Il tesoro di Marengo ha 90 anni
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Alice Chirivì  
4 Novembre 2018
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Il tesoro di Marengo ha 90 anni

Storia, misteri e contenziosi di un tesoro scoperto per caso alla cascina Pederbona, un sontuoso complesso di argenti decorati a sbalzo e in alcuni casi dorati. I reperti sono visibili al Museo Reale di Torino

Storia, misteri e contenziosi di un tesoro scoperto per caso alla cascina Pederbona, un sontuoso complesso di argenti decorati a sbalzo e in alcuni casi dorati. I reperti sono visibili al Museo Reale di Torino

ALESSANDRIA – La zappa vibrò nelle mani del contadino, scoprendo un segreto celato nelle viscere della terra. Era la primavera del 1928, e quell’anno le campagne di Marengo non restituirono solo i consueti frutti, ma anche un tesoro ben più prezioso. Accadde in un campo della cascina Pederbona, dove dei braccianti stavano lavorando a uno scasso profondo nel terreno; dal sottosuolo emerse un primo informe oggetto metallico, voluminoso e pesante, seguito da un busto in lamina sottile quanto deformata. Poche palate dopo, la seconda sorpresa: due grandi lastre d’argento finemente decorate. Un mistero spuntato all’improvviso, che i Tartara, proprietari della cascina, vollero celare ancora per un po’. Allontanati i testimoni del ritrovamento, completarono di nascosto il recupero degli oggetti, per poi fotografarli sul divano di casa. L’asimmetricità nella disposizione degli oggetti, concentrati sul lato sinistro del sofà, ha suggerito che i Tartara possano aver frettolosamente rimosso qualche reperto prima di scattare la foto; quel che è sicuro, è che alcuni dei pezzi non furono mai consegnati al Museo Nazionale Romano, dove il resto del Tesoro giunse il 1° giugno del 1928 per il restauro.

Si trattava di un sontuoso complesso di argenti decorati a sbalzo e in alcuni casi dorati. Il primo oggetto recuperato, informe e schiacciato dal peso sopportato nei secoli, era un vaso decorato con foglie d’acanto. L’opera, realizzata nella seconda metà del II secolo d.C, dopo un magistrale restauro rivelò proporzioni perfette e una tecnica d’esecuzione raffinatissima: le foglie argentee si alternavano a foglie di loto dorate, in contrasto col fondo puntinato, che produceva sofisticati contrasti ed effetti coloristici.

Ma l’oggetto che contribuì maggiormente alla ricchezza e alla datazione del tesoro era un busto loricato (dotato di armatura, ndr) di Lucio Vero, realizzato a tutto tondo e a sbalzo in lamina d’argento. Il ritratto non risparmiava all’imperatore i suoi difetti, come il naso storto, gli occhi strabici e alcune asimmetrie su cui l’artista fondò un riuscitissimo equilibrio carico di tensione. L’identificazione del soggetto consentì di stabilire il periodo di fattura dei reperti, probabilmente contemporanei a Lucio Vero, che resse l’impero insieme al fratello Marco Aurelio dal 161 al 169 d.C.

Un altro gioiello di elegantissima maestria consisteva in un elemento decorativo in argento, destinato alla spalliera di un letto; si trattava di una lastra lavorata a sbalzo con una figura femminile di menade (figura mitologica seguace del dio del vino, Bacco) immortalata di spalle nell’atto di bere da una coppa. La fanciulla era circondata da un motivo floreale stilizzato che le danzava attorno, reso tramite un bassorilievo di girali che scaturiscono da un cespo d’acanto. Questo gusto decorativo, ai nostri occhi così vicino all’Art Nouveau o a una tela di Klimt, era nato in ambiente ellenistico per poi approdare a Roma, dove aveva trovato fortuna nell’ornamento di elementi architettonici, monumenti e vasellame d’argento da tavola.

C’era questo e molto altro sul divano dei Tartara, tra cui elaborati fregi decorativi a motivi floreali e geometrici, una testa femminile a tutto tondo e una fascia di rivestimento raffigurante un pantheon di divinità in altorilievo, oltre a numerosi oggetti votivi da incastonare nei mobili per impreziosire gli arredi. Proprio da questo dettaglio, oltre alle circostanze del suo fortuito ritrovamento, nacque la domanda: da dove arrivava il tesoro di Marengo, e cosa ci faceva alla cascina Pederbona?

