Chiesa, confraternita e oratorio di Santa Caterina, San Bartolomeo e San Bernardino a Valenza
VALENZA – Valenza non serba rinomate opere d’arte del suo passato e le poche che rimangono sono per lo più abbandonate: regna l’oblio. Un piccolo capolavoro architettonico è l’antica chiesa di Santa Caterina, adesso San Bartolomeo, in largo Lanza incrocio tra le vie Banda Lenti, Cavour, Alfieri. L’Oratorio di San Bartolomeo è oggi considerato il complesso più antico dell’intera città. La struttura è stata costruita negli ultimi anni del Cinquecento dalle Monache Benedettine, rimaste prive del loro convento. Una struttura abbattuta dagli occupanti francesi (1557-1559) a causa dell’ampliamento delle fortificazioni spagnole, poiché l’eremo si trovava a ridosso di queste, nella sorte Monasso, attiguo a Porta Casale in zona Colombina (in direzione dell’attuale stazione ferroviaria).
Del resto, la badia di Santa Caterina vecchia, con relativa cappella monastica ed una decina di monache (il cui ordine benedettino era coevo a quello francescano), pare fosse già presente nel 1360. All’inizio offriva accoglienza a povere donne le quali vi si ritiravano per “vivere espropriate dal mondo”, suddite di una grande madre e abbracciate alla vita del chiostro; pertanto fu chiamata Santa Caterina delle donne (sarà presto eretta a monastero).
Una lunga storia di vita monastica, tuttavia, anche con qualche comportamento indisciplinato: devozione e carità, che fa assonanza con verità ma a volte non coincide. Il contegno delle suore benedettine di Santa Caterina non doveva essere impeccabile se l’autorità vescovile di Pavia, cui sottostavano, prese alcuni provvedimenti restrittivi contro la condotta assai rilassata di certe religiose (violazione della clausura, consumo di carne, scarsa abitudine alla confessione). Comportamenti veri o presunti favoleggiati con ignominia da onnimoraleggianti dell’epoca. Esiste un documento che riporta la visita dell’autorità ecclesiastica pavese in data 26-9-1460; all’epoca il monastero oltre all’abbadessa, contava 6 monache e 4 novizie.
Lo sviluppo locale delle confraternite, con le loro funzioni sociali, porta nel tempo ad un sostanzioso mutamento della vita cristiana in Valenza, contaminata da un controverso e pugnace fanatismo religioso, dove le differenze sono in ogni modo molto più grandi delle somiglianze anche in questo giro di solidarietà. E’ una pratica devota povera di contenuti, dominata dal formalismo e dalla superstizione. I monasteri femminili si evolvono così in terreno privilegiato della devozione, della beneficenza, dell’ambizione magniloquente d’alcune benestanti famiglie o di potenti personaggi, che vi stabiliscono le medesime supremazie che esercitano nel quadro più vasto della società. Sopravvivono grazie al sostegno di prodighe protezioni, ma questo comporta legami sempre più opprimenti e ricattatori.
Alle monache benedettine di Santa Caterina, sloggiate non troppo bruscamente nel 1557 (una parte del loro monastero sussiste ad ogni buon conto ancora nel 1588), sono assegnati i locali delle confraternite di San Bartolomeo e di San Giacomo, poste entrambe nello stesso isolato. Benemerite cacciate in molo modo: un intervento maldestro e arrogante, un vero pasticcio. Per questo, s’instaura un confronto aspro; un lungo contenzioso durato sino al 1563, quando s’impone il potere locale (sempre ostile verso gli sgraditi, non accucciati) e le controparti sono costrette ad accettare la transazione con esemplare dignità.
Nello stesso anno la costruzione del nuovo monastero di Santa Caterina è nel frattempo quasi completata. Poi, nel 1584, tramite un prestito di Antonio Dalla Chiesa, le monache acquistano per 200 scudi d’oro, da Gian Giacomo Stanchi, uno stabile congiunto al forno degli Stanchi e alcune casette attigue, sempre di fronte al ricco palazzo della potente famiglia spagnola dei De Cardenas, oggi Palazzo Trecate, acquistato a fine ‘800 dai Ferrari Trecate. Al tempo in cui quest’edificio signorile fu costruito (probabilmente nel secolo XVII), doveva avere un aspetto maestoso per chi giungeva dalla porta di Bassignana. Le altre costruzioni che attualmente lo occultano non esistevano, vi era un parco molto più esteso e attraente di quello attuale ed una delle rocche di Valenza, di cui ora resta solo qualche segno.
