Nureyev – Il corvo bianco
"Ogni uomo dovrebbe danzare per tutta la vita. Non essere ballerino, ma danzare"
CINEMA – Da molto tempo, una ventina d’anni, l’attore inglese Ralph Fiennes (eccellente interprete shakespeariano celebre per i molteplici ruoli cinematografici, da Schindler’s List di Spielberg, 1993, a Il paziente inglese di Anthony Minghella, 1996, sino alla saga di Harry Potter in cui interpreta il malvagio Lord Voldemort e a quella di James Bond, dove si cala nei panni di Gareth Mallory/M) ha coltivato l’ambizione di raccontare la vicenda artistica e umana di uno fra i più grandi danzatori di tutti i tempi, Rudolf Nureyev.
“Non conoscevo molto di Rudolf Nureyev – spiega Fiennes, alla sua terza regia dopo Coriolanus (2011) e The Invisible Woman (2013), – ma quella storia mi è entrata dentro. Era perfetta per ricavarne un film: è così drammatico e tocca tantissimi temi. Dalla spinta a realizzare se stessi al divario ideologico tra Est e Ovest, al culmine della Guerra Fredda”.
Dopo la pubblicazione, nel 2007, del romanzo di Julie Kavanagh Rudolf Nureyev: the Life, l’attore-regista, coadiuvato dalla sceneggiatura di David Hare (collaboratore di Stephen Daldry per The Hours, 2002, e The Reader, 2008), dal direttore della fotografia Mike Eley e, soprattutto, dal ballerino e coreografo Johan Kobborg per le scene con protagonista Oleg Ivenko, danzatore ucraino della compagnia Tartare State Ballet, si sente finalmente pronto a raccontare la personalità e la storia del “corvo bianco”, un artista alle cui rare intensità e bellezza fa riferimento il paragone con il leggendario e ormai estinto volatile, presente anche nella mitologia celtica.
Presentato al Torino Film Festival lo scorso autunno (in coincidenza con gli ottant’anni dalla nascita, e con i venticinque dalla morte, avvenuta a Parigi il 6 gennaio 1993, all’età di 55 anni), nelle sale italiane in questi giorni, Nureyev – Il corvo bianco è un biopic capace di andare oltre le regole codificate del genere, mettendo al centro lo scandaglio del carattere e delle scelte di vita del ballerino nativo della cittadina russa di Ufa, che ha rivoluzionato il concetto di danza classica maschile, attribuendo alla figura maschile un ruolo e un valore altrettanto importante quanto quello femminile.
Un ballerino, Nureyev, ma anche un uomo di straordinaria curiosità intellettuale, contraddittorio nel suo continuo oscillare tra opposte pulsioni, con una tempra d’acciaio, come lui stesso riconosceva: “Sono tartaro. Sento questa differenza nella mia carne. Il sangue tartaro scorre più veloce. In un certo senso è sempre pronto a bollire. Siamo una bizzarra mescolanza di tenerezza e brutalità, una miscela che esiste di rado tra i russi. Un tartaro è, in effetti, un animale piuttosto complesso”.
“Tartaro volante” è il soprannome che gli diede la stampa dopo la sofferta decisione di rimanere in Occidente, nell’occasione della sua prima trasferta di lavoro a Parigi con la compagnia Kirov di Leningrado (oggi Teatro Mariinsky di San Pietroburgo): un viaggio che – come ricostruisce Fiennes con dovizia di particolari – permette a Nureyev di assaporare il gusto della libertà, artistica e sentimentale (le relazioni amorose più note dell’artista furono quelle con la danzatrice Margot Fonteyn e con il ballerino danese Erik Bruhn). “Ogni uomo dovrebbe danzare per tutta la vita. Non essere ballerino, ma danzare”, disse un giorno il “Corvo bianco”.
Il regista Fiennes orchestra in immagini questa inesausta e coraggiosa danza, dalla nascita avventurosa nel 1938 su di un treno in corsa – figlio di contadini di origine musulmana – all’infanzia travagliata, con il padre che avversa la sua passione per la danza, per approdare ai primi studi come ballerino all’accademia del teatro Kirov di Leningrado, sotto la guida di Alexander Pushkin (interpretato con misura e partecipazione da Ralph Fiennes).
L’uso sistematico di espedienti stilistici come i ripetuti flashback e flashforward permette al regista di aggirare il fattore tempo per offrire una panoramica la più esaustiva possibile sui diversi passaggi dell’esistenza di Nureyev, che vanno a coagularsi nella scena all’aeroporto Paris-Le Bourget, sedimentandosi sulla scelta che ha costituito un vero e proprio evento-spartiacque per il geniale danzatore: la decisione di non fare mai più ritorno in Russia (Nureyev farà eccezione una sola volta, nel 1987, per visitare la madre in fin di vita) in seguito alle pressioni del KGB, la richiesta di asilo politico alla polizia francese. Un momento già rievocato nel 198 dal film di Claude Lelouch Bolero (Les uns et les autres), qui riproposto da Fiennes con altrettanta complessità emotiva e un lavoro certosino su ambientazioni e luoghi: nello specifico, l’aeroporto Le Bourget di Parigi è stato ricostruito dalla scenografa francese Anne Seibel tra Serbia e Croazia. “La storia si svolge principalmente in due città straordinarie, Leningrado (San Pietroburgo) e Parigi”, spiega il regista. “Abbiamo davvero combattuto per ottenere il budget per girare in questi luoghi, dato che Parigi è molto cara e la Russia ha particolari condizioni in termini di praticità e permessi. Ma tutti sentivamo di dover girare in questi posti. Avevamo bisogno di quella veridicità”.
Il lavoro ricostruttivo e di documentazione messo in atto da Fiennes è eccellente, magnifico il non attore protagonista Ivenko, nella sua capacità di aderire con la propria fisicità a quella ineguagliabile di Nureyev: questa meticolosa precisione supplisce ad alcuni vuoti estetici e di senso, inevitabili quando si racconta un carattere “bigger than life”, definizione coniata dagli americani per indicare una personalità fuori del comune.
“Sono quasi vent’anni che medito sul romanzo Rudolf Nureyev: The Life di Julie Kavanagh”, conclude Ralph Fiennes. “Vent’anni fa, quasi dieci prima del mio debutto dietro la macchina da presa con Coriolanus, non pensavo certo che sarei stato proprio io a dirigere la storia del ballerino più famoso del mondo, il primo cittadino sovietico illustre a disertare la propria patria per trasferirsi in Occidente. Io non l’ho mai visto sul palco e non sono così interessato al balletto, ma sono affascinato da questo artista ossessionato non solo dalla danza, ma anche dal desiderio di rendere densa di significato la sua presenza sul palco. Nureyev […] reinventò la performance maschile rendendola molto più intensa. Divenne un vero e proprio attore drammatico. Rudolf veniva dal nulla, era poverissimo, ma seguendo la sua vocazione è diventato un simbolo di libertà e autodeterminazione. Vorrei allora che il suo percorso umano e artistico insegnasse ai giovani quanto si può andare lontani quando si inseguono i propri sogni senza temerne le conseguenze”.
The White Crow
Regia: Ralph Fiennes
Interpreti: Oleg Ivenko, Adèle Exarchopoulos, Culpan Nailevna Chamatova, Ralph Fiennes, Aleksey Morozov
Sceneggiatura: Julie Cavanagh
Fotografia: Mike Eley
Musica: Ilan Eshkeri
Distribuzione: Eagle Pictures
Origine: Gran Bretagna/Francia 2018
Durata: 121′