Giuseppe Rotunno: il maestro della luce
E' recentemente scomparso un grande direttore della fotografia, apprezzato a livello internazionale
CINEMA – È scomparso da pochi giorni a 97 anni, nella sua casa romana, Giuseppe (Peppino) Rotunno, grande direttore della fotografia, di fama internazionale. Candidato all’Oscar nel 1980 per “All that jazz” di Bob Fosse, ha vinto, tra gli altri, sette Nastri d’argento e due David di Donatello.
Rotunno è stato uno stretto collaboratore di maestri del cinema come Federico Fellini (“Il segreto di Santa Vittoria” “Satyricon”, “Roma”, “Amarcord”, “Il Casanova”, “E la nave va”, solo per citare alcune opere di cui ha curato la fotografia), Luchino Visconti (“Le notti bianche”, “Rocco e i suoi fratelli”, “Il gattopardo”, “Lo straniero”), Mario Monicelli (“La grande guerra”), Alan Pakula, Robert Altman e Sydney Pollack.
Nato a Roma il 19 marzo 1923, nel 1938 – alla scomparsa del padre, proprietario di una sartoria – il giovane Peppino è costretto a lasciare gli studi per supportare la famiglia: inizia, quindi, a lavorare a Cinecittà, dapprima come apprendista elettricista, poi in quanto addetto alla correzione dei negativi e allo sviluppo, stampa e lucidatura delle fotografie presso lo studio di Arturo Bragaglia.
In seguito diventa fotografo di scena e assistente di Renato Del Frate, anche se nel 1941 viene licenziato per essersi ribellato ai simboli del regime fascista. Operatore alla seconda macchina in “L’uomo dalla croce” di Roberto Rossellini (1943), è arruolato durante la guerra nel reparto cinematografico dello stato maggiore dell’esercito, con destinazione Grecia. Peppino viene fatto prigioniero dai tedeschi nel settembre 1943 e deportato in Germania, nei lager di Hattingen e Winten, dove lavora come proiezionista.
Alla fine del conflitto, a partire dal 1946 diventa assistente degli operatori Rodolfo Lombardi, Otello Martelli, Carlo Carlini e Gabor Pogany: la grande occasione arriva quando sostituisce Gianni Di Venanzo a fianco del direttore della fotografia di “Umberto D” di Vittorio De Sica (1952). È anche operatore nel primo film a colori di Luchino Visconti, “Senso” (1954), di cui porta a termine le riprese pur senza essere accreditato quando il direttore della fotografia Robert Krasker lascia il set per contrasti con il regista.
L’esperienza – in cui emerge la capacità di Rotunno di lavorare sui negativi a colori, scarsamente sensibili – costituisce il viatico per la promozione a direttore della fotografia: il suo primo film in questo ruolo è “Pane, amore e…” di Dino Risi (1955). Firma, in seguito, produzioni sia nazionali che internazionali, fra cui “Tosca” di Carmine Gallone (1956), “Policarpo, ufficiale di scrittura” di Mario Soldati, “La Maja desnuda” di Henry Koster, entrambi del 1959. Risulta estremamente raffinata ed elegante la sua fotografia nel bianco e nero di “Le notti bianche” (1957) e “Rocco e i suoi fratelli” (1960, per cui vince il suo primo nastro d’Argento), entrambi di Luchino Visconti, che rappresentano il suo primo incontro con il cinema del colto maestro milanese, amante delle atmosfere letterarie e pittoriche: il vertice di questa collaborazione verrà raggiunta con “Il Gattopardo” (1963), tratto dall’omonimo romanzo di Tomasi di Lampedusa e denso di riferimenti all’arte figurativa ottocentesca.
Nel frattempo, Rotunno lavora a fianco di Stanley Kramer nel film tratto dall’omonimo romanzo distopico dello scrittore anglo-australiano Nevil Shute “L’ultima spiaggia” (1959); con Valerio Zurlini nel 1962, per “Cronaca familiare”, con Mario Monicelli in “La grande guerra” (1959) e “I compagni” (1963). John Huston, nel 1966, lo chiama per il kolossal “La Bibbia”.
La fine degli anni Sessanta sancisce per Rotunno l’inizio di un’altra collaborazione prestigiosa: quella con l’amico Federico Fellini, in “Toby Dammit”, episodio del film collettivo “Tre passi nel delirio” (1968). Il rapporto lavorativo con il genio riminese si prolungherà sino quasi alla metà degli anni Ottanta, concludendosi con “E la nave va” (1983), e passando anche attraverso pellicole quali “Prova d’orchestra” (1979) e “La città delle donne” (1980).
In particolare, Rotunno saprà mettere in evidenza il viso intenso, chiaroscurale di Anna Magnani, al suo ultimo ruolo cinematografico in “Roma” di Fellini (1972), dove l’attrice viene definita il “simbolo della città” («Chi so’ io? Una Roma vista come lupa e vestale…. De che? …aristocratica e straccionesca, tetra, buffonesca»).
Nel 1973 il direttore della fotografia istituisce un sodalizio anche con Lina Wertmüller, a partire da “Film d’amore e d’anarchia” sino ad arrivare a “La fine del mondo nel nostro solito letto in una notte piena di pioggia”, 1979, pellicola che valorizza attraverso la creazione di un’atmosfera piovosa, notturna e crepuscolare. Nello stesso anno lavora per “All that jazz – Lo spettacolo comincia” di Bob Fosse, che gli spalanca nuovamente le porte del cinema americano: Rotunno collabora con Robert Altman (“Popeye – Braccio di ferro”, 1980), Fred Zinnemann (“Cinque giorni, un’estate”, 1981), Alan Pakula (“Il volto dei potenti”, 1981), Mike Nichols (“A proposito di Henry”, 1991; “La belva è fuori”, 1994), Sydney Pollack (“Sabrina”, 1995). In parallelo, prosegue il suo lavoro anche nel contesto del cinema europeo, con “Orfeo” di Claude Goretta (1985) e “Le avventure del barone di Munchausen” di Terry Gilliam (1988).
Tra le ultime collaborazioni italiane di Rotunno ricordiamo quella con Peter Del Monte per “Giulia e Giulia” (1987), con il Dario Argento di “La sindrome di Stendhal” (1996) e, infine, con Anna Mario Tatò, regista e ultima compagna di Marcello Mastroianni, per il documentario sull’attore “Mi ricordo, sì, io mi ricordo” (1997).
Già dagli anni Ottanta Rotunno si dedica all’attività di restauro dei classici del cinema italiano, insegnando dal 1988 al Centro sperimentale di cinematografia di Roma.
Un artista «il cui lavoro intreccia legami internazionali tra paesi e culture, la sua immagine cattura il dramma e la passione che era nel cuore dello sceneggiatore e nei volti degli attori, specialmente nei loro occhi»: così, nel 1999, l’attrice norvegese Liv Ullmann, musa di Ingmar Bergman, definisce la personalità artistica di Peppino Rotunno, conferendogli il premio dell’American Society of Cinematographers.