Valenza negli anni ’50
Un'altro viaggio nel passato della città
VALENZA – I “favolosi” anni 50 sono caratterizzati da un veloce sviluppo e da una profonda trasformazione strutturale dell’Italia. Un po’ grazie agli americani, un po’ all’operosità degli italiani e un po’ grazie alla fortuna, da paese agricolo si converte in paese industriale, mentre l’economia da autarchica diviene aperta. Il reddito nazionale raddoppia e la televisione diventa l’elemento dirompente nel panorama culturale e ricreativo: realizza l’Unità d’Italia, più di quanto l’abbiano potuta compiere Cavour e Garibaldi.
L’economia locale corre al modo di un treno, come se il cielo fosse il solo limite: lavoro e ancora lavoro. Valenza, in questi anni, conosce all’interno della provincia il più intenso processo di sviluppo economico e percentuale di popolazione: passa dai 13.430 abitanti del 1951(censimento) ai 18.441 del 1960, rendendo insignificante la differenza tra i nati e i morti. Significativo è invece il movimento della popolazione: nell’anno 1950 ci sono 562 immigrati e 195 emigrati, mentre nell’anno 1960 ci sono 1.035 immigrati e 475 emigrati.
Sono le aziende orafe con i propri lavoratori a rompere ogni limite alle previsioni economiche, aiutate dall’apertura dei mercati internazionali. Passano da 335 nel 1951 a 575 nel 1961 con un saldo positivo di 240, pari al 71,64%, e gli addetti da 1.972 a ben 4.068 unità, con un saldo positivo di 2.096 unità, pari al 106,3%. Ormai poco valorizzato o sostenuto, espunto dal gioiello, il ramo “pelle, cuoio e calzature” mantiene ancora in questi anni un centinaio d’aziende, con quasi 2.000 occupati, che ben presto si dissolveranno.
Quest’andamento produttivo locale, pur vicino a certe zone dell’area Nord occidentale, è profondamente difforme dalla provincia alessandrina dove l’incremento demografico è solo del 0,8% nel decennio. Valenza svolge quindi un ruolo di polo d’attrazione sia nell’ambito provinciale, sia per le zone vicine della provincia di Pavia e, soprattutto, a livello nazionale (meridione e Veneto in particolare). Questa è una città che offre accoglienza in modo dignitoso e decoroso per i tempi. Il settore orafo genera un alto numero di posti di lavoro, incidendo in modo profondo sui rapporti sociali ed economici.
La forte immigrazione crea profondi mutamenti nelle relazioni, nel costume e nelle tradizionali esigenze dei valenzani. Questa città, dal brutto clima e con nessuna particolare piacevole attrattiva, ma con un popolo quadrato di seri lavoratori, poco abituato a ricevere regali, è diventata la “terra promessa” a cui pare aspirino abitanti delle più lontane zone del Paese.
La rapida crescita demografica e l’aumento del reddito, producono nel decennio 1951-1961 un notevole sviluppo edile, con relativa speculazione; le abitazioni aumentano del 50% e le stanze diventano 20.564, le licenze per costruzioni rilasciate nel periodo sono: 729 dal 1951 al 1955 e 868 dal 1956 al 1960.
Come in tutto il paese, il settore agricolo locale perde di peso. Si verifica una progressiva marginalità e una costante diminuzione dei residenti attivi di questo comparto: l’indice passa dal 17,9% con 1.231 addetti nel 1951 (la media nazionale supera il 50%), all’11,4% con 1.013 addetti nel 1961.
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La scuola rimane lontana dai cambiamenti della società locale, la quale esprime invece una crescente domanda di scolarizzazione. All’inizio degli anni cinquanta (1951) nel Comune di Valenza il grado d’istruzione può essere così ripartito: il 69% (9.423) è in possesso della licenza elementare, il 7,6% (1.046) della scuola media inferiore, il 3% (419) è in possesso di diploma superiore, lo 0,5% (71) ha la laurea. Gli analfabeti sono 325, e gli alfabeti privi di titolo di studio 1.522 (in Italia più del 10% della popolazione non sa leggere e scrivere). Dieci anni dopo, nel 1961, gli analfabeti saranno 387, gli alfabeti privi di titolo di studio 1.627, con licenza elementare 12.594, con licenza media 1942, con diploma superiore 566, con laurea 128. Nel 1950 nasce l’Istituto Professionale di Oreficeria “Benvenuto Cellini”.
