Stefano Tessaglia: «Io, prete tra i malati, inadeguato di fronte ai bimbi che soffrono»
Cosa fa il cappellano dell'ospedale? Quali sono i problemi che si affrontano con i ricoverati e con i loro parenti? Quanto può essere importante, per molti malati, il suo ruolo?
ALESSANDRIA – «Prego, accomodiamoci». C’è un ufficio essenziale, di fianco all’ingresso della chiesa. Una scala interna conduce a un magazzino. Oltre, c’è la canonica, ovvero la casa di don Stefano Tessaglia, il cappellano del Santi Antonio e Biagio, l’ospedale in cui siamo venuti a trovarlo in occasione della festa del patrono.
Don Stefano, cosa fa il cappellano dell’ospedale?
Essenzialmente nelle mie giornate io ascolto. L’importanza dell’ascolto è sottolineata da ogni scuola pastorale e spirituale ma anche psicologica, perché davvero l’ascolto è il fondamento di ogni relazione. Quando una persona si sente ascoltata, sa di essere importante: è così importante che qualcuno spende il suo tempo per lei. Ascoltare però risulta molto più impegnativo che parlare o consigliare: a noi che siamo egoisti e egocentrici chiede di centrarsi sull’altro, mettendo tra parentesi noi stessi e il nostro mondo. Si impara così ogni giorno anche il silenzio e l’empatia. Io sono ancora all’inizio in questo e la tentazione di aver capito tutto, di offrire risposte preconfezionate o di non ascoltare fino in fondo, a volte c’è.
Quali sono i problemi che si affrontano con i malati o, magari, con i loro parenti?
Il malato è una persona in difficoltà, limitata o bloccata nella sua vita, spesso totalmente dipendente dagli altri: non è più padrone di sé. Questo viene sempre fuori nei dialoghi. Emerge la difficoltà di non essere a casa ma in un luogo estraneo, affiora spesso il pensiero del futuro o della morte, l’angoscia di non poter magari riprendere le normali attività quotidiane, di essere un peso per la famiglia. A questo si aggiunge poi la difficoltà della famiglia, che vive dall’esterno la malattia e spesso si divide di fronte alla sofferenza. Anche i parenti, in qualche, sono presi in carico dall’ospedale.
Quanto può essere importante, per molti malati, il suo ruolo?
Di certo io non sono il salvatore dell’ospedale, ma cerco di fare la mia piccola parte, come ognuno degli oltre duemila dipendenti dell’azienda ospedaliera. Diciamo che mentre gli altri si occupano di “curare” io dovrei cercare di “prendermi cura” del paziente, considerando tutte le componenti psicologiche, religiose e sociali del malato inteso come “soggetto” del percorso e non solo come “oggetto” che viene curato. In questo, devo dire la verità, non sono solo: il percorso di “umanizzazione” della medicina è ben presente agli operatori sanitari e i molti volontari che operano in ospedale danno un enorme contributo.
Tracciamo il bilancio di un anno di attività: qual è stato il momento più piacevole?
Sicuramente i momenti più belli sono quelli in cui la relazione riesce ad approfondirsi, le persone si aprono e si arriva a parlare di fede, una fede che è messa molto in crisi dalla sofferenza e che vorrebbe delle risposte ai molti “perché”. Poi mi lascia sempre piccoli sprazzi di gioia entrare nella chiesa dell’ospedale e vedere qualcuno dei dipendenti, magari in divisa, che sta pregando. Mi chiedo sempre: «Chissà chi sta portando davanti al Signore?».
Quando si è sentito in particolare difficoltà?
La sofferenza dei bambini, e quindi delle famiglie, lascia sempre senza parole e si vive l’inadeguatezza del proprio ruolo. È umanamente difficilissimo e in questo ammiro molto gli operatori dell’ospedale infantile.
Ci sono quindi differenze tra il lavorare al Civile e all’Infantile e al Borsalino?
Sono tre luoghi ma di una stessa realtà. In tutti c’è la grande professionalità del personale, che spesso va ben oltre allo stretto dovere lavorativo. Rispetto all’ospedale civile, che è una struttura grande e variegata, le realtà più piccole dell’infantile e del Borsalino fanno forse percepire di più l’aspetto di sentirsi in una comunità, quasi familiare, che accoglie e si prende cura. Ma questo, a pensarci bene, si sperimenta anche nel piccolo cosmo di ogni reparto del civile.
Le è mai capitato di essere stato rifiutato?
Certo, a volte succede, ma non spessissimo. Il momento della malattia lascia spiazzati, qualcuno vive sentimenti di ribellione e persino di vergogna e così non ha molta voglia di parlare o di esporsi. A volte sono proprio i credenti, che sentendosi in qualche modo “traditi” da Dio, si chiudono in se stessi.
Facciamo un augurio all’ospedale… nel giorno della sua festa.
È difficile. Anzitutto vorrei esprimere gratitudine per questo primo anno che vi ho trascorso: grazie a tutti per l’accoglienza ma soprattutto per le esperienze vissute insieme e per quanto ogni incontro mi ha dato. Poi auguro a tutti di continuare nella strada percorsa, sempre migliorando. A chi è ricoverato, auguro di superare questa fase della vita, conservando il proprio equilibrio, la speranza e anche un po’ di fede! A chi in ospedale lavora, auguro di ricordarsi anche nel nuovo anno di essere qui non unicamente “per” gli ammalati ma soprattutto “con” gli ammalati, sapendo ascoltare il loro pensiero, le loro esperienze ed esigenze, le loro proposte.