Cronaca
Difesa Solvay, “l’azienda tenuta all’oscuro sull’inquinamento”
Ultime repliche degli avvocati Solvay, Bolognesi e Santamaria: l'azienda non solo si difende, ma attacca enti, pubblico ministero e le aziende che l'hanno preceduta nella gestione dello stabilimento, Montedison (poi Edison) e Ausimont. Slitta ancora la sentenza, probabilmente ad ottobre
Ultime repliche degli avvocati Solvay, Bolognesi e Santamaria: l'azienda non solo si difende, ma attacca enti, pubblico ministero e le aziende che l'hanno preceduta nella gestione dello stabilimento, Montedison (poi Edison) e Ausimont. Slitta ancora la sentenza, probabilmente ad ottobre
ALESSANDRIA – Il coup de theatre degli avvocati di difesa Solvay è andato in scena, come prevedibile, durante quella che avrebbe dovuto essere l’ultima udienza del processo per avvelenamento delle acque e omessa bonifica contro le aziende del polo chimico di Spinetta Marengo. Ne da un assaggio l’avvocato Dario Bolognesi, il primo a parlare in aula davanti alla corte d’Assise presieduta dal giudice Sandra Casacci. Chiude Luca Santamaria con una arringa finale in cui tira in ballo tutti, dagli enti (Comune e Provincia) ai controllori (Arpa), agli inquirenti (pubblico ministero in primis), alle aziende che hanno preceduto Solvay nella gestione dello stabilimento, Montedison (ora Edison) e Ausimont.
Solvay, secondo la linea della difesa, parrebbe vittima, più che imputata. In questi anni, e nei precedenti, ci sarebbe stata una sorta di “cricca affaristica – politica” che ha “taciuto la verità”. Come per “l’affaire Fraschetta” (lo definisce, così, l’avvocato, il progetto finanziato attraverso fondi europei da Comune, Provincia e Regione), uno studio da un miliardo e mezzo di lire “soldi pubblici, vostri, nostri”, che non avrebbe contribuito a fare emergere la verità sul reale stato dell’inquinamento più che decennale; verità – dice – nota a tutti, tranne che a Solvay, arrivata solo nel 2002.
Posto che Solvay sarebbe venuta a conoscenza delle discariche al cromo, dell’alto piezometrico, dell’inquinamento della falda solo con lo l’emergenza del 2008, o per lo meno “progressivamente”, dal 2003 in poi, i difensori ricordano come, sulla base delle conoscenze ufficiali, l’azienda avrebbe proposto fin dall’inizio della conferenza dei servizi (2003) la realizzazione di una barriera idraulica e, successivamente, del potenziamento della stessa. Azioni che, dicono Bolognesi e Santamaria, “furono impedite” dagli enti.
A proposito del reato ipotizzato di inquinamento delle acque, poi, si torna sul concetto di acque destinate all’uso alimentare e su quello destinabile. “L’acqua di Spinetta è sempre stata buona” – dice Santamaria – Tutto il resto sarebbero “suggestioni” create dalla pubblica accusa.
Prova ne sarebbe che i pozzi di captazione dell’acquedotto pubblico ad un livello più profondo rispetto alle falde “di livello A e B”, quelle potenzialmente contaminate, a Villa Fanchiano “separata dai primi due livelli”.
Il pozzo Bolla chiuso per motivi precauzionali nel 2013? “Un alibi creato ad arte” per favorire l’accusa, secondo Santamaria. “A parte il fatto che quel pozzo non avrebbe dovuto mai essere aperto” nel 1974, in quanto non rispetta la distanza minima da un insediamento industriale e che comunque “è rimasto attivo dal 2008 al 2011”, quando l’emergenza cromo era già scoppiata.
Insomma, Solvay sarebbe il caprio espiatorio, la “mucca” da mungere e da condannare.
Accuse pesanti, quelle dell’avvocato Santamaria che invoca un nuovo filone di indagine, dove sul banco degli imputati ci dovrebbero essere altri soggetti. Un processo, questo,”che non avrebbe neppure dovuto inziare“.