Le strategie politiche locali ricalcano spesso le storie ironiche di Peppone e Don Camillo. A Valenza, come in tutto il Paese, si dipana in questi anni 50 una guerra spietata di delegittimazione tra democristiani e comunisti (incolpati di lodare le disumane oppressioni vigenti in Unione Sovietica). Intransigenti e frementi, incapaci di dialogare, nutrono un odio antropologico, quasi razzista, si considerano a vicenda indegni di governare e solo molto più avanti fingeranno di essersi sempre rispettati.
Le elezioni amministrative del 1951 (PCI 35,56% – PSI 19,90% – Lista Cittadina 41,73%) testimoniano alcuni spostamenti dell’elettorato valenzano e dimostrano quanto la situazione, che aveva portato alla schiacciante vittoria dei socialcomunisti nelle elezioni del 1946, sia in parte superata e non sia realistico attendersi il riprodursi dei risultati dell’immediato dopoguerra.
Nel 1946 l’80% dei valenzani aveva scelto la Repubblica, i socialcomunisti nelle comunali e per l’Assemblea Costituente avevano ottenuto il 73% dei voti, mentre nel 1948 alle elezioni politiche il Fronte Popolare aveva preso il 59%, la DC il 30%. Quindi negli anni 50 il PCI è di gran lunga il partito più forte ma, senza lo PSI, difficilmente riuscirà nel futuro ad ottenere la maggioranza assoluta in questa città.
Il nuovo sindaco (1951) è Giovanni Dogliotti, operaio perso nel sogno d’antichi ideali comunisti (prima di lui, dal 1946, il socialista Guido Marchese). Dogliotti è tra i fondatori del PCI valenzano e tra i promotori del Comitato unitario antifascista. Di grande solidarietà sociale è molto popolare.
Nelle comunali del 1956 si rinnova il successo dello PSI che sale al 22% e vede confermati sette rappresentanti in Consiglio, mentre il PCI si mantiene sulle medesime posizioni delle precedenti comunali, con un lieve calo dell’1%. E’ perciò riconfermata la guida del Comune al gruppo socialcomunista, sindaco della città è scelto Luciano Lenti (esercitando tutto il suo carisma, sarà riconfermato nel 1960 e sarà eletto alla Camera nelle liste del PCI nel 1963).
Il fossato tra i governanti comunisti e gli antagonisti democristiani è profondo nella vita di tutti i giorni. Il successo logora, quello degli altri. Insomma, è guerra fredda. A Valenza, nelle elezioni politiche del 1953 alla Camera, il PCI raggiunge il 41%, la DC il 27% il PSI il 12%, il PSDI l’11% mentre in quelle del 1958 (sempre alla Camera), nonostante la crisi per i fatti di Ungheria e il XX congresso del PCUS, il PC ottiene il 38% la DC il 28%, il PSI il 19%.
La voglia di divertirsi è grande, si balla all’Enal, alla DC, e poi più avanti al Valentia; in città i cinema sono tre: il Teatro Sociale (con spettacoli teatrali e pure veglioni di fine anno), il Politeama Gervaso (d’estate si trasferisce all’aperto), l’Italia (cine dell’Oratorio, poi traslocato nel Nuovo cinema Italia). Circa una decina i caffè-bar: Mazzini, Garibaldi, Achille, Sport, Roma, Moro, Verdi, Teatro, Torti, Politeama. Ci sono “ancora” gli alberghi e i ristoranti: Croce di Malta, Italia, Roma, Stazione, Stella Polare, Verdi, Fonte di Monte.
Nel 1954 l’ospedale cittadino si trasferisce da via Pellizzari a viale Santuario e nel maggio del 1957 è posata la prima pietra della Casa del Popolo, poi denominata Circolo Culturale Ricreativo Valentia o solamente Valentia (nome della fabbrica calzaturiera situata precedentemente nella struttura). Alla costruzione del Valentia lavorano incessantemente per più di un anno molti volontari. Nel gennaio del 2005 l’immobile di proprietà del partito (DS) sarà venduto ad un’impresa di costruzione e nel 2006 sarà abbattuto. Al suo posto vi è ora uno dei tanti moderni uggiosi palazzi, mentre, per non pochi valenzani, sempre più intenso è il rimpianto su quel passato.