A questo punto (XVI secolo inoltrato), il complesso di Santa Caterina in sorte Bedogno comprende pertanto anche diverse case (di destituita proprietà Brasca, Gaudio, Palazzi, Scavini, Stanchi e altri) le quali sono ben presto trasformate e riadattate ad oratorio religioso e pubblico. La dimensione dell’aggregato è successivamente ulteriormente accresciuto tanto da occupare alla fine l’intero grande isolato. Il monastero benedettino di Santa Caterina pare essere così diventato uno dei più grandi della città, equivalente a quello di San Francesco dei cappuccini, frati alquanto operosi nella predicazione locale.
Ma il fatto più importante è la costruzione di una chiesa a pianta poligonale (finora le monache si sono servite di quella vecchia di San Bartolomeo). La nuova chiesa edificata, pur non troppo spaziosa, è divisa in due parti, una riservata alle monache l’altra al pubblico: oggi resta una delle opere più prestigiose della città. A fianco della chiesa vi è un cortiletto recintato che serve di passaggio per i De Cardenas. In questo tempo, poco più avanti è collocata la chiesa di San Giacomo (domenicani) il cui vecchio monastero ha subito nel 1557-58 la stessa sorte di Santa Caterina.
Intanto nei conventi vengono ridimensionate certe pratiche di patimento, principio che provoca anche a Valenza un certo vuoto devozionale: durante il Concilio di Trento (1545-1563) la cultura penitenziale viene rimossa, diventando molto più spirituale. Negli anni che seguono il convento valenzano costituisce un importante microcosmo sociale e culturale, emblematico del prestigio posseduto è la frequentazione costante di molte ragazze delle famiglie valenzane più benestanti.
Nel dicembre 1796, Napoleone, con un editto, sopprime tutti i conventi aventi meno di 15 religiosi (l’unica cosa da chiudere, anzi da rinchiudere, sarebbe qualche governante). All’interno di Valenza i monasteri, con le loro proprietà, occupano circa un decimo del suolo urbano. Si tratta di un patrimonio, abbondante pure di opere d’arte, che viene trasferito allo Stato e venduto.
Nel monastero di Santa Caterina si trovano però, con toni angoscianti e sofferti, ben 30 monache (religiose corali) e 10 converse. Ma ormai ultimamente anche loro sono state costrette ad una costante subordinazione verso i bizzarri governanti, e a far spesso buon viso a cattivo gioco ad estenuanti e continue prese in giro e infine saranno lo stesso costrette ad evacuare il loro convento. Purtroppo, sbattono contro la durissima realtà dei tempi, dove sembra un gradevole svago osservare le calamità altrui.
Trainato dagli eventi, nel 1802, il monastero è inopinatamente smembrato e venduto attraverso lotti a privati, la chiesa viene addirittura adibita a magazzino. Pare sia uno scherzo ma, purtroppo, è tutto vero: l’indignazione è generale e profonda. Le varie parti dell’oratorio sono acquistate dai concittadini De Cardenas, Foresti, Marchese e Comolli, però ben presto il conte Francesco De Cardenas (figura locale di spicco, quasi un superprecettore), ottenuto dagl’altri acquirenti ulteriori importanti porzioni della prima compravendita (chiesa, il primo chiostro e parte del secondo), da inizio alla progressiva e inesorabile trasformazione dell’ex monastero. Poco tempo dopo la nuova consacrazione della chiesa del 1835, al fine di conferirgli la sua funzione iniziale, De Cardenas cede tutto, a prezzo di favore, all’autorevole Confraternita di San Bartolomeo, il cui oratorio è stato anch’esso demolito, e i valenzani cominceranno presto a denominare il complesso, non più Santa Caterina bensì San Bartolomeo: un ricordo rimosso e un rimorso inespresso. Con il trasferimento in Santa Caterina nel 1840, una sorta di riconquista curiosa e quasi paradossale, forse senza saperlo, i confratelli di San Bartolomeo dopo due secoli e mezzo rialzano la tesa e ritornano a casa propria, mentre quelli di Santa Caterina da proprietari passano a “braccianti”.
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La chiesa, prontamente riaperta al culto pubblico, viene celermente restaurata e ridipinta da Francesco Gabetta, il quale realizza pure un portale di stile Gotico simile a quello della dissolta chiesa di San Francesco, come parimenti per quello laterale. Infine nel primo Novecento si tentano alcuni interventi di sostegno, ma ormai più che un salvataggio pare un servizio funebre.
