Carlo Verdone, i 70 anni e il suo cinema “un sacco bello”
Ventisette film da regista, trentanove da attore, quarant’anni ininterrotti di una carriera densa di riconoscimenti
CINEMA – «Questo libro è dedicato alla mia bella casa di Lungotevere dei Vallati 2. […] Una casa che ha visto un’infinità di persone e storie. Una casa piena di voci, allegra, signorile, poetica. […] La casa di tante gioie e di qualche atroce, inevitabile dolore. Ma anche la casa delle risate e delle sorprese».
Così l’attore e regista Carlo Verdone, reduce dai festeggiamenti per il settantesimo genetliaco (è nato a Roma il 17 novembre 1950), inizia il racconto autobiografico – denso di buffi aneddoti e di nostalgici ricordi – contenuto nel libro “La casa sopra i portici”, edito nel 2012 da Bompiani.
Il cinema di Verdone, in fondo, assomiglia in ultima analisi alla dimora avita, fulcro delle memorie d’infanzia e della prima giovinezza: è stato ed è tuttora allegro, divertente, affollato di una varia e pittoresca umanità, qualche volta solcato anche da una sotterranea vena di malinconia. E con una poesia di fondo che aleggia in ogni stanza.
Ventisette film da regista, trentanove da attore, quarant’anni ininterrotti di una carriera densa di riconoscimenti, fra i quali nove David di Donatello: queste sono le cifre dell’avventura cinematografica dell’artista romano, con l’unico dispiacere recente legato all’uscita in sala dell’ultimo film, “Si vive una volta sola”, bloccata per ben due volte dall’emergenza Covid (bisognerà attendere, per vederlo, il 2021).
«Ho voglia di stare all’aperto, di viaggiare al Nord e al Sud Italia, andare nella mia campagna, voglio quasi accarezzare l’Italia per essere stata violentata da questo terrore», ha raccontato Verdone la scorsa primavera, in un video all’interno dell’iniziativa “Prima e dopo il Virus: parla il cinema italiano”, realizzata dalla Fondazione Cinema per Roma su un’idea di Mario Sesti. «Quando tutto sarà finito, speriamo presto, l’atto d’amore per il mio paese sarà viaggiare qui, magari scoprire posti che non conosco. […] Noi autori riflettendo i desideri del pubblico […] scriveremo racconti divertenti, non avremo bisogno di film emotivamente catastrofici perché questo periodo è un brutto film e non lo vogliamo certo rivedere».
A dispetto della dichiarata ipocondria e dell’intervento all’anca che ha subito lo scorso settembre, Verdone ha preso con leggerezza e autoironia anche il raggiungimento dei settant’anni; in un post sui social ha, infatti, dichiarato: «Che dirvi? So’ tanti… Ma la mente è lucida, lo spirito positivo, le anche robuste. Quindi la corsa continua! Born to Run finché potrò». I suoi film sono ormai diventati dei “cult” e la galleria di personaggi macchiettistici da lui inaugurata con lo spettacolo “Tali e quali”, andato in scena nel febbraio 1977 al teatro Alberichino di Roma, e in seguito – nei primi mesi del 1979 – con la trasmissione televisiva Rai “Non stop”, si è consolidata nell’immaginario e nel gradimento del pubblico.
La stessa galleria stralunata, satirica e irriverente, che Verdone traspone nel medesimo anno in “Un sacco bello”, il suo primo film, prodotto da Sergio Leone, che segna l’inizio della collaborazione con gli sceneggiatori Leo Benvenuti e Piero De Bernardi, ancora attiva ai giorni nostri.
Si racconta che Leone abbia accompagnato di persona l’esordiente e ansioso regista agli stabilimenti della Dear, per il primo giorno di riprese, dopo una lunga passeggiata notturna da Ponte Sisto all’Isola Tiberina.
Da quel fulminante inizio, la carriera di Verdone inanella un successo dietro l’altro (da “Bianco, rosso e Verdone”, 1981 a “Viaggi di nozze”,1995, e “Io e mia sorella”, 1987, per approdare al David di Donatello ottenuto come miglior attore e con la miglior sceneggiatura per “Maledetto il giorno che t’ho incontrato”, 1991, solo per citare alcune tra le pellicole più amate), anche se negli ultimi decenni una parte della critica segnala un allentamento della sua carica umoristica.
