Face to face: “Il futuro era “prigioniero”del travaglio del proprio destino”, la storia di Francesco
FACE TO FACE – Settima puntata di Face to Face, la rubrica raccoglie le opere artistiche realizzate dai detenuti del carcere di Alessandria. Un’operazione ideata da Massimo Orsi che Il Piccolo pubblicherà su tutti i numeri fino ad ottobre, mese in cui verrà inaugurata una mostra dedicata al progetto. Oggi ospitiamo la storia di Francesco.
TUTTI I RACCONTI – La raccolta del progetto Face to Face
Io sono quell’essere che vuole essere per essere io sono
Era arrivato un tempo in cui non sapevo bene cosa stesse accadendo, era difficile distinguere le cose in regresso da quelle in progresso.
Il futuro era “prigioniero”del travaglio del proprio destino.
Era il 05 – 12 – 2017 e già da sessantanove anni mi chiamavano Francesco.
Pensai all’albero della vita. Che non finisce mai di fiorire.
Percepii il dolore delle mie figlie e di mia moglie e l’ultima cosa che vidi sul loro volto, le lacrime e, le ultime parole ascoltate: “Ti vogliamo bene”.
Il tragitto fu breve, traversato lo Stige, mi ritrovai all’inferno.
Mi resi subito conto che, sentirsi qualcuno e potere qualcosa, ciò che dota una persona di autorità, non mi appartenevano più; mi era stato tolto. Ero nel carcere delle Vallette di Torino con Luciano mio nipote.
Dovevamo chi dal dentro e chi dal fuori, vivere per superare questa dura e lunga “iniziazione”.
Ciascun essere durante la propria vita vive delle iniziazioni: battesimo, matrimonio, paternità ecc. Io feci molto tempo fa anche quella dell’unica scuola esoterica ed iniziatica occidentale: la Massoneria.
Il primo pensiero che mi venne alla mente, entrando allora nel gabinetto di riflessione, solo e spaurito e oggi in una cella buia, sporca, fredda, logora di sofferenza fu: “Io sono quell’essere che vuole essere per essere io sono!”.
Cosa voleva insegnarmi quell’inferno?
Dovevo concentrarmi!
La presenza di un ostacolo doveva essere rimossa con la concentrazione e la forza, cambiare la qualità del negativo e portarlo al minimo livello di qualità di vita.
Come si dice: “L’unione fa la forza” e con ciò s’intende l’alleanza delle volontà individuali per il raggiungimento di uno scopo comune: Tentare di sopravvivere decentemente.
Cominciammo a pulire, pulire con ogni mezzo di fortuna, così passo la prima notte in carcere.
I giorni che seguirono non furono migliori, eravamo giunti a Babele, l’antica città biblica. Tutto era difficile, incomprensibile e ostico.
Dopo circa un mese io e Luciano fummo svegliati alle ore sei e trenta con un urlo: “Alzatevi, prendete la vostra roba e portate i materassi e le cose del carcere sotto! Muovetevi siete trasferiti!”.
Dove, come, quando e perché, non erano cose che dovevamo per il momento sapere!
Ancora una volta tornai nel “gabinetto di riflessione”dove vi era un biglietto con la scritta: “Uomo conosci te stesso”, ancora una volta, come in massoneria, bisognava smussare la pietra grezza e levigarla.
Salimmo ammanettati su un blindato, rinchiusi e ammanettati nelle cellette del mezzo, sentivamo solo le fermate. Il viaggio durò molte ore. Ci ritrovammo in un cortiletto; eravamo arrivati nella Casa di Reclusione San Michele ad Alessandria.
Dopo ore di visite mediche, psicologiche, prese d’impronte, foto, domande, stanchissimo mi ritrovai nella sezione 1b.
L’accoglienza fu pessima, nessuno mi voleva in cella assieme, nessuno voleva perdere il privilegio di restare solo. Finché un comandante sentenziò che dovevo stare nella cella n.3 con Max, e così fu.
Max fu educatissimo, restai con lui per circa due settimane, poi dettero a me e a Luciano una cella che si era liberata, ma dovemmo cominciare da capo a pulire!
Durante i mesi successivi, cambiammo ancora una volta la cella e giunsi così a una specie di chiave di volta: “Si muore per rinascere”.
La mia iniziazione era iniziata da apprendista. Forse ora si poteva pensare di lavorare per i piani superiori.
Ci occorsero dei mesi per conoscere e capire come vivere in quest’ambiente.
Cercai di mappare il territorio, conoscendone lo spazio e i tempi. Due elementi molto importanti per poter fare un programma di sopravvivenza nella nuova Babilonia.
Conobbi la dottoressa educatrice di riferimento e la sintesi dell’incontro fu: “ Lasciate ogni speranza voi che entrate”.
La mappatura servì molto poiché vi erano molte cose da conoscere, da comprendere, da evitare.
Mi misi al lavoro silenzioso. Fu necessario stabilire dei modi di comunicazione nei rapporti, sia con le guardie che con i detenuti. Dovetti portare la sfinge al di sopra dell’istintività, cioè trasformare l’automatismo in sfinge. Voglio dire che il desiderio istintivo, che si mostra come rabbia concentrata su un punto e cieco a tutto il resto, deve essere ridimensionato e portato alla meditazione.
Quest’operazione si riassume con la parola: “Tacere”.
Il lavoro impegnava molto l’organizzazione delle idee relative ai problemi della “Caduta” e della “Reintegrazione”, che passava inevitabilmente attraverso il perdono ed il pentimento.
Sapete ogni uomo è il prodotto di due forze modellanti: la forza di imitazione e la forza creativa.
Io avevo scelto quella creativa!
Dopo mesi e mesi di lavoro silenzioso, mi assegnarono ad un progetto: “Artiviamoci”.
Non mi parve vero di incontrare dei professionisti volontari, il cui obiettivo ideale era quello di stimolare la creatività di ciascuno di noi, partendo dal fare emergere la propria identità.
Imparai ad apprezzare Massimo Orsi e i suoi insegnamenti di Arte Contemporanea, il suo laboratorio m’insegnò tecniche di pittura nuove e con lui scrivemmo questa “identità”; la bottega di pittura di Piero Sacchi, i colori a olio, le tempere, la foglia d’oro, con lui realizzammo, aiutandoci e insegnandoci le tecniche tradizionali, buoni lavori creativi come i “Tarocchi”; il laboratorio d’incisione di Valentina Biletta che mi ha permesso di cimentarmi con la xilografia e la stampa con il torchio; i ragazzi del cinema che mi hanno intrattenuto, proiettando alcuni film e stimolato a riflettere sia sui contenuti che sulla forma delle varie proiezioni; i professionisti della fotografia che mi hanno insegnato che la fotografia è uguale per tutti, anche in carcere.
Ma la storia non finisce qui. Ci sarà ancora tempo per concentrarsi e riflettere su un argomento:
La libertà!
PUNTATA – 7