Il tesoro di Marengo ha 90 anni
Storia, misteri e contenziosi di un tesoro scoperto per caso alla cascina Pederbona, un sontuoso complesso di argenti decorati a sbalzo e in alcuni casi dorati. I reperti sono visibili al Museo Reale di Torino
Storia, misteri e contenziosi di un tesoro scoperto per caso alla cascina Pederbona, un sontuoso complesso di argenti decorati a sbalzo e in alcuni casi dorati. I reperti sono visibili al Museo Reale di Torino

Si trattava di un sontuoso complesso di argenti decorati a sbalzo e in alcuni casi dorati. Il primo oggetto recuperato, informe e schiacciato dal peso sopportato nei secoli, era un vaso decorato con foglie d’acanto. L’opera, realizzata nella seconda metà del II secolo d.C, dopo un magistrale restauro rivelò proporzioni perfette e una tecnica d’esecuzione raffinatissima: le foglie argentee si alternavano a foglie di loto dorate, in contrasto col fondo puntinato, che produceva sofisticati contrasti ed effetti coloristici.

Un altro gioiello di elegantissima maestria consisteva in un elemento decorativo in argento, destinato alla spalliera di un letto; si trattava di una lastra lavorata a sbalzo con una figura femminile di menade (figura mitologica seguace del dio del vino, Bacco) immortalata di spalle nell’atto di bere da una coppa. La fanciulla era circondata da un motivo floreale stilizzato che le danzava attorno, reso tramite un bassorilievo di girali che scaturiscono da un cespo d’acanto. Questo gusto decorativo, ai nostri occhi così vicino all’Art Nouveau o a una tela di Klimt, era nato in ambiente ellenistico per poi approdare a Roma, dove aveva trovato fortuna nell’ornamento di elementi architettonici, monumenti e vasellame d’argento da tavola.
C’era questo e molto altro sul divano dei Tartara, tra cui elaborati fregi decorativi a motivi floreali e geometrici, una testa femminile a tutto tondo e una fascia di rivestimento raffigurante un pantheon di divinità in altorilievo, oltre a numerosi oggetti votivi da incastonare nei mobili per impreziosire gli arredi. Proprio da questo dettaglio, oltre alle circostanze del suo fortuito ritrovamento, nacque la domanda: da dove arrivava il tesoro di Marengo, e cosa ci faceva alla cascina Pederbona?

Proprio il nome del devoto, Vindio Veriano, suggerisce invece la posizione geografica di provenienza del tesoro: Pavia, dove alcune fonti epigrafiche attestano la presenza della gens Vindia. Secondo questa ipotesi, gli oggetti di Marengo sarebbero stati trafugati dal sacello in un periodo non lontano dalla loro datazione, cioè durante le incursioni di Franchi e Alamanni (III° sec. D.C.), che attraversate le Alpi si lanciarono in scorrerie devastatrici in tutta la pianura padana, grazie alla disfatta dell’esercito romano. Gli scontri decisivi si consumarono proprio a Fano e a Pavia che, ripetutamente coinvolta in episodi di vandalismo e saccheggio, sarebbe stata depredata anche del Tesoro di Marengo. Forse, parte di un bottino toccato a uno dei saccheggiatori, la collezione fu riposta in una cassa di legno e nascosta in un edificio nelle campagne di Marengo, che crollò seppellendo gli arredi votivi sotto le macerie.
Questa la storia che precedette il colpo di zappa che vibrò contro quei capolavori quasi duemila anni dopo, e a cui seguì una vicenda giudiziaria non meno complessa. Quando lo Stato Italiano acquisì i reperti, destinò metà della stima d’acquisto al titolare del fondo e allo scopritore: in totale oltre 250 mila lire, da spartire tra i due fortunati.
Sebbene le circostanze del ritrovamento sembrassero a quel punto definite, la notizia del premio sconvolse tutto ciò che fino a quel momento era stato dato per assodato. Da uno, gli scopritori si fecero mille: davvero era stato un semplice contadino? O forse il figlio del proprietario, Francesco Tartara omonimo del padre? O ancora l’operaio sterratore Enrico Raina, interrogato durante un sopralluogo del 1936?

La vicenda si complicò ulteriormente anche per la parte di premio spettante al proprietario. Per questo riconoscimento il cavalier Francesco Tartara, padre del presunto scopritore, affermava di aver stipulato un compromesso di vendita della tenuta dagli eredi Gabba nel 1927, un anno prima del ritrovamento del tesoro. Al contrario, i Gabba sostenevano di non aver stipulato alcun compromesso, e che i Tartara occupavano la cascina solo a titolo di conduttori. Nella causa svoltasi dinanzi al tribunale di Alessandria, il cavalier Tartara non fu in grado di produrre un atto scritto che attestasse il passaggio di proprietà, consegnando quindi la vittoria ai Gabba.
Insomma, a voler fare gli spiritosi, parrebbe che i Tartara venissero “gabbati” sul filo di lana dai Gabba. Notizie certe a suggello di queste intricate vicende, però, non se ne trovano più. I Tartara hanno sempre asserito di non aver mai incassato alcun premio, né per il ritrovamento né per la proprietà del terreno. Quel che è certo è che i preziosi reperti sono visibili presso il Museo Reale di Torino.