Un dono votivo da parte di Vindio Veriano alla dea Fortuna Melior, raffigurata inoltre in disparte rispetto alle altre divinità nella fascia sovracitata, fornì una chiave d’interpretazione in cui anche gli altri pezzi della collezione trovano un significato: probabilmente le opere ornavano l’arredo di un sacello pubblico o privato, legato al culto naturalistico professato dal collegio dei fratres arvales, in pieno vigore in età antonina.

Proprio il nome del devoto, Vindio Veriano, suggerisce invece la posizione geografica di provenienza del tesoro: Pavia, dove alcune fonti epigrafiche attestano la presenza della gens Vindia. Secondo questa ipotesi, gli oggetti di Marengo sarebbero stati trafugati dal sacello in un periodo non lontano dalla loro datazione, cioè durante le incursioni di Franchi e Alamanni (III° sec. D.C.), che attraversate le Alpi si lanciarono in scorrerie devastatrici in tutta la pianura padana, grazie alla disfatta dell’esercito romano. Gli scontri decisivi si consumarono proprio a Fano e a Pavia che, ripetutamente coinvolta in episodi di vandalismo e saccheggio, sarebbe stata depredata anche del Tesoro di Marengo. Forse, parte di un bottino toccato a uno dei saccheggiatori, la collezione fu riposta in una cassa di legno e nascosta in un edificio nelle campagne di Marengo, che crollò seppellendo gli arredi votivi sotto le macerie.

Questa la storia che precedette il colpo di zappa che vibrò contro quei capolavori quasi duemila anni dopo, e a cui seguì una vicenda giudiziaria non meno complessa. Quando lo Stato Italiano acquisì i reperti, destinò metà della stima d’acquisto al titolare del fondo e allo scopritore: in totale oltre 250 mila lire, da spartire tra i due fortunati.

Sebbene le circostanze del ritrovamento sembrassero a quel punto definite, la notizia del premio sconvolse tutto ciò che fino a quel momento era stato dato per assodato. Da uno, gli scopritori si fecero mille: davvero era stato un semplice contadino? O forse il figlio del proprietario, Francesco Tartara omonimo del padre? O ancora l’operaio sterratore Enrico Raina, interrogato durante un sopralluogo del 1936?

Il contenzioso parve risolversi dinanzi al tribunale di Genova, quando Francesco Tartara padre fu individuato come legittimo destinatario del premio per il ritrovamento. A sorpresa, però, una manifattura di Galliate, affermava di aver acquistato i diritti di scopritore dal cavaliere Romualdo Tartara, parente di Francesco Tartara, tramite una terza persona. Constatando che in Alessandria era in corso una spinosa causa tra il cavaliere e la manifattura, il tribunale genovese sospese momentaneamente il giudizio.

La vicenda si complicò ulteriormente anche per la parte di premio spettante al proprietario. Per questo riconoscimento il cavalier Francesco Tartara, padre del presunto scopritore, affermava di aver stipulato un compromesso di vendita della tenuta dagli eredi Gabba nel 1927, un anno prima del ritrovamento del tesoro. Al contrario, i Gabba sostenevano di non aver stipulato alcun compromesso, e che i Tartara occupavano la cascina solo a titolo di conduttori. Nella causa svoltasi dinanzi al tribunale di Alessandria, il cavalier Tartara non fu in grado di produrre un atto scritto che attestasse il passaggio di proprietà, consegnando quindi la vittoria ai Gabba.

Insomma, a voler fare gli spiritosi, parrebbe che i Tartara venissero “gabbati” sul filo di lana dai Gabba. Notizie certe a suggello di queste intricate vicende, però, non se ne trovano più. I Tartara hanno sempre asserito di non aver mai incassato alcun premio, né per il ritrovamento né per la proprietà del terreno. Quel che è certo è che i preziosi reperti sono visibili presso il Museo Reale di Torino.

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