Anche le sale cinematografiche destinate a diventare non-luoghi?
Uscire di casa per andare a vedere un film, da qualche anno a questa parte, più che un'occasione di incontro tra un immaginario ancora sconosciuto e il nostro modo di interpretarlo e farci affascinare da esso, sembra piuttosto il semplice processo di consumo di un servizio offerto nel modo più seducente possibile
Uscire di casa per andare a vedere un film, da qualche anno a questa parte, più che un'occasione di incontro tra un immaginario ancora sconosciuto e il nostro modo di interpretarlo e farci affascinare da esso, sembra piuttosto il semplice processo di consumo di un servizio offerto nel modo più seducente possibile
L’ultimo in ordine cronologico è il (fu) Cinema Galleria, che ha chiuso i battenti la scorsa estate. L’Ambra di via Brigate Ravenna già da qualche anno ha abbandonato le proiezioni destinando la sala ai soli spettacoli teatrali e musicali; il centralissimo Moderno, costruito nel 1913 e quindi per tutto il Novecento punto di riferimento dei cittadini ci ha lasciati nel 2006 e la struttura rimane tutt’ora inutilizzata, mentre al posto del Cinema Corso di via Dante, chiuso una decina di anni fa, ora c’è una farmacia. E per finire in bellezza (si fa per dire…) il drammatico caso del Teatro Comunale. Con le sue tre sale, Sala Grande, Ferrero e Zandrino, che per decenni hanno ospitato gli spettacoli delle più importanti compagnie teatrali nazionali e innumerevoli proiezioni cinematografiche, dall’ottobre 2011 è inagibile per una travagliata bonifica dell’amianto che sembra procedere tra mille rinvii e intoppi. Le sole due strutture rimaste sono il Cinema Kristalli del quartiere Cristo e il Cinema Teatro Alessandrino di via Verdi, entrambe proprietà della società Politeama Srl. I cinema in città quindi, in meno di una decina d’anni, sono passati da ben 7 a 2 soltanto.
Certamente è inutile negare che alcune di queste chiusure fossero probabilmente inevitabili e, in un certo senso, emblema del periodo di crisi generale che negli ultimi anni ha investito il nostro Paese. Mettiamo però un momento da parte i risvolti prettamente economici e legati ai meri calcoli di bilancio. Tutte queste “dipartite”, se analizzate da un altro punto di vista, non possono non assumere un ulteriore particolare significato, forse più sottile e profondo, che può essere interpretato come un segnale di svolta. Al momento è innegabile il fascino profuso dai multisala super attrezzati e super confortevoli come l’Uci Cinemas di Spinetta Marengo, fascino che probabilmente va a discapito dei (pochi) cinema tradizionali ancora presenti in città, i quali non possono competere in termini di offerta “di contorno”. Le svariate proiezioni proposte, le numerose e comodissime sale a disposizione, il bar in stile Mc Donald’s, la sala giochi generalmente frequentata dai giovanissimi prima e dopo le proiezioni, stanno facendo del multisala di Spinetta – dove è ormai consuetudine trovare posteggiate davanti all’ingresso macchine al neon da cui esce musica tecno ad alto volume – un punto fisso di ritrovo dei fine settimana delle giovani compagnie alessandrine e di quelle dei paesi limitrofi.
Questa fruizione sempre più commerciale di un certo tipo di intrattenimento artistico e culturale pare una tendenza inarrestabile e (forse?) inevitabile. La quantità, il comfort e i servizi-extra vengono prima di tutto, vivere la tradizionale ritualità tipica della sala cinematografica “a misura d’uomo” non è più così importante. Anche il cinema, inteso come luogo fisico, può essere accattivante e rifornito quanto un centro commerciale, il non-luogo per eccellenza. Ciò che è al di fuori della sala col suo schermo e la relativa platea deve risultare quanto o più attraente del contenuto che questa racchiude e che verrà mostrato, il film è relegato al semplice ruolo di accessorio. Dire “stasera vado al cinema” fino a poco tempo fa assomigliava molto alla frase “stasera vado a teatro”, il riferimento inconscio era di una visita ad un luogo particolare e in un certo senso unico, quasi liturgico, lontano e distaccato dall’agitazione urbana del quotidiano, un luogo dove per due ore era possibile restare soli con le proprie fantasie ed emozioni, come capita quando ci si abbandona ad un’appassionante lettura. Il cinema come contenitore di una necessaria intimità, errante ed incantata, da ritrovare, nutrire e conservare nel tempo. Oggi questo scenario privato vagamente onirico sembra essere messo a dura prova. La frenesia, il cui ingresso prima era severamente vietato, ora sembra quasi abbia ottenuto il permesso di sedere accanto a noi in platea.
Le sale dei nuovi multiplex sono tutte uguali, proposte in serie, una dietro l’altra, contraddistinte solo da numeri in progressione, le platee ricordano vagamente le gradinate di un palazzetto dello sport, i dipendenti con le loro sommarie divise sembrano commessi di un superstore del fai da te o di una catena svedese del settore arredamenti. Tutti segnali di una chiara impronta impersonale ed amorfa, una sorta di globalizzazione strutturale dell’offerta cinematografica per lo spettatore.
Uscire di casa per andare a vedere un film, da qualche anno a questa parte, più che un’occasione di incontro tra un immaginario ancora sconosciuto e il nostro modo di interpretarlo e farci affascinare da esso, sembra piuttosto il semplice processo di consumo di un servizio offerto nel modo più seducente possibile, seducente non per lo spirito o per la mente, ma più che altro per il portafoglio.
Questo tipo di concezione commerciale si riflette anche sulla distribuzione delle produzioni. I lungometraggi proiettati devono necessariamente garantire entrate sostanziose e per avere determinate sicurezze si favorisce il mainstream più dozzinale, quello più stuzzicante per il pubblico medio, di facile o addirittura elementare fruizione, dove capacità di giudizio, di attenzione e riflessione non sono necessarie. Tutto ciò ovviamente a discapito del cinema d’autore e delle opere di medio-alto profilo culturale, che sempre di più vengono relegate al ruolo di “marginale contorno riempitivo” nel palinsesto delle programmazioni dei vari multisala. Si rischia in questo modo di incoraggiare una sorta di diseducazione cinematografica che riguarda in particolar modo le nuove e future generazioni.
Un attimo però, questa evidentemente è ancora solo una tendenza, forse non è nemmeno il caso di esagerare col negativismo o essere eccessivamente “resistenti” nei confronti delle sale cinematografiche di nuova generazione. Questo non vuole essere un atto d’accusa (che probabilmente risulterebbe fine a se stesso….) quanto un tentativo d’analisi di un cambiamento sempre più palese che, inevitabilmente, si ripercuote sulle casse e sul futuro dei cinema tradizionali di provincia.
Per il momento pensiamo soprattutto ad una cosa, che rimane comunque indiscutibile, cioè il cinema stesso: lo schermo bianco di fronte al quale ogni volta ci sediamo per lasciarci sedurre e che, imperterrito, se ne sta per conto suo concedendosi solo ai nostri occhi e al nostro giudizio, lasciando fuori tutto il resto. Nonostante tutto lui (il Cinema, lo spettacolo) c’è sempre e scegliere il modo di viverlo e lasciarci rapire dai suoi artifici è una libertà creativa che nessuno ci può portare via.