Dentro questa cornice, è il caso di fare qualche precisazione. Siccome stiamo trattando la chiesa di Santa Caterina, l’oratorio nuovo di San Bartolomeo, la vecchia chiesa e il vecchio oratorio di San Bartolomeo, cerchiamo di circostanziare brevemente l’intreccio facendo un passo indietro.
La chiesa e l’unito ospedale di San Bartolomeo (aperto ai poveri e pellegrini nel 1415, nella città ce ne sono altri) sono fondati il 17-4-1412 (rettori e custodi i coniugi de Magistris), quando non esiste ancora una vera e propria confraternita, la quale risulta bensì presente, da un documento, nel 1529. Questa chiesa di San Bartolomeo si trova in sorte Bedogno verso via Pellizzari (da via Cavour) non sullo stesso luogo dell’oratorio San Bartolomeo di oggi. Ma, dopo il passaggio delle sue strutture a Santa Caterina nel 1557, subendo tutto con gran dignità, soprattutto la scomparsa del proprio ospedale che diventerà successivamente comunale, i confratelli di San Bartolomeo, con alcune elargizioni ricevute, costruiscono una loro piccola chiesa in sorte Astiliano. All’inizio del ‘600 sono circa 130, seguono ancora consunti rituali con espressioni di misticismo esteriore, durante le solennità vestono di celeste.
Purtroppo, nell’assedio del 1635, subiscono molti danni dai soliti francesi: la loro masseria è completamente distrutta. Pur afflitti da problemi gravi resistono: la chiesa è sempre più in condizioni fatiscenti e precarie. Al tempo stesso cresce la dipendenza dal governo locale. Già dal 1834, vengono intraprese le pratiche per avere al suo posto quella di Santa Caterina, chiusa dal 1802 (per soppressione delle corporazioni religiose). Con ostinazione, riescono allo scopo nel 1836 e nel 1840 entrano nella nuova sede, riaperta al pubblico. Negli anni che seguono si confermano tra i più disponibili ad offrire azioni di misericordia e di carità in questa città. Poi, nel Novecento, il tempo trascorso accanto a tanti sogni svaniti, suggerisce a molti confratelli, o presunti tali, un addio alle armi; manca pure un rinnovamento generazionale e queste congreghe finiscono di esistere come istituzioni e alcune conservano soltanto un esiguo carattere religioso. Lo Stato sperimenta nuove forme d’assistenza, si sciolgono come neve al sole molte associazioni di volontariato, si crea così una situazione di grave disagio per tutte le misericordie rimaste, oggi attive principalmente per servizi socio-sanitari. Un nuovo modo di sentire e pensare, uno stato d’animo completamente diverso, ma anche un significativo impoverimento sociale.
Abbandonato all’incuria per molti decenni (nessuno vuol farsi carico del fardello, misto ad una certa avversione per la tradizione), negli ultimi anni l’Oratorio San Bartolomeo (con la chiesa), dopo troppe elucubrazioni e il solito carico di retorica, è finalmente stato oggetto di un approfondito intervento di restauro (ultimi anni ’90 e primi del 2000). Oggi l’edifico, per parecchio tempo trascurato, appartiene al Comune di Valenza ed è composto dal corpo centrale di pianta ottagonale (chiesa) al quale si congiungono due cappelle laterali, da un basso fabbricato già impiegato come sagrestia e situato all’angolo di piazza Lanza e via Banda Lenti, in un passato lontano utilizzato come sepolcreto, e da uno spazio a pianta rettangolare un tempo usato come coro e presbiterio, la cui volta a botte è crollata all’inizio degli anni Settanta. Mentre sull’area del vecchio monastero insistono vari caseggiati.
Restituire alla propria Città il suo monumento esistente più antico ha assunto un significato di grande valore culturale e sociale, ed ha offerto alla nostra “sbadata” città e alle varie istituzioni locali uno spazio pregevole per iniziative culturali (si fa per dire).