Tutti si trovano, però, d’accordo sul fatto che Verdone – da comico e insieme da regista – abbia raccontato negli anni, mettendoli alla berlina, vizi e virtù dell’italiano medio, raccogliendo il testimone da Alberto Sordi, che nel 1982 lo chiamò per interpretare il ruolo di suo figlio ne “In viaggio con papà”, il film da lui diretto.
Da questa prestigiosa eredità artistica Verdone si è sempre pudicamente schermito: «Alberto Sordi non avrà mai eredi. Per il motivo, fra gli altri, che lui era una vera ed autentica “maschera”. E le maschere sono uniche…».
A proposito di maschere, il regista ha ricordato con affetto un altro grande interprete della romanità, Gigi Proietti, da poco scomparso: «Un attore gigantesco. Sul palcoscenico tra i migliori, se non il migliore. Enorme presenza scenica, maschera da attore dell’antica Roma, tempi recitativi sublimi. Era un volto che rassicurava che l’identità di questa città ancora vive».
Eppure, nonostante avesse avuto modo di frequentare il mondo del cinema (da Pier Paolo Pasolini a Michelangelo Antonioni, da Roberto Rossellini a Vittorio De Sica) sin dalla più tenera età, grazie al padre Mario Verdone, storico del cinema, docente universitario e per lungo tempo dirigente del Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, Verdone non immaginava che in futuro ne avrebbe fatto parte: «L’ultimo mestiere che pensavo di fare da grande era l’attore: sono sempre stato un ragazzo molto timido».
Proprio per superare quella timidezza i genitori – in particolare la madre Rossana, che il giovane Carlo accompagnava ogni giorno a fare la spesa, tra botteghe e mercati – lo esortavano a passeggiare per Trastevere, osservando con attenzione atteggiamenti, tic e manie delle persone.
I primi passi nel mondo dello spettacolo Verdone li muove accanto al fratello Luca, nel teatro dell’Università: seguono gli anni delle proiezioni per gli amici – il sabato sera – delle opere di Rossellini e delle sperimentazioni con i cortometraggi. Nel 1969, con una telecamera che ha comprato da Isabella Rossellini, il giovane Verdone gira un corto di venti minuti, “Poesia solare”, su musiche dei Pink Floyd e dei Greatful Dead. Di lì a qualche anno, nel 1972, si iscriverà al Centro Sperimentale di Cinematografia, diplomandosi in regia due anni più tardi.
Nella memoria affettiva di Verdone permangono con una straordinaria dolcezza le figure dei genitori, che hanno colmato le sue fragilità, spesso in modo imperativo; come quando il padre lo bocciò a un esame di storia del cinema, interrogandolo su Georg Wilhem Pabst anziché su Ingmar Bergman; o nel momento in cui la madre, il giorno del suo debutto al teatro Alberichino, azzerò il suo desiderio di fuga buttandolo letteralmente fuori di casa: «Si alzò dalla scrivania, mi prese per il collo e mi spinse fino alla porta di casa…Aprì con violenza la porta e mi diede un calcio nel sedere […]. Mi lanciò il giubbotto sulle scale e disse: “Piantala di fare il cacasotto! Vai subito al teatro, fregnone!…Un giorno mi ringrazierai!”».
In una recente intervista a “Vanity Fair” Carlo Verdone ha tracciato una sorta di bilancio di una vita e di una carriera molto dense, anche di esperienze dolorose, che è riuscito a sublimare attraverso il cinema: «Sono fortunato, ho rimosso le cose brutte, ma non ho dimenticato nulla delle belle. Ogni tanto sento un odore e mi riappare il passato. Il profumo dei nostri armadi, quello della casa che mia madre faceva riverniciare durante l’estate o l’altro, inconfondibile, dei libri di mio padre, […] l’uomo grazie al quale ho visto e conosciuto ambiti davanti ai quali da solo non sarei mai arrivato. Papà mi diceva sempre: “Mettici la poesia, Carlo. Mettici un po’ di poesia”».