“Inoltre, anche il risk assessment proposto dal Pm non può essere utilizzato come prova del pericolo. – continua Santa Maria – In nessuna parte del mondo è mai accaduto che un giudice penale o civile abbia condannato sulla base di un risk assessment”.
Almeno sette anni tra indagini e dibattiti in aula per un procedimento complesso, anche solo per la mole di documenti prodotti. La sentenza era annunciata a settembre, con la ripresa delle attività del tribunale dopo la pausa estiva. Ci sarà probabilmente uno slittamento. Restano ancora due avvocati della difesa da ascoltare perle arringhe finali, già fissate il 21 settembre e il 5 ottobre. Poi, la sentenza.
Solvay, secondo la linea della difesa, parrebbe vittima, più che imputata. In questi anni, e nei precedenti, ci sarebbe stata una sorta di “cricca affaristica – politica” che ha “taciuto la verità”. Come per “l’affaire Fraschetta” (lo definisce, così, l’avvocato, il progetto finanziato attraverso fondi europei da Comune, Provincia e Regione), uno studio da un miliardo e mezzo di lire “soldi pubblici, vostri, nostri”, che non avrebbe contribuito a fare emergere la verità sul reale stato dell’inquinamento più che decennale; verità – dice – nota a tutti, tranne che a Solvay, arrivata solo nel 2002.
Posto che Solvay sarebbe venuta a conoscenza delle discariche al cromo, dell’alto piezometrico, dell’inquinamento della falda solo con lo l’emergenza del 2008, o per lo meno “progressivamente”, dal 2003 in poi, i difensori ricordano come, sulla base delle conoscenze ufficiali, l’azienda avrebbe proposto fin dall’inizio della conferenza dei servizi (2003) la realizzazione di una barriera idraulica e, successivamente, del potenziamento della stessa. Azioni che, dicono Bolognesi e Santamaria, “furono impedite” dagli enti.
A proposito del reato ipotizzato di inquinamento delle acque, poi, si torna sul concetto di acque destinate all’uso alimentare e su quello destinabile. “L’acqua di Spinetta è sempre stata buona” – dice Santamaria – Tutto il resto sarebbero “suggestioni” create dalla pubblica accusa.
Prova ne sarebbe che i pozzi di captazione dell’acquedotto pubblico ad un livello più profondo rispetto alle falde “di livello A e B”, quelle potenzialmente contaminate, a Villa Fanchiano “separata dai primi due livelli”.
Il pozzo Bolla chiuso per motivi precauzionali nel 2013? “Un alibi creato ad arte” per favorire l’accusa, secondo Santamaria. “A parte il fatto che quel pozzo non avrebbe dovuto mai essere aperto” nel 1974, in quanto non rispetta la distanza minima da un insediamento industriale e che comunque “è rimasto attivo dal 2008 al 2011”, quando l’emergenza cromo era già scoppiata.
Insomma, Solvay sarebbe il caprio espiatorio, la “mucca” da mungere e da condannare.
Accuse pesanti, quelle dell’avvocato Santamaria che invoca un nuovo filone di indagine, dove sul banco degli imputati ci dovrebbero essere altri soggetti. Un processo, questo,”che non avrebbe neppure dovuto inziare“.
“Inoltre, anche il risk assessment proposto dal Pm non può essere utilizzato come prova del pericolo. – continua Santa Maria – In nessuna parte del mondo è mai accaduto che un giudice penale o civile abbia condannato sulla base di un risk assessment”.
Almeno sette anni tra indagini e dibattiti in aula per un procedimento complesso, anche solo per la mole di documenti prodotti. La sentenza era annunciata a settembre, con la ripresa delle attività del tribunale dopo la pausa estiva. Ci sarà probabilmente uno slittamento. Restano ancora due avvocati della difesa da ascoltare perle arringhe finali, già fissate il 21 settembre e il 5 ottobre. Poi, la sentenza.