Tra militari, bombardamenti e gallette in Cittadella
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Marco Madonia - marco.madonia@alessandrianews.it  
21 Settembre 2015
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Tra militari, bombardamenti e gallette in Cittadella

Ricostruiamo, attraverso le voci degli stessi protagonisti, alcuni dei passaggi della Seconda Guerra Mondiale che hanno interessato anche la fortezza alessandrina e i militari che lì ogni giorno vivevano. Dai bombardamenti alla fabbricazione del pane, ecco com'era la quotidianità in Cittadella...

Ricostruiamo, attraverso le voci degli stessi protagonisti, alcuni dei passaggi della Seconda Guerra Mondiale che hanno interessato anche la fortezza alessandrina e i militari che lì ogni giorno vivevano. Dai bombardamenti alla fabbricazione del pane, ecco com'era la quotidianità in Cittadella...

RACCONTI DALLA CITTADELLA – Il lavoro straordinario di raccolta di testimonianze compiuto da Enrica Balza, volontaria della sezione alessandrina del Fai, ci consente di proseguire il nostro appuntamento settimanale dedicato alla Cittadella e alle persone che lì hanno vissuto e lavorato. 

Oggi è la volta di alcuni racconti dedicati a chi ha prestato servizio nella fortezza nel periodo della Seconda Guerra Mondiale, come militare o come panettiere, impiegato nei forni per la produzione delle gallette, anche 10 mila al giorno. 

Sabbino, Boveri, Carbone, ci spiegano dettagliatamente, attraverso i loro ricordi, le fasi e le tecniche di produzione, senza dimenticare (nel video in fondo) episodi legati alla prigionia, ai viaggi in bicicletta, agli scherzi fra commilitori e ai bombardamenti.

Inizia Sabbino: “Per un paio d’anni fui il capoturno dei fornai; facevamo l’orario continuato divisi in tre turni. La mia mansione era, in pratica, quella d’infornare le gallette per i militari, gallette che andavano oltremare, in Africa, ma non solo. Pertanto i militari presenti in Cittadella non si servivano dei prodotti del mio lavoro, perchè diretti all’estero. Il nostro ambiente di lavoro era costituito da un’unica stanza molto spaziosa, posta su due livelli; sul livello superiore c’era il mulino con una tramoggia che macinava la farina e la mandava al livello inferiore; lì, dove ci trovavamo anche noi, c’erano un’impastatrice che serviva per amalgamare il duro impasto per le gallette ed una cilindratrice alla quale lavorava l’ormai defunto vigile alessandrino Segato. Gli avevo assegnato quel compito in ragione del suo fisico prestante: girando la ruota preparava la lunga striscia d’impasto che usciva dallo stampo in bronzo e, grazie alla trancia, prendeva la forma rettangolare quasi definitiva. Dopo questa operazione, le gallette venivano poste sulle tavole, nella camera di lievitazione, e venivano lasciate riposare per due giorni. Dal momento che tale camera era calda e umida, bisognava essere molto attenti a non farle marcire. Il passo successivo era quello di porle sui forni a piastra e cuocerle. Poi alcune operaie le ponevano in piedi, in file ordinate, all’interno delle casse, ottimizzando gli spazi. In questo modo le gallette venivano lasciate riposare e asciugare per altri due giorni. Infine, erano riposte con cura in buste bianche collocate a loro volta in cassette completamente foderate di lamiera ed erano pronte per essere spedite su carretti trainati da cavalli.”

Fra le iniziative del Fai, c’è anche quella di consentire ai lavoratori di allora di tornare in Cittadella, per rivisitarla oggi e ricostruire le proprie storie. Paolo Carbone è stato qualche anno fa a rivisitare i forni nei quali è stato impiegato, e racconta: ”I forni erano tre, estraibili, in ferro, con due piastre ciascuno, per un totale di sei piastre, tutti funzionavano a pieno regime; lo spioncino a sinistra della bocca di ogni forno serviva a controllare la cottura del pane. Gli alti comignoli garantivano un buon tiraggio del fumo che usciva dallo sportello e saliva verso la canna fumaria.”
Riconosce tutti gli attrezzi che usava abitualmente e che ora sono esposti, soprattutto le pale per infornare e poi girare le pagnotte. “Sul tavolo in mezzo al panificio 7-8 uomini impastavano 2-3 quintali di farina. Ognuno aveva un compito: il primo rovesciava la farina, il secondo versava l’acqua.. e così via fino ad arrivare alla pagnotta tipo ‘ciabatta’. Usavamo solo lievito completamente naturale, non lievito di birra che provoca la lievitazione. Esso veniva aggiunto all’impasto, aveva tempi di lievitazione maggiori, ma, grazie all’umidità, impediva a quest’ultimo di coprirsi di quella crosticina che ne modifica la consistenza e ne impedisce la cottura ottimale.”

E anche Renato Boveri (nelle foto dell’epoca), militare in Cittadella, racconta:  “Ricordo che, oltre ai tre forni a legna, c’erano tre forni elettrici riservati esclusivamente alle gallette: ne producevamo 10 mila al giorno e dovevano essere di peso e dimensioni prestabiliti (cm 10×15 e spessi 1cm), per essere facilmente impacchettate. Erano durissime, ma, se inzuppate, triplicavano il peso; duravano 3 anni. Erano date ai soldati in dotazione di riserva, la cosiddetta ‘razione K’ per i campi, insieme a una scatoletta di carne. Cuocevamo anche il pane e mentre le donne impacchettavano e un addetto contava i pani, arrivava sempre un civile a caricare le pagnotte da portare nelle altre caserme. Quest’ultimo era molto furbo e disturbava chi contava i pani e le gallette, così ne faceva mettere di più e poi li vendeva. Alla farina di grano aggiungevamo una parte di farina di mais perché costava meno ma il pane diventava pesante e duro come un mattone, quasi immangiabile. La razione era di una pagnotta a pranzo e di una a cena. Per la colazione ne avanzavamo un pezzo a cena. Rifornivamo anche la caserma Valfrè.
Il grano arrivava dal Consorzio con i camion e scaricato direttamente nel mulino ed era possibile immagazzinarne fino a 3400 sacchi al primo piano e 1200 al secondo Ma durava poco. Lo macinavamo e poi impastavamo la farina con l’acqua dei due pozzi in cantina e di quello in cortile. I forni andavano a legna, che arrivava con i camion e scaricata a formare cataste alte anche 4 metri.”
 

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