Esaminiamo ora San Bernardino. Come abbiamo visto, le Confraternite sono associazioni di fedeli create per l’esercizio d’opere di pietà e misericordia. A Valenza, alla fine del Medioevo, sono presenti diverse di queste compagnie laiche che praticano la carità, con la fondazione di ricoveri e chiese; a capo delle singole confraternite viene generalmente eletto il più anziano con la carica di rettore. Una delle più antiche, con una forte impronta sociale e popolare, è sicuramente quella di San Bernardino, che fa capo alla chiesa posta in fondo di via Cavallotti angolo via Santa Lucia: già via Provinciale, divideva sorte Astiliano da sorte Monasso. Pare che già ai primi anni del Cinquecento fosse in vita questa congrega e che la sua piccola chiesa, nata per volontà e sostegno della famiglia Mario, e non per capriccio divino, fosse posta in sorte Astiliano. Dopo il saccheggio dei francesi del 1557 (tutte le chiese sono devastate per raccogliere legna da ardere, smantellati pure i tetti) i confratelli procedono alla vendita di questa ormai angusta chiesa e ne costruiscono una nuova più avvenente, che è poi l’attuale (diventerà ancora più autorevole e capiente a seguito dell’ampliamento fatto a metà Settecento). In questo periodo si ha il consolidarsi delle confraternite e della loro funzione sociale; dispongono di rilevanti patrimoni, difatti ricevono beni, terreni, promuovono questue, provvedono a messe remunerate in suffragio di defunti. Nel ‘600, la confraternita di San Bernardino è fortemente sostenuta dalla famiglia Camasio, i suoi confratelli, che nelle cerimonie con sfoggio vestono in bianco, sono quasi un centinaio. Fin dai primi tempi, l’oratorio di questa confraternita è un posto di sosta in preghiera (un intruglio di religiosità, carità e mercato), non solo per i viandanti e pellegrini, ma anche per i pescatori e i mercanti che percorrono questa strada con lo scopo di recarsi al traghetto sul Po e per i molti che trasportano granaglie verso i mulini sul fiume.
Nel ‘700, in contrasto con la nuova mentalità liberale e con una certa disapprovazione sociale interna, la confraternita è pervasa da uno sfrenato senso religioso che si cela attraverso una sempre più esplicita dipendenza in tutto dal prevosto di Valenza, quindi una subordinazione diretta dalla parrocchia.
Il 24-3-1771, la compagnia si ascrive all’Arci-confraternita del Sudario di Roma e alla Compagnia della B.V. della Divina Grazia e della Misericordia. Pare per altro che qualche anno prima si sia pure aggregata ai disciplinati di S.Carlo. Ormai da tempo si vanno formando le arciconfraternite, cioè congregazioni che fanno parte di una rete generale, che adempie più opere e più obblighi: sono soggetti che generalmente non vacillano mai nella loro superiorità morale e religiosa.
Purtroppo, nell’età napoleonica si vivono anche qui anni d’enorme tensione e di tempo perso; come per le altre istituzioni devote, la nostra non naviga in buone acque, subisce le ristrettezze e gli aggravi ingiunti in questo frangente storico (soppressione di certe corporazioni religiose) ma, nel periodo successivo, le contribuzioni dei membri più facoltosi rendono opulenta la congregazione, possidente da tempo anche di terreni e di beni immobili (sin dalla metà del Seicento).
La legge Crispi del 1890 mette nuovamente sottosopra queste benemerite organizzazioni: confisca alle confraternite aventi scopo di culto tutti i beni che creano patrimonio, lasciando a loro solo oratori e chiese. Poi nel corso del secolo scorso, deformato dal pregiudizio, tutto lentamente si scolora; come già detto, scompaiono molte confraternite, cascano come vecchi frutti di un albero ormai consunto: ma non tutte. Bisogna essere pragmatici e guardare in faccia la realtà e durante la Resistenza, la chiesa di San Bernardino diventa un rifugio abbastanza protetto per alcuni partigiani.
Come capita spesso, nel corso del tempo, quest’edificio sacro ha quindi subito diversi cambiamenti e attualmente si presenta, per fortuna, in buono stato di conservazione. La facciata resta molto sobria, con un portone centrale sovrastato da una finestra ad arco. All’interno è custodito un pregiato organo, creato da Paolo Mentasti nel 1894 riutilizzando pezzi di un già esistente strumento del ‘700.
Per le confraternite, ora come in passato, il momento di più grande interesse è senza dubbio quello della processione, organizzata per la festa del proprio Santo. Negli ultimi tempi quella di San Bernardino e Sant’Eligio che, come abbiamo narrato, affonda le sue radici in un passato glorioso, contrassegnato da sentimenti di carità e amore verso il prossimo, è quasi ritornata a nuova vita. Recuperando, in un periodo carente di riferimenti morali e con una pedante scristianizzazione in agguato, le festività dei suoi accresciuti due Santi e promovendo con enfasi dimostrazioni pubbliche, quale il concorso annuale di Sant’Eligio (patrono di orafi e argentieri). Una tradizione notevole di forma e prestigio.