio.
Ben Trullo, non conoscendo la lingua, faticò a ordinare, segnando a dito sul menu. Per orientarcisi si era affidato alle foto, neppure troppo nitide. Quando il cameriere gli recò una strana poltiglia dal colore indefinibile, il cuoco ci tenne a spuntare dalla porta a soffietto della cucina per apostrofarlo con un sonoro: «Aghimahijd!». Ben Trullo mostrò gratitudine anche a quest’ultimo.
Arrivato sul luogo dell’appuntamento, il barista, appena lo intravvide, gli urlò: «Aghimahijd!».
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Fu fatto accomodare a un tavolo, dove lo attendevano un gruppetto di distinti signori inturbantati, che, al solo vederlo, sbottarono in un unanime «Aghimahijd!».
Ben Trullo sciorinò la sua mercanzia. Mentre i clienti si trastullavano con parure e pendagli, non facevano che ripetere: «Aghimahijd! Aghimahijd!». Ben Trullo credette di aver carpito un’ulteriore accezione del termine.
Non acquistarono granché, ma gli parve di aver inteso che si ripromettevano di farlo nei giorni seguenti. Si accomiatarono con un immancabile «Aghimahijd!».
Ben Trullo se ne andò fiducioso in direzione del proprio albergo.
Strada facendo incontrò un ometto baffuto, dietro un banchetto, con un grembiule che gli avvolgeva il largo ventre, bianco come i gelati che vendeva. Ben Trullo indicò i gusti che preferiva. Pagò con alcuni spiccioli locali, poi, prima di andarsene, volle ricambiare le molte cortesie ricevute quel giorno, omaggiando il gelataio di quella parolina che aveva ormai imparata a memoria: «Aghimahijd!».
A sentirla, all’ometto baffuto si spense improvvisamente il sorriso, lo sguardo si accigliò. Fece veloce il giro del banchetto e una volta di fronte a Ben Trullo gli sparò un diretto sul naso che lo scaraventò culo a terra a qualche metro di distanza. Dopo di che sollevò il carretto con aria insolentita e sparì dietro l’angolo, mentre Ben Trullo rimaneva là, seduto sul selciato, con un’espressione smarrita sul volto.