Faye Dunaway: lunga vita alla Signora
Ottant'anni per la diva, icona degli anni Sessanta e Settanta che fece perdere la testa anche a Marcello Mastroianni
CINEMA – Pochi giorni fa – il 14 gennaio – ha tagliato l’importante traguardo degli ottant’anni, forte di un inalterato fascino (quello che ha fatto perdere la testa, tra gli altri, anche al nostro Marcello Mastroianni, che ebbe una relazione con lei alle soglie degli anni Settanta, cadendo preda di una forte depressione quando l’attrice lo lasciò perché rifiutava un impegno sentimentale di lunga durata) e di una lunga carriera costellata di successi e premi (un premio Oscar, tre Golden Globe, un Bafta e un Emmy). Stiamo parlando di Dorothy Faye Dunaway, l’attrice di Bascom (Florida) che più ha incarnato tra gli anni Sessanta e Settanta una forma di divismo femminile altero e sofisticato, supportato da una recitazione elegante e incisiva.
Classe 1941, la giovane Faye si abitua sin dalla più tenera infanzia a cambiare spesso e volentieri orizzonte di vita, al seguito del padre, militare nell’esercito americano: dapprima studia recitazione all’università di Boston, poi si trasferisce a New York, dove diventa allieva di Elia Kazan, co-fondatore del mitico Actor’s Studio, ineguagliabile fucina di talenti.
Il debutto dell’attrice avviene al Lincoln Center Repertory Theater di Broadway, in “Un uomo per tutte le stagioni” di Robert Bolt, come sostituta di chi avrebbe dovuto interpretare la figlia di Tommaso Moro. Lo spettacolo resta in cartellone dal 1961 al 1963: nel corso degli anni la Dunaway avrà modo di cimentarsi in molte altre prove teatrali, su testi di Molière, Arthur Miller, Harold Pinter, George Bernard Shaw, Tennessee Williams.
Elliot Silverstein la scrittura nel 1967 per entrare a far parte del cast del film “Cominciò per gioco”, dove ha l’occasione di recitare al fianco di Anthony Quinn: nel medesimo anno arriva la grande occasione del ruolo di Bonnie Parker, la compagna del criminale Clyde Barrow (interpretato da Warren Beatty) in “Gangster Story” di Arthur Penn, per cui riceve la candidatura all’Oscar come migliore attrice protagonista.
Una seconda nomination le viene attribuita nel 1974 per “Chinatown” di Roman Polanski, noir di straordinario successo in cui – rivestendo i panni della figlia di John Huston – lavora con Jack Nicholson.
La Dunaway si aggiudica finalmente la meritata statuetta nel 1977, per il ruolo di Diana Christensen, cinica responsabile dei programmi di un’emittente televisiva americana e amante del funzionario Max Schumacher (un maturo William Holden) in “Quinto potere” di Sidney Lumet, pellicola sugli abusi mediatici del piccolo schermo.
Con il suo volto dal profilo importante e l’atteggiamento sfrontatamente ambiguo Faye incarna molto spesso figure femminili dal carattere forte e spregiudicato, come – nel 1968 – la Vichi Anderson de “Il caso Thomas Crown”, con Steve McQueen, oppure la malvagia Lady De Winter nel dittico di Richard Lester “I tre moschettieri” (1973) e “Milady” (1974); per non parlare dell’agghiacciante ruolo di Joan Crawford in “Mammina cara” di Frank Perry (1981). Importante la sua presenza nel capolavoro western “Il piccolo grande uomo” di Arthur Penn (1970), nel catastrofico “L’inferno di cristallo” (1974), come nella spy-story “I tre giorni del Condor” di Sidney Pollack (1975).
Sono molteplici anche i ruoli che le offre l’Italia: da quello della nobildonna affetta da un male incurabile in “Amanti” di Vittorio De Sica (1968), grazie al quale conosce e si innamora di Mastroianni, suo partner nel film; ad Annie, moglie dell’ex pugile Billy (Jon Voight) ne “Il campione” di Franco Zeffirelli (1979); alla luciferina contessa Matilde Von Wallenstein in “La partita” di Carlo Vanzina (1988); per concludere con il personaggio di Mrs. Colbert del film sull’Aids diretto da Lina Wertmuller “In una notte di chiaro di luna” (1989) e con la partecipazione al lungometraggio del regista torinese Louis Nero “La rabbia” (2008).
Negli ultimi decenni Faye Dunaway è tornata al suo primo amore, il palcoscenico, e si è dedicata alla televisione, interpretando Evita Peron nella miniserie omonima di Marvin J. Chomsky (1981), e comparendo nelle serie “Il tenente Colombo” (1993) e “CSI-Scena del crimine” (2006), oltre che nella quinta stagione di “Grey’s Anatomy” (2008-2009).
La sua più recente performance è stata nel thriller “Inconceivable” di Jonathan Baker (2017).
Oggi la sofisticata diva (che il marito Terry O’Neill ha fotografato in abito da sera e tacchi a spillo accanto alla piscina del Beverly Hills Hotel, la mattina seguente all’Oscar per “Chinatown”) continua instancabilmente a lavorare, sia nel mondo del cinema che della moda, mettendo la propria fisicità al servizio di diverse campagne pubblicitarie. Ricorda con precisione ogni dettaglio della sua brillante carriera cinematografica, ma preferisce guardare al futuro piuttosto che al passato.
In un’intervista rilasciata nel 2018 a Matteo Persivale del “Corriere della Sera” ha così espresso la sua ‘filosofia’ artistica e di vita: «Il regista, il cast, la storia: possono essere perfetti ma c’è sempre un elemento di incertezza, di azzardo. Di fortuna, anche, perché no? Sono stata fortunata: ho lavorato con persone fantastiche, a tutti i livelli. E per quel che riguarda la mia immagine di allora, ho avuto al mio fianco costumisti e stilisti assolutamente meravigliosi. Ma c’è un però, […] importantissimo. Il però è questo: appena quel lavoro attentissimo su ogni dettaglio è finito, lo dimentico, e vado avanti. Avanti. Sempre avanti. Sempre in movimento. […] “Conoscere sé stessi è l’inizio di una storia d’amore che durerà tutta la vita”, diceva Oscar Wilde: sapere chi siamo e dimostrarlo agli altri è una forma importante di seduzione. La fiducia in sé porta fluidità al modo in cui ci comportiamo, all’immagine che proiettiamo di noi. Ma l’energia è importante».